MONTE CARLO – Un giorno neanche troppo lontano, presumibilmente entro il 2020, Alexander sarà numero uno del mondo e chiunque conoscerà ogni dettaglio sul suo conto, dal nome del cagnolino della fidanzata alla passione, finora di scarso rilievo sociale, per Dwayne Wade e i Miami Heat, la franchigia della città in cui la famiglia Zverev sverna da una decina di anni. Che gli abbiano già intestato titoli Slam sulla fiducia è una notizia perché, a differenza della maggioranza assoluta degli altri casi, la congettura non scaturisce da qualche parente; Christian Garin, il ragazzo cileno che lo batté nella finale di Parigi 2013, o Gianluigi Quinzi, vincente a Wimbledon quello stesso anno, non hanno in sorte un destino simile.
Lui sì. Dopo essere stato graziato da una volée alta di dritto a campo aperto sul match point a Indian Wells, una palla che il fratello maggiore (solo di età) Mischa avrebbe colpito vincente pure da bendato, Rafa Nadal ha parlato chiaro su Alex Zverev, nato il 20 aprile del 1997 e messo a conoscenza del gioco del tennis prima del salto di millennio, cioè in uscita dal policlinico: «Sì, può diventare il prossimo numero uno. È un giocatore sensazionale: ha tutti i colpi, fisicamente è dotato, non gli manca niente per diventare una star». Federer, che un giorno dedicò una conferenza stampa di Halle per scusarsi del 6-0 6-0 rifilato al fratello maggiore, l’ha preso in simpatia. Forse perché ha scorto in lui le stimmate del fenomeno, insomma, sta di fatto che gli dà consigli, gli chiede spesso di allenarsi insieme, si informa sulla sua salute agonistica e dispensa qualche consulenza tecnica sugli avversari. Pure Tomas Berdych, dopo avergli procurato due dispiaceri (7-5 al terzo a Marsiglia, 6-4 al quinto in Davis quest’anno, nel suo esordio in nazionale) non ha lesinato oroscopi gloriosi al ragazzo che condivide con lui le competenze di Jez Green, il preparatore atletico che rese Andy Murray un mostro della forma fisica: «Questo ragazzo sarà numero uno, questione di tempo». Eppure, in privato, il ragazzone si schermisce per molto meno: una riflessione su chi potrà puntare agli Slam, una volta pensionati i tre dittatori, non lo trova disponibile: «Hfff. Come si fa a sapere cosa succederà? Queste sono solo speculazioni. Non posso rispondere. Io non penso a diventare né dieci né uno, e poi chi sa, magari uno come Nishikori inizierà a vincerne uno dopo l’altro, di Slam, oppure sarà Raonic, o magari un ragazzino ancora più giovane di noi che ora non è nemmeno nel Tour». Bugia.
Alexander Zverev è nato circondato, pervaso e immerso nel tennis, condizione ideale per fare questo mestiere. Che ci sia qualcosa di più, che sia stato programmato per giocare a tennis, è il sospetto di molti: numero uno Itf, a 16 anni Michael Stich gli offre una wild card per l’Atp di Amburgo; a 17, trionfa in un challenger (a Braunschweig, sempre sotto l’egida dell’ex campione di Wimbledon) e arriva in semifinale ancora ad Amburgo; a 18, passa un turno ai Championships ed entra nei primi 100 giocatori del mondo.
A 19 non si può dire, perché li ha appena compiuti prendendo casa nei top 50 e, di qui a dicembre, chissà.
Rispondendo alla classica domanda sugli inizi, l’allora numero uno del ranking under 18 ci ha raccontato, se non di essere stato concepito nel rettangolo del servizio, di non aver mai davvero cominciato col tennis. Non più che col latte, quantomeno:«Guardavo giocare i miei genitori e mio fratello al circolo, tutti i giorni, da sempre. Credo avessi un anno e mezzo, forse anche meno quando mi diedero la prima racchettina e iniziai a spingere la palla in giro per casa: da allora, papà e mamma mi portavano sempre con loro», cioè in ufficio, cioè sul campo. Il padre è Alexander senior, tennista scarsino tra i professionisti; lo chiamavano Gatto perché zompettava come un ossesso dalla riga di fondo alla rete; con un serve&volley furioso, trent’anni fa si qualificò e giocò l’unico primo turno della vita a Wimbledon. Rimediò tre set a zero contro Gentleman Mayotte. A trent’anni si ritirò. Solo che aveva guadagnato poco o nulla, e buona parte di quella miseria finiva al ministero che gli passava un tot per mangiare: era il socialismo reale applicato al tennis, che venne apertamente contestato da Andrei Chesnokov, stufo di versare al Goskomsport i suoi guadagni (e capobanda di una rivolta nel 1989, quando si rifiutò di girare il montepremi del Roland Garros all’apparato).
