La segatura. Le scorie del taglio dei rami e dei tronchi. Nelle 335 pagine del libro delle regole dell’ATP non una, ma per due volte si fa riferimento alla segatura come dotazione tassativa per tutti i campi ufficiali dei tornei per professionisti. Anche quelli di allenamento. Insieme all’acqua e ad asciugamani “di dimensione acconcia”, ci vuole la polvere di legno, nonostante gli ultimi avvistamenti di segatura consumata per asciugare l’impugnatura siano dei primi anni Ottanta. Al circolo di Alba, inaugurato nel 1978, la cassetta verde della segatura è stata usucapita dalle vespe e i ragazzini la guardano come osserverebbero una racchetta appartenuta a Maud Watson, con quel misto di stupore e sufficienza che fa sentire anziano chiunque li colga.
Dal fagiolo alla Luna: sul libro del tennis dei professionisti grava in effetti un’aspettativa mica da niente, perché si tratta di armonizzare le massime questioni e le più sciocche minuzie sviluppate in decenni di storia di uno sport che era stato un’esclusiva degli atleti dilettanti e nel quale convivono ancora, nonostante l’unificazione del 1968, due entità eterogenee. C’è quella mondiale e “pubblica” dell’ITF e poi ci sono gli interessi particolari del sindacato privato dei giocatori, l’ATP, capace di crearsi e gestire un Tour ormai monopolistico. Dentro il rulebook c’è davvero di tutto: dalla ripetizione delle regole di base già contenute nel testo unico del tennis ITF (quanto è alta la rete, quanto devono essere larghi i corridoi, di che forma è ammissibile la racchetta) a exhibit cervellotici sui bordi, le fogge e la dimensione massima del rettangolino dello sponsor sulla manica, o sulle proporzioni dei loghi sulle credenziali da appendere al collo degli inservienti. Metti mai che qualcuno noti meno del dovuto il marchio del sindacato sul pass di un addetto che scopa la riga di fondocampo. L’ATP cura con attenzione maniacale la propria immagine, molto meno altre questioni che, però, interesserebbero il pubblico più dei millimetri di adesivo sul polsino. Pensate che il microfono dell’arbitro, volgarmente il gelato, deve avere “il cubo con i quattro lati occupati dal logo dell’ATP”. Se qualche torneo si azzarda a sistemare sul seggiolone un microfono anonimo, l’organizzatore rischia una multa fino a 50.000 dollari.
Per contro, in appena dieci righe e mezza di sorprendente agilità legislativa si liquida una questione capitale come quella delle cosiddette garanzie, gli ex sottobanco. Un tempo, i tornei mettevano a libro paga i giocatori di richiamo per garantirsi la loro presenza. Non è una bella pratica, ha le sue fondate ragioni di mercato ma non può piacere: essere pagati per provare a vincere un torneo è un controsenso sportivo. Dovrebbe essere interesse primario di un atleta partecipare per vincere, anche se la storia ci insegna che non è (più) così: in passato si allungavano soldi ai dilettanti perché ufficialmente non potevano percepire compensi, poi sono nate le superstar e i rapporti si sono capovolti. A parte gli Slam e i Master 1000, che manco i big intendono snobbare per ovvi motivi, se sei forte ti metti in piazza e firmi per il torneo 250 o 500 che offre di più. Bene. Gli organizzatori spendono e rivendono al pubblico, alla tivù e agli sponsor la partecipazione delle star. Solo che l’ATP sembra vivere su Plutone quando afferma (capitolo 1, paragrafo 1.16, lettera A) che “nessun giocatore può accettare denaro o altri beni di valore da alcuna fonte, direttamente o indirettamente, per influenzare o garantire la sua presenza in alcun torneo ATP o Challenger a parte il montepremi approvato”. Non si può essere pagati per giocare un torneo, non sta bene. Ma è pronta la scappatoia: le uniche eccezioni (lettera B) previste sono i denari che i tornei 250 e 500 possono dare ai giocatori per non meglio specificati “servizi promozionali”. E quale sarebbe il “servizio promozionale” che un Gasquet o un Dimitrov possono dare a un torneo, se non permettergli di gridare ai quattro venti che saranno della partita? Molto più onesto e realistico sarebbe liberalizzare una prassi ormai consolidata, anche perché l’ATP non ha il diritto di andare a spulciare i libri mastri di un torneo e non potrà mai chiedere l’esibizione di fatture di garanzia. Che esistono eccome e si pagano puntualmente. In ogni caso, a parte l’assenza di sanzioni per chi non rispetta questa regola (cioè tutti), ecco la solita clausola-scardinatutto: “A meno che non ci sia l’approvazione dell’ATP”. Che rende pure ingiusta, per violazione del principio di uguaglianza, una norma quotidianamente calpestata.
