Gioia e lacrime per la statunitense di origine ecuadoriana: vince il primo titolo WTA a Bogotà a poche ore dal terremoto che ha devastato la natia Portoviejo. Papà Carlos è rimasto lì e si è perso la finale. Nessun familiare è stato colpito, ma la casa dove è nata è crollata. “Sono americana, ma ho giocato per l’Ecuador”.

Non sapeva bene come reagire. L’unica certezza era il passante incrociato, di dritto, che ha spento le ultime speranze di Silvia Soler Espinosa. Vincere a Bogotà, per Irina Falconi, aveva un sapore speciale. Difficile da esprimere a parole. Meglio lasciar scorrere le emozioni, anche se ti espongono a qualche lacrima in pubblico. Poche ore prima di giocare la sua prima finale WTA, Irina è stata raggiunta dalla notizia del terremoto che ha colpito il suo Ecuador. Una scossa impressionante, di magnitudo 7-8 nella Scala Richter, ha messo in ginocchio un intero paese. Un paese già povero, con tanti problemi sociali ed economici. Non dobbiamo stupirci, dunque, che Carlos Falconi e la moglie Silvia Barba abbiano lasciato Portoviejo, dove Irina era nata nel 1990, quando la figlia aveva appena quattro anni. Negli Stati Uniti c’erano molte più possibilità e in effetti è venuta su una buona giocatrice, oggi numero 67 WTA, ad appena tre gradini dal suo primato personale. Ma il legame con la sua terra c’è sempre stato. In fondo, come puoi dimenticarti di un posto che si chiama Portoviejo? Soltanto il nome evoca immagini suggestive. Palazzine un po’ cadenti, rumore di vecchie imbarcazioni, pescatori sparsi qua e là. Immagini perfette per un racconto di Hemingway. Pur avendo scelto gli Stati Uniti, Irina non ha mai perso l’orgoglio per le sue origini. “Anche se sono americana, oggi ho giocato per l’Ecuador – ha raccontato, dopo essersi asciugata le lacrime – in questi due giorni ho vissuto profonde emozioni. Non è semplice mettere le cose in prospettiva, soprattutto quando mi domandano come mi sento per quanto accaduto in Ecuador. Che potevo dire? E’ terribile. Ho vinto un titolo WTA, ma nel paese dove sono nata c’è gente che muore”. Il bollettino è terribile: ad oggi ci sono 480 morti, 1.700 dispersi e 20.000 sfollati, ma le cifre sono in tragica evoluzione.


Portoviejo è ancora senza luce e senza acqua. La gente si è radunata per le strade. Sia quelli che hanno visto crollare la propria abitazione, sia quelli che ce l’hanno ancora, una casa. Ma hanno paura delle scosse di assestamento. E poi si fanno forza, gli uni con gli altri, combattendo gli sciacalli che inevitabilmente sono comparsi. Da Quito sono già partiti camion pieni di cisterne, ma i danni sono terrificanti. Si parla di 3 miliardi di dollari, cifra enorme per un paese già provato da una forte crisi economica. I 43.000 dollari incassati dalla Falconi (pare che li voglia devolvere) sono una goccia nel mare. Però restano vivi i ricordi di quando, lo scorso novembre, Irina è tornata in Ecuador a dieci anni dall’ultima volta. L’hanno accolta come sanno fare soltanto da quelle parti. Al Portoviejo Tenis Club, prima di raggiungere il campo centrale, ha percorso 120 metri attorniata di bambini e ragazzi armati di bandiere con i colori della città. Insieme a lei, l’inseparabile fidanzato Travis Hartman, lo stesso che dopo il successo a Bogotà è stato costretto a mangiare un po’ di granadillas. Lui, americano, non aveva mai provato il tipico frutto sudamericano, ma aveva fatto una scommessa con Irina: in caso di vittoria, ne avrebbe fatto incetta. Dopo averle mangiate, accompagnate da un po’ di champagne, ha detto che erano buonissime. Il terremoto ha fatto crollare anche la casa dove è nata Irina, ma per sua fortuna nessun parente o familiare è rimasto ferito. Papà Carlos, ex calciatore, si trovava proprio a Portoviejo. Fedele alla sua terra, è rimasto in Ecuador anziché volare a Bogotà.

“Avrebbe dovuto essere qui, era già tutto pronto – ha detto la Falconi – il volo partiva alle 18 di sabato da Guayaquil, ma il terremoto ha reso tutto più complicato”. C’era un velo di tristezza quando pronunciava queste parole. Già, perché papà Carlos è stato il suo primo maestro e ha lottato duramente per il permetterle di diventare una tennista. Anche se il destino ci ha messo del suo: da Portoviejo, i Falconi si sono trasferiti a New York, zona Inwood, non esattamente Central Park. Abitavano in una casa popolare, al terzo piano, da cui Irina poteva vedere i campi pubblici di Inwood Hill Park. Nella sua infanzia da immigrata, in cui ha frequentato le scuole pubbliche a Inwood e persino ad Harlem, ha scelto il tennis quasi per necessità, perché arrivava ai campi in motorino e non gli costava troppo. C’è tornata lo scorso settembre, poco prima di affrontare Venus Williams allo Us Open. Quando si è affacciata sui quei campi verdi, con gli out rossi, ha sussurrato a chi l’accompagnava. “Potrei dirti nome e cognome di tutti quelli che stanno giocando. Sono gli stessi di allora”. Era proprio così. Quando l’hanno vista, si è creato un capannello di gente a caccia di autografi e foto ricordo. Il successo della Falconi, in piccolo, ricorda un po’ quello delle sorelle Williams. Anche dai campi pubblici può nascere un campione. Da lì è uscita anche Patricia Benge, discreta giocatrice che si è affrettata a raccontare: “Con Irina non ho mai perso”. In quell’ambiente un po’ spartano ma pulito, Irina Falconi è diventata quella di oggi. E pensare che anni dopo, quando la famiglia si è nuovamente spostata in Florida, sia per trovare lavori più remunerativi, sia per dare più possibilità alla figlia, lei avrebbe voluto restare a New York. Significa che Irina “sente” le sue radici, anche se in futuro le piacerebbe vivere a Parigi perché va pazza per i croissant. Ma i dolci, le granadillas e tutto il resto, oggi, hanno un sapore più amaro. La Falconi ha vissuto il suo giorno più bello mentre la sua città era in ginocchio. Lo ha fatto con grande dignità. Per una volta ha messo da parte il ricordo dello Us Open 2011, quando fece il giro di campo con la bandiera degli Stati Uniti dopo il successo su Dominika Cibulkova. Stavolta aveva le note di questa canzone in fondo al corazon. Senza alcun dubbio.

Con amor hoy yo quiero cantar,
Sí, señor, a mi lindo Ecuador.
Con amor siempre debes decir,
Por donde quiera que tú estés,
Ecuatoriano soy