Matteo Donati, 20 anni e un mix di ambizione ed equilibrio. Guidato da coach Massimo Puci a Bra, siamo andati a vedere come si prepara la miglior speranza del tennis italiano…«Che sponsor hai?»
«Nike.»
«Stai calmo.»
Poteva anche finire così, la conversazione con Matteo Donati. Vent’anni, numero 179 al mondo, a gennaio la sua classifica diceva 404, come il codice standard di errore per le pagine non trovate su Internet: 404, not found. Cioè, nulla. Matteo risponde a una domanda innocente su chi gli fornisca l’abbigliamento ma nominare il colosso che veste Federer e Nadal è sufficiente perché Massimo Puci, suo allenatore da quattro anni a questa parte, non resista alla tentazione di richiamarlo al valore sacro dell’understatement. Che qui, dove si parla il dialetto imparentato col francese ma certo non si mastica l’inglese, è conosciuto con un altro nome: esageruma nen, non esageriamo. Il motto preferito da Luigi Einaudi e da qualche milione di piemontesi.
Matteo è di Alessandria, casa del povero Roberto Lombardi e città adottiva di Corrado Barazzutti. Col primo, fu troppo giovane per scambiare esperienze e poi Bob, con il suo caratteraccio e la favella brillantissima, ci ha lasciato troppo presto. Il capitano, invece, è sempre in giro e gli fa un po’ da padrino: lo ha imbarcato nella spedizione di Davis siberiana a Irkustk per fargli annusare il clima della nazionale; negli ultimi Atp asiatici, si è offerto alla giornata come coach surrogato. Spesso gli domanda notizie sulla città, su cosa sia cambiato, nel profondo nord del circolo Canottieri Tanaro, dai tempi delle racchette di legno.
La differenza più sensibile è che, allora, l’Italia aveva tre fuoriclasse da top ten o giù di lì, ora neanche mezzo; eppure Alessandria fa sempre il suo, anzi, evidentemente dà ai suoi ragazzi per merenda più pane e tennis che altrove, perché lo ricorderanno in pochi ma un Cristiano Caratti di Acqui Terme fece i quarti di finale agli Australian Open, batté Lendl a Milano e McEnroe sull’erba e fu titolare in nazionale.
«Qui è un’isola felice. Lo dice sempre mia mamma». Donati, sguardo dolce e mai una parola da spaccone, non parla di Alessandria ma di Bra, del circolo Match Ball di proprietà municipale e gestito dai tre fratelli Puci: Zino, Antonio e Massimo. Mancherebbe in verità la spiaggia, nel parcheggio non trovi le palme ma il papà di Andrey Golubev che spazza una montagna di foglie imbrunite e il cielo sul Cuneese, più che di un blu caraibico, sembra scurito con polvere di grafite. Ma al novembre padano Matteo, il miglior ventenne italiano dai tempi dei primi exploit di Seppi e Fognini, è abituato. E che, in questo minuscolo laboratorio di tennis di alto livello senza receptionist in tacco dodici, si lavori nella maniera giusta per diventare forti, non è più un mistero: Golubev ha aperto la strada, gli ultimi arrivi sono Filippo Baldi e Nastassja Burnett (che ha un nome così ma è di Roma e ha più tifosi amoreggianti di Kerber e Kvitova messe insieme, e poco importa se per ora perde nelle qualificazioni degli Slam). A Caselle, proprio oggi, sta atterrando Kivattsev, un altro talentino che starebbe a Volgograd come un altro milione di suoi simili ma ha sentito parlare della Mecca di Bra, trentamila anime compresi gli animali domestici, e ha preso il primo volo dopo l’ultimo torneo.
Appena arrivato nella terra di Slow Food, Donati è stato ospite di Massimo e di quella santa donna di sua moglie, proprio come accadde al piccolo Andrey quindici anni fa. Ha dormito un po’ a casa Golubev, mentre sistemava casa, ora abita per conto suo. Sempre a Bra, dove tutto è a portata di passeggiata e i ragazzi si trovano il sabato pomeriggio per lo “struscio” in via Cavour.