In fondo, una volta accettata l’anomalia di una parte in causa che si fa padrone della baracca, essendo l’associazione dei tennisti professionisti un organismo privato può permettersi regole stravaganti. Come la qualifica di “socio diligente”. Socio, sì, perché se non fosse chiaro i tennisti, per essere membri dell’ATP, pagano. Il testo fa riferimento a una generica “quota di associazione stabilita dalle regole interne” senza renderla pubblica, ma funziona così: se scegli la membership two, quella più economica, hai diritto a qualche facilitazione (l’accesso alle entry list dei tornei, il materiale statistico: il sindacato si fa pagare tutto) e te la cavi con 250 dollari. Se vuoi più vantaggi, invece, scegli la membership one: paghi 1.250 dollari e, in cambio, puoi allenarti gratis sui campi nelle due sedi del sindacato a Monte Carlo e a Ponte Vedra Beach, ti viene conteggiato l’anno agonistico ai fini della pensione e sei coperto dall’assicurazione (che interviene se devi fronteggiare situazioni gravi, come un’operazione chirurgica, utile soprattutto in Paesi in cui la sanità non è pubblica). Torniamo alla diligenza: è un concetto giuridico legittimo. Del resto anche nella vita di tutti i giorni se il socio di una società non è diligente, se cioè non fa ciò che è prescritto come obbligatorio o compie atti contrari ai suoi doveri, ne subisce le conseguenze. A casa ATP, però, c’è l’assoluzione del sovrano. Infatti vengono individuati quattro requisiti per essere ritenuti soci diligenti del sindacato: i primi tre sono normali obblighi societari – essere in regola con il pagamento delle quote, partecipare al Masters se ci si qualifica (e vabbè), prendere parte allo Stars Program, cioè le attività promozionali – ma il quarto (capitolo 1.07, lettera F, numero 4) è “essere altrimenti dichiarati dal presidente soci diligenti”. Insomma, stando alla lettera del regolamento il presidente, che in questo caso è anche l’amministratore delegato (1), può di imperio decidere che un giocatore è comunque “a posto” anche se non lo è. E allora che senso ha stabilire gli altri requisiti? Attenzione: la diligenza non è una clausola di stile. Non si viene sgridati, se non si è diligenti: se un giocatore non è a posto con l’associazione perde il diritto di iscriversi ai tornei, si vede cancellare un anno di credito pensionistico e vede negarsi, se guadagnati sul campo, i bonus-rendimento per il Masters di fine anno. Fortuna per i giocatori, queste cose non capitano mai.
Dalla lettura del libro delle regole si ricava la chiara sensazione che il legislatore ATP abbia la formazione culturale e la forma mentis del burocrate. Riferiamoci, per esempio, alle prescrizioni che riguardano i giudici di sedia. Sono rigorose , talora pedanti: “I giudici di sedia devono curare la propria igiene personale” (capitolo 5, lettera A, numero 5). Doccia e deodoranti per legge. Gli arbitri “non possono bere alcolici né prima della partita, né in generale quando sono in uniforme da lavoro, né nelle 12 ore che precedono il match che devono arbitrare” e va anche bene, ma era davvero necessario prevedere che “devono essere incensurati” (capitolo 5, lettera A, numero 9) e che “se patteggiano una qualunque pena in qualunque Stato” violano gli standard? A parte il fatto che si può arrivare a patteggiare una pena, per esempio, per aver dato dello stupido a un vigile urbano in un ingorgo letale. O a Stati in cui aprire una finestra senza autorizzazione della commissione edilizia o passare il limite di velocità di 5 km/h è reato: essere un pregiudicato non per forza significa essere un criminale. Ma pensate al Parlamento italiano che tuttora, nonostante il parziale repulisti dell’ultima tornata elettorale, accoglie ancora indagati, inquisiti, prescritti e pure sette condannati in via definitiva. Puoi scrivere la nuova legge finanziaria ma sei moralmente indegno di arbitrare Djokovic? Per carità, non è che i deputati e i senatori italiani forniscano un esempio di virtù e di opportunità, ma una regola così stringente crea disuguaglianze ingiuste.
