Nel tennis, come nella vita, si vive di simboli. E la scelta di Gianluigi Quinzi, che ha varcato il confine italo-austriaco per chiedere asilo a Ronnie Leitgeb, ha un forte valore simbolico. Già, perché 20 anni fa Leitgeb fu capace di portare al numero 18 ATP un giocatore che sembrava perso dopo essere stato numero 1 junior: Andrea Gaudenzi. Dopo il titolo di Campione del mondo ITF nel 1990, la FIT di Paolo Galgani lo affidò alle cure di Bob Hewitt (che oggi ha ben altri problemi…). Non scattò l’alchimia e l’Italia rischiò di perdere un (altro) talento. Ma Gaudenzi (come Quinzi, a sentire Leitgeb) aveva una forte personalità e decise di darsi una chance. La via d’uscita si trovava al di là del Brennero, dove un certo Thomas Muster lavorava come un pazzo ed era la massima espressione della grinta applicata al tennis. Mostrando un coraggio da leone, figlio della Romagna delle piadine, Andrea si trovò a sbuffare sotto lo sguardo severo di Ronald “Ronnie” Leitgeb, unico demiurgo del fenomeno Muster. Figlio di uno psicologo, un passato da giornalista, conobbe Thomas nel 1984 e lo ha seguito per sedici anni, fino al ritiro (mai annunciato) del 1999. Leitgeb, uomo duro ma intelligente, rude ma astuto, è stato anche il manager di Iron Thomas. Insieme, hanno fatto cose incredibili. Dopo lo sfortunato incidente di Miami 1989, fu lui a convincere Thomas che sarebbe potuto tornare, più forte di prima. Fu lui a spingerlo ad allenarsi su una sedia a rotelle. Cinque anni dopo, Thomas vinse tutto quello che c’era da vincere sulla terra battuta (Roland Garros compreso) e l’anno dopo sarebbe salito al numero 1 del mondo. In questo contesto, Gaudenzi divenne forte. Fortissimo. Forse un po’ troppo attendista, come lo rimproveravano gli esperti dell’epoca, memori del suo tennis brillante in epoca junior. Ma alla scuola della fatica, Andrea sviluppò una solidità impressionante che lo ha portato al numero 18 ATP: ottavi a Parigi, quarti a Roma (due volte), quarti ad Amburgo, finale alla Mercedes Cup…e, poi, quella clamorosa semifinale a Monte Carlo. Sfida in famiglia, contro Muster. L’austriaco sembrava morto, in debito d’ossigeno, ma vinse 6-3 7-6. Gaudenzi, furioso, scagliò via la sua Fischer Vacuum dopo il matchpoint e gli concesse una gelida stretta di mano. Diciamo che non aveva esattamente apprezzato il suo comportamento. Il giorno dopo, Muster rimontò due set di svantaggio a Becker e si prese le accuse di doping di Bum Bum. Ma Leitgeb fu bravo a rimettere in piedi il rapporto tra i due sue cavallini.
Secondo molti, fu anche il regista occulto di tante battaglie tra i giocatori italiani e la FIT di Galgani prima e Ricci Bitti poi. Nel 1995, dopo la vittoria “contro le riserve della Repubblica Ceca” (cit. Tommasi), ottenne un maxi accordo tra FIT e giocatori. Prima prendevano solo un gettone di presenza, lui riuscì a far virare nelle tasche dei giocatori (e di conseguenza, anche nelle sue) buona parte dei premi NEC (ex title-sponsor della Davis). Alla fine, 276 milioni delle vecchie lire da distribuire in parti non uguali, tant’è che i doppisti Brandi e Pescosolido non la presero bene. Ma di quella squadra, oggi si può dire, Gaudenzi era il leader non solo sul campo. E dietro di lui c’era Leitgeb. La polemica fu violenta perché Panatta (allora capitano) aveva trattato con la FIT, ma poi si vide scavalcato da Leitgeb, che a suo dire aveva addirittura provato a far sposare Gaudenzi con un’austriaca per fargli cambiare passaporto. E, in occasione di Italia-Repubblica Ceca, gli avrebbe chiesto una “tangente” perché una società di cui Panatta era sponsor avrebbe curato la pubblicità dell’evento. Pare che ci fosse lo zampino di Leitgeb anche nella “Battaglia del Grano” (altra citazione di Tommasi, ndr) prima della finale del 1998 contro la Svezia, quella in cui Gaudenzi ci rimise la spalla. I giocatori definirono “ridicoli” i premi stabiliti dalla FIT per quell’incontro, pur non mettendo mai in dubbio la partecipazione.