Lui no: la sera, si prepara da mangiare («Le cose base, eh, non ho tempo per cucinare veramente») ma il tempo lo spende qui: dalle 8 alle 10 atletica, fino alle 11.30 in campo per il lavoro tecnico. Pranzo a mezzogiorno, nella mensa della scuola accanto ai campi: il cuoco conosce la banda del tennis e ascolta tutto, anche Matteo, pure quando vuole sapere se può farsi preparare tutti i giorni riso e non pasta. Per accontentare quel dietologo di Vicenza che gli ha levato il glutine. Giungono risate in sottofondo: «Ma si può avere un coach che ti prende in giro mentre tu cerchi di seguire un regime che, tra l’altro, paghi cento euro a visita?», commenta, fintamente sconsolato. Più di tutti, ride di gusto Golubev, che conosce tutte le parole della lingua italiana ma quel termine, “dieta”, ancora non è riuscito a decifrarlo.
Al pomeriggio, dalle 15 alle 17, ancora in campo: palleggi, spostamenti, punti. Poi in palestra: resistenza o elastici per polso e spalla. Tre volte alla settimana, sala pesi. La sera, sipario. Bra sarà anche un’isola felice ma, in settimana, se Irma chiude il pub non sai dove sbattere la testa ma a Matteo non potrebbe importare di meno: «Sai perché siamo in tanti a provarci ma pochi ce la fanno?». Prego. «Perché non ti deve pesare questa vita. Io non so cosa riuscirò a fare ma so di avere una fortuna, la passione. Gioco da quando ho 5 anni, ne ho visti tanti smettere o mollare il colpo: uno perché si è fatto male, l’altro perché aveva problemi economici, l’altro ancora non era così appassionato, e magari non reggeva all’idea di stare sempre via da casa». Spesso non è un problema di gioco, è vero: hanno rinunciato ragazzi che a tennis giocavano da dio. «Per esempio, a 15 anni ho fatto Natale e Capodanno in Messico perché c’erano dei tornei che dovevo fare. Avevo un obiettivo ben chiaro, sapevo dei sacrifici che mia madre aveva accettato per farmi giocare. Altri non se la sono sentita. Poi devi saper gestire i passaggi, e qui ho un’altra fortuna: per ora non mi hanno messo pressioni addosso o, comunque, c’è qualcuno che le filtra per me. Non è che dopo Roma abbiamo fatto una festa: quello è stato un bel momento ma so di non appartenere ancora a quel tennis».
Il pensiero di Gianluigi Quinzi si materializza: non è il caso che sia lui a spiegarci quanto sia profonda la buca che si è scavato dal giorno in cui vinse Wimbledon under 18 contro “uno scarsone” (citazione che è meglio resti anonima), Hyeon Chung, che ora saluta lassù dal numero 51 mentre GQ, al 336, per ora deve scordarsi le copertine e pure i servizi a fondo magazine o, magari, smettere di cambiare allenatore come i calzini. «Non è che io non abbia mai avuto dei dubbi: cinque anni fa ero in crisi. Il rapporto col mio allenatore, con cui ero cresciuto, non funzionava più. Avevo paura: l’idea di cambiare, di cominciare da zero con una persona con cui non ero in confidenza, mi metteva a disagio. Però, ecco, credo di aver fatto bene una cosa, anzi, ne sono sicuro: mettermi nelle mani di persone fidate. Scegliere bene e poi fidarmi. Sapevo che qui avevano fatto un bel lavoro con Golubev, eppure il primo anno ho perso sei volte al primo turno. Avessi deciso di impulso, dopo tre mesi di delusioni, me ne sarei andato. Invece mi piacevano le idee che circolano qui, ero tranquillo e quell’estate vinsi tre Futures. Cambiare velocemente non mi piace, sono stato otto anni ad Alessandria, ora sono qui da quattro: quando le cose non girano è utile, avere un punto di appoggio saldo». Alleluja.