Altre norme, invece, sfondano la barriera del ridicolo: i giudici, difatti, “non devono molestare sessualmente o abusare di altri ufficiali di gara, giocatori o personale del torneo”. Grazie per averlo specificato. Se ne desume che l’elenco sia tassativo e che quindi che uno spettatore, non citato nel novero delle potenziali vittime, possa essere liberamente violentato da un chair umpire. Salvo poi prendersi una condanna penale e, mannaggia, non poter più arbitrare.
Qua e là, nel testo, si torna su altri cavilli da azzeccagarbugli dei quali, in uno sport zeppo di conflitti di interesse e di contraddittorietà, onestamente non si sentiva la mancanza. Il bacchettonismo della sanzione al giocatore che non indossi vestiti “puliti” o che vesta in maniera “inconsueta” (può essere squalificato se non accetta di cambiarsi) fa il paio con l’obbligo di non “tatuare il logo di uno sponsor” sulla pelle per aggirare le restrizioni sui marchi commerciali. Non è permesso bere un integratore dalla borraccia con etichetta e neppure l’acqua da una bottiglia, a meno che non siano della stessa marca di quelli sponsorizzati nel dato torneo. Se giochi sull’erba, e qui pare davvero di essere incappati in un regolamento europeo sulla curvatura massima delle banane, le semisfere di gomma sulle suole per fare attrito sul terreno devono essere tra i due e i tre millimetri di diametro e non ce ne possono essere meno di 15 e più di 28 per pollice quadrato. Col risultato che i campi sono brutalizzati dopo un giorno di partite, da quando l’erba è stata artatamente rallentata trasformandola in “terba” da fondocampisti. Ma giacché quest’ultima questione era di importanza capitale si è fatto tutto sottotraccia, senza regolamenti né goniometri e bindelle: i giocatori più forti, a inizio Duemila, hanno barattato la disponibilità a giocare tutti gli Slam e i Masters 1000 con l’uniformazione delle superfici, ma ciò non risulta da alcun atto scritto. Le palline di gomma sotto le suole, invece, sono normate a più non posso.
Una regola tra le più risibili è quella per cui “il giudice di sedia, prima dell’inizio della partita, deve verificare la corretta pronuncia dei nomi dei giocatori”. In quanti modi, con quanti accenti e storpiature nazionali abbiamo sentito pronunciare Sharapova, Fognini, Muguruza o Janowicz? Per loro fortuna non sono previste sanzioni, altrimenti dovrebbero lasciare in cassa metà dello stipendio. Del quale, come avrete già intuito dall’andazzo, nulla si dice perché sono informazioni riservate. Si vocifera di settanta, ottantamila euro l’anno più tutte le spese coperte per i gold badge più presenti, gli arbitri più titolati. Soprattutto, non esiste alcun riferimento a ciò che veramente interessa chi si occupa di tennis: non solo quanto e come sono pagati i giudici di sedia ma come vengono selezionati e gestiti, come vengono multati o puniti in caso di errori plateali, come funziona il lavoro “a chiamata” dei giudici di sedia che devono farsi una posizione e si candidano ai tornei nella speranza di essere convocati. Non una parola per cercare riferimenti normativi a un caso come quello di Nadal, che può segnalare apertamente un arbitro sgradito (Carlos Bernardes) e ottenere di non trovarselo più in campo senza che nessuno batta ciglio. Del resto è tempo perso provare a domandare queste cose ai diretti interessati: l’ATP ci tiene a farci sapere che il colore preferito per pitturare i campi è il Pantone 281, un blu scuro, e che la postura del giudice di linea deve essere di regola seduta “con i piedi fermamente poggiati per terra e le braccia distese sulle gambe”, ma gli ufficiali di gara “non devono farsi intervistare né incontrare giornalisti, se le loro dichiarazioni riguardanti il loro lavoro possono essere trascritte o messe in onda, senza l’approvazione del Supervisor o del Referee”. Che, fidatevi, non è mai stata concessa da che l’ATP è al mondo. È una società privata, può imporre regole di comportamento ai suoi dipendenti. E la trasparenza? Pazienza, sarà per un’altra volta. O un altro sport.