Zverev senior, che come alternativa di vita aveva la fabbrica o un posto di ripiego nell’Armata Rossa, prese per mano la moglie Irina, il figlio Michail Aleksandrovič detto Mischa di quattro anni e lasciò una Mosca lacerata dal colpo di Stato e in piena dissoluzione dell’Unione per riparare in Germania. Dove sia lui sia lei (ex 383 del mondo, con comparsate in Fed Cup) trovarono un contratto di lavoro per impartire lezioni di tennis a soci e ragazzi dell’UHC di Amburgo. Il piccolo Mischa, mancino, fisico compatto, imparò a giocare come il padre. La famiglia si manteneva lavorando duro ma senza gli affanni della miseria del regime comunista: tanto che, nel 1997, il nucleo si allargò con la nascita di Alexander junior.
Ecco, ma per sciogliere il dubbio sul fatto che Alex sia o meno una versione moderna di Agassi e delle sorelle Williams, tre infanti calzati e vestiti da tennisti ancor prima di imparare a farla nel vasino, è utile il parere di chi li conosce da sempre. Come Dirk Hordorff, ex coach di Rainer Schuettler e, dal 2009, guida di Janko Tipsarevic. Alla teoria del tennista per forza, verosimile in una famiglia residente sui campi, Hordorff è risolutamente contrario: «No. Non credo sia stata esercitata una forma di pressione da parte dei genitori su Alex. Era sempre lui a voler giocare, era molto ambizioso fin da piccolo. Per lui, non c’è mai stato un dubbio sul giocare o non giocare: lo voleva fare sempre, era felice di stare in campo, si vedeva. Poi, certo: questo era l’augurio e la speranza dei suoi genitori, ma mai contro la sua volontà. Lo vedo in giro da quando è un bambino, lo conosco bene da quando aveva dieci anni: per lui, il tennis è sempre stata una cosa naturale e voluta».
Naturale e voluta: guai, insomma, a suggerire all’angelo biondo una qualche forma di costrizione nell’età infantile o, peggio, di pressione psicologica per fare risultati nel tennis. Scrutato da vicino, Zverev rivela tratti fisici meravigliosi: folte meches naturali che virano al biondo, occhi color del mare più prossimo alla sabbia della Costa Azzurra, l’acqua chiara delle giornate limpide; lineamenti dolci, l’acne adolescenziale quasi del tutto assorbita dalle esposizioni al sole. Un bel dì, potete contarci, sarà una popstar inseguita come un Beatle. Le sue risposte sono appena meno amabili: «Prima di tutto c’è da tenere in considerazione che ho giocato anche a hockey» e sì, perché UHC Amburgo sta per Uhlenhorster Hockey Club, mica tennis. Il circolo ha una storia più che centenaria e Zverev ha giocato nelle sue squadre giovanili di hockey, non su ghiaccio ma su erba. Di lì a credere che abbia davvero pensato di diventare il prossimo numero uno del mondo di field hockey… «E poi, riguardo al tennis, ero sempre io a voler stare in campo». Ci sono riscontri: il fratello Mischa ricorda che alla sera, quando papà e mamma volevano staccare e tornare a casa, lui insisteva per continuare a colpire palline anche se era ora di cena e il sole aveva fatto cucù. Sicché uno dei due tornava a casa col maggiore, l’altro restava lì ancora un po’ ad accontentarlo. «Poi, quando è nato Alex, mia mamma è stata per un po’ di tempo a casa per crescerlo, mentre io ho iniziato a girare con mio padre per tornei giovanili». Ma si sono riuniti presto: come col piccolo Dolgopolov svezzato nel Tour dal padre, coach di Andrei Medvedev, molti professionisti hanno memorie di Sascha Zverev in fasce. Tanto che Andy Murray, dopo averlo sculacciato all’Open d’Australia, ha raccontato di averlo perso di vista per un po’, di rammentarlo a bordo campo col fratellone, suo coetaneo e di dieci anni più vecchio rispetto ad Alex, e di essersi spaventato quando lo ha rivisto a Melbourne 2016, a sfiorare col ciuffo il soffitto degli spogliatoi.
