“Certe cose non si possono comprare”. Per tutto il resto c'era una famosa carta di credito. Questo riuscito slogan pubblicitario sembra l'esatta fotografia del tennis asiatico: da qualche anno, forti di un'impressionante crescita economica, si sono presi un pezzo dei calendari ATP-WTA (soprattutto WTA, a dire il vero). Ma se i soldi bastano per organizzare grandi tornei e costruire impianti faraonici, è molto più complicato produrre buoni giocatori. La scorsa settimana, il Masters 1000 di Shanghai ha ospitato un evento celebrativo con alcuni ospiti illustri, simboli ed eccellenze del tennis asiatico. In rigoroso ordine cronologico, c'erano Vijay Amritraj, Michael Chang, Shuzo Matsuoka, Leander Paes e Kei Nishikori. Ok, Chang è nato e cresciuto negli Stati Uniti, ma il suo legame con l'Asia è sempre stato fortissimo, vuoi per gli occhi a mandorla, vuoi per l'amore sconfinato dei cinesi nei suoi confronti. Gli facevano persino girare spot pubblicitari ai piedi della Grande Muraglia. Ogni volta che si recava a Pechino era un delirio, simile a quello che deve vivere Kei Nishikori nelle sue apparizioni in Giappone. L'evento di Shanghai aveva funzione celebrativa, ma ha anche simboleggiato quel che manca al tennis asiatico: una vittoria Slam, replica al maschile delle imprese di Na Li. La presenza di Kei Nishikori (che continua a lottare con una certa fragilità fisica: ha dato forfait all'imminente torneo di Basilea) era simbolica, perché si tratta dell'unico asiatico davvero competitivo. Lo scorso anno ha raggiunto vette inedite per un tennista dagli occhi a mandorla, raggiungendo la finale allo Us Open. L'ha persa da Marin Cilic, ma sembrava il prodromo di un'imminente esplosione. Nel 2015, invece, ha incontrato tante difficoltà. “Na Li ha fatto cose incredibili, aprendo all'Asia le porte di uno Slam – dice Leander Paes, che di Major ne ha vinti 17 tra doppio e doppio misto – ma penso che Kei abbia aperto gli occhi a tanti giovani asiatici. Ha fatto capire che anche noi possiamo farcela. Da quando ho iniziato la mia avventura nel tour, nel 1990, il tennis asiatico è cresciuto anno dopo anno. E' stato sorprendente vedere la nascita di strutture di livello. Negli ultimi dieci anni si è sviluppata una forte consapevolezza del tennis professionistico: per questo, credo che una vittoria Slam non sia così lontana”.
MANCANO I COACH DI LIVELLO
Le parole di Paes, tuttavia, si scontrano con una serie di difficoltà oggettive. Alle spalle di Nishikori si è sviluppata una certa quantità, ma manca ancora la qualità. Una ventina d'anni fa c'erano soltanto tre asiatici tra i top-200 ATP. Oggi ce ne sono diciassette, ma il giapponese è l'unico tra i top-50. E non è incoraggiante il fatto che Kei sia un prodotto prevalentemente americano, giacché si è trasferito da Nick Bollettieri quando aveva 14 anni. La quantità è favorita dalla grande vivacità organizzativa: oltre ai maxi-tornei che vediamo in TV, il numero dei tornei challenger si è più che raddoppiato. Solo nel 2015 ne hanno ospitati 33, dando vita a fenomeni come Yen Hsun Lu e Go Soeda, il cui ranking si basa soprattutto sui challenger asiatici. Secondo Alison Lee, vicepresidente di ATP International Group, l'Asia è sempre più vicina. Le barriere linguistiche sono state quasi abbattute (ricordate Hyung Taik Lee, l'uomo che parlava solo in coreano?), gli sponsor sono in aumento e gli investitori hanno fiducia. Tutto questo è possibile grazie a Kei Nishikori “Proprio come era accaduto con Chang e Srichaphan: quest'ultimo è stato il primo asiatico tra i top-10”. Chang e Nishikori, in particolare, possono essere esempi importanti. Senza avere un gran fisico o chissà quale altezza, hanno fatto cose eccezionali. Quel che manca sono le accademie, i maestri, gli allenatori. Un mercato talmente vergine che persino Juan Carlos Ferrero ha deciso di provare a far qualcosa. La pensa così Vijay Amritraj, ancora oggi l'asiatico più titolato con 16 titoli di singolare. “C'è voluto tanto tempo per far emergere una superstar, ma spero che adesso arrivi un effetto a cascata come era accaduto alla Svezia dopo Bjorn Borg – dice Amritraj – il grosso problema dell'Asia risiede nella società e nella cultura: lo sport è visto come un grande rischio”.
LA MENTALITA' E' CAMBIATA
C'è paura delle conseguenze: che succede se non ce la fai? Gli asiatici, gente razionale, temono le conseguenze di un fallimento agonistico e spesso non ci provano neanche, magari rifugiandosi nei campionati interni, molto remunerativi e per nulla rischiosi. E' un fenomeno molto diffuso in Giappone, ma anche in Cina. “Però c'è un altro problema – ammonisce Amritraj – il tennis è diventato più fisico e l'altezza è sempre più importante. Gli asiatici non sono così alti, quindi è ancora più complicato emergere nel tennis. Credo che un fenomeno come Chang non possa ripetersi, ormai non ci si può limitare a correre dietro la palla”. Lo stesso Nishikori ha almeno un paio di colpi-killer, oltre ad avere un timing che ha incantato Bollettieri sin dalla prima volta che lo vide. Già numero 4 ATP, ha frantumato tutti i record giapponesi dell'Era Open: prima di lui, il migliore era stato Shuzo Matsuoka (n. 46 ATP). Nei primi anni 90, quando Shuzo si faceva onore e centrava i quarti a Wimbledon, certi traguardi sembravano preclusi. “Io rimasi scioccato anche solo dal fatto di essere entrato tra i top-100 – ricorda Matsuoka – Kei è piccolo ma ha un grande talento. Il suo arrivo ha dato grande fiducia ai giovani: tutti i junior asiatici credono di poter diventare numero 1 del mondo o vincere uno Slam. Io non pensavo nemmeno di entrare tra i top-50. Oggi è cambiato tutto”. Ma la strada è ancora lunga: per un continente che ospita oltre 4 miliardi di persone, avere diciassette top-200 non è un buon risultato. “Oggi la Francia ha una decina di top-100 ed è un piccolo paese – dice Alison Lee – credo che la globalizzazione si sarà compiuta quando avremo diciassette asiatici tra i primi cinquanta”. Questa è la grande scommessa. Ma avranno la capacità di farlo?