Sbaglierò, ma sono abbastanza sicuro che per l’ATP i giornalisti siano ritenuti un male necessario. Fondamentali per dare eco al Tour, se magnificano le gesta dei campioni e le beltà dei tornei. Ma se qualcuno rammenta l’essenza della sua professione e si permette di rompere le scatole con una domanda legittima ma non genuflessa, toh: ecco che i sindacalisti diventano più sindacalisti di Lama, Cofferati e Camusso. Questo non si può sapere, qui c’è una policy di riservatezza, su tale argomento grazie, ma nessuna domanda. È sempre stato così: quando condannarono ingiustamente per doping Greg Rusedski e Bohdan Ulihrach perché l’ATP forniva integratori inquinati, transazione privata (e segreta) per evitare la causa. Da quando è stata costituita la Tennis Integrity Unit (a partecipazione ITP, ATP e WTA) non una notizia utile è stata fornita su chi scommette o si vende le partite. In fondo, la presenza dell’addetto-cane da guardia dell’ATP è faccenda ormai accettata da tutti ma rimane scandalosa: ogni intervista condotta nel corso dei tornei andrebbe preceduta da una postilla in cui si specifica che le domande sono ascoltate e, talora, filtrate da un addetto dell’ATP e che la durata del dialogo è rigorosamente contingentata.
Non solo i giocatori ma anche chi sta loro intorno è tenuto a rispettare un codicillo del capitolo 8, che fa riferimento a multe da 5.000 dollari a botta. Multe per cosa? Se il coach o un membro dell’entourage di un giocatore ha la libertà di parola e “non sono proibite espressioni di legittimo disaccordo con le politiche ATP”, e ci mancherebbe ancora, “tuttavia i commenti pubblici che una delle persone indicate sopra sa, o dovrebbe ragionevolmente sapere, danneggeranno la reputazione o l’interesse finanziario di un torneo, di un giocatore, di uno sponsor, ufficiale di gara o dell’ATP sono espressamente coperti da questa sezione (cioè dalla previsione di una multa)”. Chiamatela come volete: questa è censura. Prima di tutto perché è eminentemente soggettivo stabilire se un commento o un parere siano o meno lesivi degli interessi altrui. Ma poi, se danneggi la reputazione di un individuo esistono già le querele e le citazioni per danni fornite dalla giustizia ordinaria: che bisogno c’era di ribadire che ingiuriare o diffamare è vietato pressoché in ogni Paese del mondo? Infatti l’intenzione è un’altra: sterilizzare le dichiarazioni, fare in modo che non sia dica mai nulla se non le solite quattro sciocchezze su quanto è bello il torneo e quanto è piacevole giocare, anche se il centrale è un campo di patate e i servizi ai giocatori inaccettabili.
Passiamo appresso. Sei un giornalista e vuoi scrivere su Twitter, o anche a un tuo amico via sms, “doppio fallo di Murray” o “palla break Djokovic”? Devi aspettare 30 secondi da quando il fatto è accaduto. Cioè quando in tutto il mondo, considerati i ritardi per i rimbalzi del segnale via satellite, si sono accorti del fatto. Altrimenti, questa sembra essere l’idea dietro una prescrizione così grottesca, rischi di avvantaggiare gli scommettitori e, soprattutto, metti a rischio il tuo accredito. Altre indicazioni vengono date agli organizzatori per invogliarli a filtrare la navigazione web nelle aree del torneo, bloccando i siti di scommesse. Che poi le agenzie di betting sponsorizzino quegli stessi tornei non solo non è un male, anzi, evviva il gioco d’azzardo e tutti quelli che perdono barche di denaro scommettendo. Ma con pari opportunità di essere accalappiati dagli allibratori. Vabbè. Al di là delle opinioni di ciascuno sull’argomento, se c’è il rischio (ed è più di un rischio) che i giocatori si vendano i match, basterebbe abolire le scommesse nel tennis e rinunciare ai soldi offerti per promuovere la pratica del gioco d’azzardo, che in nessun caso – piacciano o no le scommesse – contribuisce a diffondere il valore dello sport.