Hordorff è di Amburgo, vive a pochi isolati da casa Zverev e sa pesare quanto, nel figlioletto, ci sia di retaggio russo e quanto tedesco. «Li conosco bene, loro (i figli, nda) e la famiglia. Papà e mamma sono nati e cresciuti in Russia, ma Alex direi è che al cento per cento tedesco. Un giorno feci una prova: gli chiesi per chi avrebbe fatto il tifo, se avesse assistito a una partita di calcio tra Russia e Germania. Mi rispose che, senza dubbio, avrebbe tifato Germania. Suo fratello aggiunse che, in quel caso, Alex si sarebbe dipinto i colori della bandiera tedesca sul volto prima della partita, tanto per chiarire il concetto». Arruolato.
Vale anche l’opposto? I tifosi tedeschi, quelli che nicchiavano perché Boris Becker aveva sposato una modella di colore, oggi sono pronti ad accogliere una superstar col cognome da agente del KGB? «Secondo me sì. I tedeschi pensano ad Alex come a un tennista tedesco. E la mentalità comune di oggi accetta il fatto che nel Paese ci siano persone che provengono da nazionalità diverse, così come nessuno ha da dire sui calciatori che giocano in nazionale anche se arrivano da fuori. Il fatto che i suoi genitori siano russi non è un problema, qui, davvero. Ecco, forse se fosse di colore allora ci sarebbe qualche differenza. Ma sono sicuro: per lui non ci sarà alcun ostacolo nel diventare una superstar al 100% tedesca».
Il fratello maggiore è sulla stessa frequenza: «Io mi definirei più un ragazzo internazionale: sono nato in Russia e lì sono rimasto per quattro anni, ho fatto le scuole in Germania, il tennis mi ha portato per metà dell’anno a Saddlebrook, in Florida. E poi non potrei mai essere totalmente tedesco: arrivo sempre in ritardo e odio mangiare cena alle sei di sera. Per lui (Alex, nda) è un discorso diverso. Tennisticamente, la Germania ha reso possibili le nostre carriere e in questo sia io sia lui siamo tedeschi».
A cinque anni, Alex salì sul primo aereo per accompagnare il fratello in Australia, iscritto all’Australian Open juniores. A sette, prese a svernare col resto della famiglia nell’ex accademia fondata a Tampa da Harry Hopman e, nell’età in cui i suoi pari con velleità agonistiche trovavano forse il ragionier Gigione al circolo per palleggiare, lui poteva scegliere tra il fratello (numero 44 nel 2009), John Isner e Jack Sock. Un discreto vantaggio, via. Chi lo ricorda nei primi tornei agonistici, poi, ha ancora in mente una sua preoccupazione: troppa gente lo identificava come il fratello di Michail. Solo ora il suo ego, abbondantemente distribuito nei quasi due metri, inizia a ricevere soddisfazioni. Anche se, qualche settimana fa, durante un Media Day dedicato al lancio della NextGen a Indian Wells, pare che il cherubino vorace fosse irritato per la sproporzione di cronisti interessata alle faccende yankee di Taylor Fritz e non alle sue. In una curiosa inversione di prospettive, il primo figlio degli Zverev, Mischa, è mansueto, alla mano; per Hordorff, addirittura, è «molto contento di non essere una superstar, mentre per Alex è il contrario: lui lo vuole». A chiederglielo, indirettamente, conferma: «Sono a posto con me stesso, sto bene. Mi piace quello che faccio, spero solo di restare in salute per giocare: faccio una cosa che mi soddisfa, non mi vedrei bene in banca o in ufficio, insomma, sono felice così». Ma Alex? «Beh, lui è sempre stato un competitivo. Ama primeggiare, stare in campo, adorava gli stadi in cui entrava con me durante gli allenamenti, i campi centrali. Anche quando ha iniziato a giocare, non è mai stato spaventato dal pubblico. Anzi: più gente c’era, meglio era».