Non c’è dubbio che Leitgeb, 57 anni il prossimo 13 maggio, abbia un profondo senso degli affari. Nel 1999, dopo l’addio di Muster (e Gaudenzi ormai affidato a Leonardo Caperchi), decise di lasciar perdere il tennis. E’ diventato un mental coach, inaugurando una serie di iniziative sempre basate sulla mente, a suo dire l’aspetto più importante per uno sportivo professionista. A Monte Carlo, dove ha un’abitazione, ha fondato un Centro Fitness e Salute, salvo poi tornare nel tennis nel 2007 in veste di manager di Nikolay Davydenko. Dopo Muster, non voleva sapere più nulla di tennis, ma si fece coinvolgere dalla richiesta di aiuto del russo. In quel periodo, Kolya era devastato dalle accuse di combine per il famoso match di Sopot contro Martin Vassallo Arguello. Leitgeb lavorò duramente per la sua immagine. “Lo hanno preso di mira perché non ha alle spalle una società di management come IMG o Octagon – disse – Nikolay parla un ottimo tedesco ma fatica con l’inglese, però ha uno splendido senso dell’umorismo, allora ho organizzato una serie di interviste con i giornalisti più importanti per farlo conoscere nel modo giusto”. La storia racconta che Davydenko ne è uscito pulito, è diventato numero 3 del mondo, ha vinto le ATP World Tour Finals (prima edizione giocata alla O2 Arena di Londra) e ha siglato i suoi primi (e unici) contratti importanti. In quegli anni, ha poi curato gli interessi di Jurgen Melzer, Tamira Paszek e Markus Rogan (miglior nuotatore austriaco). Dal 2012 al 2015 è stato addirittura presidente della federtennis austriaca. Durante la sua presidenza, ha riavvicinato alla Davis il clan di Dominic Thiem dopo qualche litigio di natura finanziaria, forse memore che dall’altra parte della barricata – 20 anni prima – c’era stato lui. Oggi si divide tra Monte Carlo, Portschach, Vienna, Kitzbuhel e Marbella (dove ha sede la mini-accademia in cui proverà a plasmare il talento di Quinzi e Miedler). La combinazione Quinzi-Miedler gli ha restituito la voglia di allenare in prima persona, con un progetto che sembra serio e decisamente ambizioso. Leitgeb ha grande personalità e, dopo tanti tentativi andati a vuoto, a tempo quasi scaduto, sembra l’uomo giusto per ridare linfa alla carriera di GQ. Sarà un percorso lungo e difficile, anche perché all’età di Quinzi (20 anni e 3 mesi), Gaudenzi era numero 60 ATP, già beneficiario della cura Leitgeb. Ma è anche una sfida affascinante, una delle poche strade percorribili per rimettere in piedi una carriera che prometteva tantissimo e che si è incagliata tra mille difficoltà. Dopo un coach dal carattere morbido come Eduardo Medica, e tanti tecnici con cui non c’è stato il giusto feeling (a volte col ragazzo, a volte con la famiglia), Quinzi ha scelto uno che non accetta compromessi. Uno che ha le idee chiare. Uno che ha sempre tirato fuori il meglio. In ogni ruolo. Uno che aveva paura di volare e che oggi ha il brevetto di pilota. Che sfida, ragazzi.