Sempre nella sezione dedicata alle regole per i giornalisti, spicca l’indicazione secondo cui “la sala stampa deve essere allestita più vicino possibile agli spogliatoi dei giocatori”. Una pia intenzione. Per preservare il lavoro di tutti, poi, il regolamento impone una banda minima mondiale per Internet nei tornei ATP: 5 megabit al secondo in download e 0,6 in upload. Ma non per tutti: solo il supervisor, il Tour manager, il fisioterapista, l’addetto al punteggio, gli addetti marketing e pubbliche relazioni. I fotografi e i giornalisti? Che s’arrangino. Del resto, in Italia, la banda media è di 4,9 megabit: tornassimo ad avere più di un torneo ATP, rischieremmo di restare sotto lo standard.
Il digesto del tennis riserva qualche altra sorpresa. Esempio: sapevate che il giudice del net non è mai stato abolito, se non di fatto? Capitolo 6, paragrafo 6.06, lettera B, comma 3b: il giudice del net “può” essere sostituito da una macchina. Non deve, può. Nessuno vieterebbe di tornare alla moda antica, se qualcuno decidesse di non installare il sensore (che viene comunque contestato dai più polemici). A proposito del nastro: non si sa chi abbia mai verificato il rispetto della prescrizione ma deve essere di “stoffa, tela o vinile”. Oppure: l’illuminazione artificiale minima per giocare a tennis è 1.076 lux, che diventano 3.067 per i campi coperti dalla televisione in HD (ma non è un obbligo, solo un consiglio). Chi gioca i challenger, invece, non ha occhio di falco in campo ma gli è richiesta una vista da falco: bastano 750 lux e si gioca. Del resto, che nel sindacato ci siano figli e figliastri si evince da altre regole: nei tornei maggiori si gioca con sei palle, nei challenger con quattro (2). A ciascun giocatore ospite del torneo vengono fornite sei palle nuove al giorno per allenarsi (“gratis”, specifica il testo: si vede che qualcuno ha provato a farle pagare). Ciò che lascia davvero interdetti è che i tornei challenger possano chiedere 20 euro di quota partecipazione al torneo. Come un evento di quarta categoria!
Altra questione francamente inaccettabile: il servizio incordatura è fornito “a cura del torneo” e, con questa statuizione laconica, il sindacato se ne lava le mani. Ma il costo dell’incordatura è a carico del giocatore. L’ATP fornisce un “prezzo massimo raccomandato” (con cambio alla pari: 12 dollari o 12 euro) per racchetta, ed è tutto ciò che ritiene di dover dire per tutelare i suoi associati. Ma la raccomandazione è evidentemente caduta nel vuoto: l’esperienza dice che questo costo viene spesso raddoppiato. E non va bene: ci sono tennisti per i quali mettere a bilancio centinaia di euro a settimana per incordare gli strumenti di lavoro è tanto, anzi, è troppo. Ecco perché alcuni incordano pochissimo, rimettendoci in prestazioni, e la pratica di cambiare racchetta a ciascun cambio palle (con il cellophane offerto al raccattapalle di turno, scena spesso trasmessa in tivù) non è un’abitudine di tutti ma un lusso appannaggio di pochi. E quando si legge di Dustin Brown che, per arrotondare, incordava racchette ai suoi colleghi nei challenger, si può sorridere. Passata l’ilarità, però, non sarebbe male indignarsi anche un po’.
Vogliamo parlare di un altro bisogno primario di un atleta, il cibo? Bene, il diritto al pasto non c’è. Un torneo “può”, non deve, dare da mangiare ai suoi giocatori. Poi c’è un’appendice particolare sulla dieta: i giocatori devono poter mangiare piatti “poco speziati e poco conditi”, ci deve essere almeno una fonte di carboidrati (pasta, pane, patate, riso) e due di proteine (anche tofu) e via discorrendo con indicazioni alimentari dettagliatissime per un’alimentazione bilanciata e scientificamente approvata. Peccato che un torneo possa far pagare pranzi e cene, magari convincendo (se non costringendo) i meno abbienti a frequentare la pizzeria nel viale.