Il 2015 di Matteo Donati è andato controcorrente: gli dicevano di giocare, lui si è fermato tre mesi per cambiare il dritto, irrobustire il servizio e lavorare su quel corpicino lungo ed esile che pare una canna piumata. Primo torneo, a marzo. Ad aprile, la finale al challenger di Napoli. A Roma, la wild card e il primo successo su un “arrivato”, Santiago Giraldo, e il regalo del match sul centrale con Berdych. «Mi ha fatto effetto, perché la volta prima l’avevo visto in tivù in finale a Monte Carlo, quella dopo era in campo contro di me. Ma mi sono scoperto più maturo di quanto pensassi: ricordo bene il cambio di campo sul 5-4 al terzo contro Giraldo, pensavo che sarei finito in qualche buca, un doppio fallo, una stecca… Invece no. Mi rendevo conto, punto per punto, che sapevo cosa dovevo fare. Anche il primo game con Tomas, ho tenuto facilmente la battuta: quando sei lì hai la tentazione di pensare a chi c’è di là, o di strafare perché giochi contro un fenomeno.» Del resto, qui, gli spacconi non piacciono. C’era un giocatore italiano che vinse Wimbledon under 18 e prese a dare del tu a John McEnroe; un altro si era comprato una fuoriserie coi primi guadagni, non entrò mai nei primi cento. Qui, del titolo in doppio juniores a Wimbledon, di Napoli, della Coppa Davis, di Berdych non si parla se non a richiesta: il giorno dopo la sbornia di Roma, Matteo era sul campo 4 delle qualificazioni di Ginevra, di fronte a zero spettatori, contro tale Alexandr Kushakov, un altro errore 404.
Qualcuno disse che, nel tennis, essere stupidi non è necessario ma aiuta. La battuta è fulminante e contiene un nucleo di verità: pensare troppo, in campo, può essere un danno. Ma oggi, con la concorrenza feroce di più di cento Paesi in tutto il mondo, un giocatore è prima di tutto chiamato a farsi capitano della sua azienda, già in età scolare. Dove allenarsi? Spendere o non spendere? Andare o non andare? Investire o risparmiare, o scialare per qualche vizio? In Francia, la federazione milionaria ti affianca tecnici e consiglieri a iosa. Agli italiani, e a molti altri, viene insegnata l’arte di arrangiarsi, benché i contributi della federazione a uno dei migliori italiani in tutte le categorie non siano mancati: «Noi abbiamo un centro tecnico ma è uno, e poi non è come quello di Parigi dove tutti i più forti vanno ad allenarsi. Soprattutto, loro hanno uno Slam e tanti tornei ATP, noi un solo Masters 1000 con quattro wild card. Certo, ogni settimana c’è un challenger, però ci servirebbe avere qualche ATP 250». Già, come ai bei tempi: Milano, Firenze, Genova, Palermo, Saint Vincent… Prima che la crisi li spegnesse, uno per uno.
Matteo è sveglio, si vede. Ciò che conforta, è la sensazione di un equilibrio raro nella categoria dei tennisti italiani: sa pensare ma non è moscio, è ambizioso ma non sfacciato, ha passione ma non foga. Dicono preferisca spendere quel che serve per portarsi dietro coach e preparatore in Australia, da fine dicembre a tutto gennaio, piuttosto che farsi un giro dal concessionario. Alla sua età, scusate, non sarà una garanzia di successo ma rimane una benedizione.
Pianifica, chiede informazioni a chi ne sa. «Certo, parlo soprattutto con Andrey, ma anche con Paolo Lorenzi, con Cecchinato: quest’anno era tutto nuovo, avevo bisogno di sapere come fossero i tornei, dalla superficie al, diciamo così, contorno. Loro mi consigliavano e mi hanno aiutato a scegliere. Per arrivare in certi tornei il viaggio è molto lungo, talvolta si gioca in posti in cui a parte i campi non c’è nulla: sembrano cose inutili, ma tu devi pensare a tutto perché passi fuori casa otto mesi l’anno. Se non ti programmi bene, capita che dopo qualche stagione dici basta, sei esaurito. Io non voglio che succeda». Doppio alleluja.
E si guarda il polso: «Per esempio, pure io quest’estate ho sbagliato: avevo male ma stavo giocando bene, per cui sono andato avanti due settimane. Ero ingolosito, mi dicevo che sicuramente non era niente di serio. Così mi sono dovuto fermare e, alla ripresa, avevo perso smalto. Non mi piace la maniera con cui ho chiuso l’anno, se non per la decisione di smettere a ottobre e fare due mesi di preparazione. Ad agosto ero 159 e avrei dovuto prendere altri punti, invece di perderli».