A quattordici anni, Sascha era sufficientemente forte per fare da sparring al fratello. A quell’età, contro un professionista adulto, è praticamente impensabile. Eppure. Cinque anni dopo, da fondocampo, il maggiore si appoggia coi suoi colpi puliti e spogli di spin, l’altro gli strappa la racchetta di mano: «A volte sento dire che mio fratello somiglia, in qualche modo, a Murray. Ma direi che no, il suo tennis è una specie di incrocio tra il gioco di Juan Martin Del Potro e quello di Novak Djokovic». Per la concorrenza, auguri: è come scontrarsi con Rocky e Ivan drago messi insieme.
In effetti, il piccolo Zverev col servizio sposta l’aria; di rovescio, dà i brividi per il raffronto con un altro russo, un altro rovescio, un altro predestinato come Marat Safin. Lascia a metri dalla palla chiunque. Il dritto, nato men che medio, nell’ultimo inverno si è irrobustito in misura clamorosa. «Però c’è ancora tanto da fare – sostiene il fratellone – perché quando sei così alto devi mettere su un po’ di peso per renderti più stabile. Come atleta non è ancora del tutto sviluppato, anche se sta lavorando bene per compensare la mancanza di velocità nei piedi che, quando sei alto due metri, inevitabilmente ti manca».
Ci sta pensando Jez Green, noto per compilare liste di lavoro atroci. A citarlo, Zverev si sente una volta di più punzecchiato: «Jez sta facendo un grande lavoro. Però a volte mi deve dire di smettere, di non esagerare perché anche in palestra io vorrei fare sempre qualcosa di più, una serie aggiuntiva, mentre lui mi consiglia di non strafare».
Vien da chiedersi come mai i due fratelli siano stati impostati in maniera tanto differente. La risposta la dà Mischa: «Se io gioco a rete e mio fratello rimane a fondo è perché l’attacco è il mio modo di interpretare il tennis, viste le mie caratteristiche fisiche; per mio padre, poi, è stato facile farmi imboccare quella strada, siccome lui aveva molte cose da insegnarmi come ex giocatore offensivo. Ma il nostro modo di giocare ha a che fare, direi, con il corpo e la personalità. Alex ama colpire, è molto alto e serve molto forte, e fin dai primi anni si è sentito più a suo agio restando dietro; io amo leggere lo scambio, variare, togliere l’iniziativa e, appena posso, scendere a rete. Anche qui, però, non ci sono state imposizioni: i nostri genitori ci hanno assecondato. Io andavo a rete e mi hanno lasciato fare, Alex no e la stessa cosa è valsa per lui, mio padre con il mio aiuto ha sviluppato le sue qualità senza forzare le cose». Sarà un caso, ma il tennis di Mischa affascina e guarda al passato, quello di Alex sembra progettato da un team di ingegneri per vandalizzare il futuro: altissimo ma mobile, fucilate da fondocampo, servizio letale, fisico e rabbia. Quando tutto gira, fa letteralmente spavento.
«Pressione? No. Non mi faccio dire quello che devo fare, nessuno mi obbliga. Mio padre è un coach fantastico, che dà consigli e lo stesso ha fatto mio fratello con me, agiscono per il mio bene. Aspettative? Quelle, semmai, le avete voi giornalisti. Oltretutto i ragazzi della NextGen sono tanti e stanno migliorando in fretta, credo siamo un gruppo di giocatori che in futuro faranno grandi cose». La generazione Zverev è next, prossima, ma lui è già arrivato. Aspettatevi il botto da un momento all’altro, magari già in estate.
Forse giungerà anche il giorno in cui sarà piacevole conversare con lui; oppure no, come accade col rude e scostante Kyrgios, l’altro del gruppo che finirà per mettere le manone su tanti trofei pesanti. Per soppiantare la dittatura dei padroni, del resto, non è richiesta la simpatia. Serve un altro tipo di classe e lui, accidenti se ce l’ha.
(Articolo tratto dal numero di maggio 2016 di TennisBest Magazine)