Sorprende che, con un ritardo davvero poco commendevole, il sindacato abbia solo quest’anno smesso di assegnare i posti in tabellone ai lucky loser seguendo pedissequamente la classifica. Era un vuoto normativo che invogliava a vendersi l’ultimo turno di qualificazione quando un giocatore, certo di un forfait nel tabellone e quindi di essere ripescato, si accordava per perdere il match di accesso al tabellone principale. Ora i primi due perdenti fortunati vengono sorteggiati. Sorteggio che negli Slam è già una regola, giacché ballano decine di migliaia di euro tra chi è dentro e quelli che restano fuori.
Un’altra regola da poco introdotta riguarda i tempi del pre-partita: se un match è coperto dalla tivù, non trovarsi pronti 10 minuti prima dell’inizio della partita costa non più 250 ma da 1.000 a 10.000 dollari. Le televisioni hanno insistito molto per ottenere questo emendamento perché temono i tempi morti, che sono minuti, che sono soldi. Resta da stabilire se la regola sia un’abbaiata di cane o se venga davvero applicata. Ma non è l’unica forzatura: infatti figurano due pause al cambio campo, una di 60 e l’altra di 90 secondi (il “tv break”) per permettere all’emittente di mandare tutta la pubblicità che desidera senza il fiato sul collo. Speriamo non si arrivi a giocare il tennis a tempo per accontentare i network.
Quando, invece, le regole sono stabilite con fiera certezza, capita che siano i giocatori a far sì che non vengano applicate. Il caso più eclatante è quello della regola dei 25 secondi oltre cui scatta la time violation se non si è servita la palla o non si è pronti a rispondere. La norma è elementare: prima della partita, si informano i giocatori dell’esistenza della restrizione. Se si supera il tempo stabilito, il giudice di sedia deve (non può, qui deve) intervenire. Subito. Non gli è concessa facoltà di stabilire se il punto precedente meriti un recupero maggiore, né è tenuto ad avvertire il giocatore che sta “sforando”. Finché la regola è questa, va applicata così. Se non piace, se è troppo restrittiva, se manca un orologio per segnare il tempo, che si provveda o la si abroghi. Stesso discorso per l’occhio di falco: il giocatore interessato a chiedere la verifica elettronica “deve mostrare un interesse immediato”. Che non significa farsi una passeggiata a rete, cercare un segno, guardare il coach, pensarci ancora un po’ e poi, semmai, decidere. Bisogna “rendere immediatamente nota l’intenzione, o verbalmente o usando la racchetta o alzando il dito”.
Per un verso ridondante, per un altro lacunoso, il libro delle regole ATP alza le barricate della riservatezza anche per le sanzioni ai giocatori. Tutto ciò che si trae dal testo è che se un giocatore accumula almeno 10.000 dollari di multe in un anno per cattivi comportamenti assortiti, l’ATP spedisce un richiamo scritto. Se ci ricade, altri 10.000 dollari e due mesi di sospensione. Se persevera, dalla terza volta in poi i dollari diventano 25.000 e altri due mesi di sospensione. Ora: avete mai sentito parlare di un tennista fermato per otto settimane per eccesso di infrazioni alle regole? No, e la motivazione è semplice: è previsto un appello. Tutto in camera caritatis, dalla sanzione alla discussione camerale, perché al pubblico non deve interessare come viene disciplinato il comportamento di un socio in un ente privato, no? L’unico elemento che è dato conoscere riguardo al giudizio di secondo grado è che l’appello va compilato e spedito per posta ordinaria o via fax. Nel 2015. Stiamo freschi.
1 Chris Kermode, ex numero 742 nel 1986, ex coach, ex imprenditore nel ramo dell’intrattenimento, bocciato nella corsa alla presidenza della federazione britannica poco prima di essere scelto dall’ATP per rimpiazzare il povero Brad Drewett, morto di Sla il 3 maggio 2013 a 54 anni.
2 Curiosità: se una palla si perde o è difettosa o si rompe la regola impone due scelte. Se capita entro i due game dall’inizio dell’uso delle pallina, si rimpiazza con una nuova. Altrimenti, per non avere una palla troppo più veloce delle altre, si sostituisce con un’altra palla usata, col feltro in condizioni simili.