Inutile girarci intorno: se quest’anno è stato l’assaggio, il 2016 è l’anno del pasto. A scanso di infortuni, la residenza agonistica di Donati deve spostarsi dove i numeri civici hanno due, non più tre cifre. Vent’anni sono diventati un’età verde, per il tennis forzuto di oggi, ma tornare indietro sarebbe un fallimento. «Ormai i teenager fortissimi sono pochi, Kyrgios, Zverev che secondo me è un fuoriclasse vero, Coric che è più giocatore di tutti. Dieci anni fa, se alla mia età non eri 50 al mondo eri un fallito. Oggi batti un top cento e perdi contro il 220, vinci contro un tizio in un challenger e la settimana dopo lo vedi in semifinale in un ATP». Morale? «Vuol dire che il livello medio, tolti i primi, è omogeneo: da una parte è un vantaggio, perché sono in tanti a poter fare risultati; dall’altra, ti ritrovi un sacco di gente nella tua stessa situazione». E se qualcuno pensa che Matteo possa farsi contagiare dal provincialismo, che decida di accontentarsi, di fare cassa immediata e rinunciare alla battaglia per “il duecentello”, si sbaglia. Il duecentello, in gergo da spogliatoio, è il ricavo che si ottiene perdendo al primo turno nei quattro Slam. Oramai, il circuito si divide tra il centinaio di eletti per classifica che sanno di poter contare su quei quattro rifornimenti a stagione, e tutti gli altri cui tocca sfangarla con costi osceni e montepremi ridicoli. Ovviamente, non è solo una questione bancaria: «No, ma anche. Perché uno come me, di certezze, a parte gli aiuti degli sponsor e della Fit, non ne ha. E appena sali di classifica hai più spese, viaggi più costosi, più gente da portarti dietro. Qualcuno mi fa notare che quest’anno ho guadagnato abbastanza: ma a me quei soldi servono, per investirli. Per rischiare. Che poi, qualunque cosa tu faccia trovi sempre chi ti dà contro: se fai i challenger punti troppo in basso, se tenti le qualificazioni ATP sbagli e perdi tempo, è sempre così.»
Con quei colpi puliti, da cemento, Donati è curiosamente un superfan di Nadal. Ma no: nei giovani, Rafa vince 62 62 contro tutto il resto della concorrenza da poster. Matteo si era appeso al borsone un autografo di Rafa. Si leggeva “12 aprile 2005, Monte Carlo. Para Mateo, un abrazo. RN”. Lo aveva chiuso in una busta di plastica e custodito come una reliquia. «Poi me lo hanno rubato, mi hanno aperto la valigia. A Rafa non l’ho detto, ma mi sono fatto autografare una bandana. Nadal era il mio idolo, mi fece fare qualche palleggio quando avevo 12 anni, è troppo bello vedere come lotta: anche oggi che gioca male. Però oggi mi sento più attratto da Murray, anche perché è quello cui assomiglio di più, tra i grandi. Federer? Vabbè, è talmente diverso da tutti… poi fa cose che nessun altro può anche solo pensare e adesso, che gioca solo per il gusto di giocare, è ancora più bello da vedere. Potessi scegliere, giocherei contro di lui perché è la storia del tennis. Anche se Djokovic batterà i suoi record, Roger resterà unico. E poi si ricorda di tutto: si è fermato a parlarmi, lui che potrebbe vivere nel suo mondo, e mi raccontava dei viaggi dalla Svizzera a Monte Carlo, quando passava in autostrada per Alessandria ma andava troppo veloce e vedeva solo il cartello…»
Fine della ricreazione. Solo il tempo di ridere sulle prestazioni a tavola di Andrey, classifica 175 e talento da 33, come nel 2010 quando vinse Amburgo. Qualcuno tira fuori l’aneddoto: quella volta che, inquadrato in tivù a un cambio di campo e di maglietta, venne fulminato da un commentatore italiano: “Ecco, Golubev ci sta dimostrando che a Bra si mangia molto bene”. «Ma no, è un effetto della tivù», si schermisce lui. Matteo si è già accordato con Golubev: il prossimo anno, il giovane più forte in circolazione nel Paese e un fenomeno riluttante a dare il sangue per il tennis cercheranno di fare coppia fissa in doppio. Anche perché, ufficiosamente, Andrey ha ripreso ad allenarsi qui con Puci, Donati, Chicco Porro, Baldi e il resto della banda. È tornato a casa, il figliol prodigo. Ma questa è un’altra storia.
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