64. Non è un numero da giocare al Lotto, ma il numero di conferenze stampa messe a referto agli Internazionali BNL d’Italia. E il dato tiene conto soltanto di quelle trascritte da ASAP senza considerare quelle dei tennisti italiani, almeno 15. La cifra è lo spunto ideale per riflettere sull'(in)utilità delle stesse. Anni fa, Andy Murray si era lamentato dell’obbligo di parlare con la stampa dopo ogni partita. Se anche un solo giornalista chiede di ascoltare un tennista post-match, lui ci deve andare. Se non lo fa scatta la multa. E’ giusto? Forse sì. Il problema è che una gran parte delle conferenze stampa sono inutili. Le domande sono sempre uguali, spesso noiose, spesso poco interessanti. Inoltre si crea un clima tale che è difficile uscire dal coro, dagli schemi di sempre. E l’atteggiamento degli addetti stampa ATP-WTA, spesso, non aiuta. In un sabato falcidiato dalla pioggia, abbiamo provato a osservare le conferenze stampa con un occhio diverso. Meno attenzione al contenuto, più alla forma. Quando gli altoparlanti annunciano l’arrivo di un giocatore, si scatena la processione dei giornalisti interessati. Spesso anche noi. Il giocatore arriva e il plotone spara, quasi sempre a salve. Spesso intervengono i soliti, quelli che hanno la possibilità di viaggiare più spesso e dunque hanno un rapporto più confidenziale con i tennisti. Ad esempio, Ben Rothenberg nel New York Times, Courtney Nguyen della WTA (ex Sports Illustrated) e Carole Bouchard. Ma anche il giornalista più preparato, attento e informato, non può garantire la qualità delle domande quando ci sono anche 15 conferenze al giorno. L’intervista è una sotto-categoria giornalistica molto importante, ma richiede tempo per essere preparata (e dunque svolta) con qualità. La conferenza stampa è giusta come concetto (dare a tutti la possibilità di interagire), ma difficilmente avrà la stessa qualità di una one-to-one ben preparata (perché ci sono anche quelle improvvisate). Prendiamo la conferenza di Garbine Muguruza: si è tenuta due ore dopo la sconfitta contro Madison Keys. La spagnola, sempre morbida e gentile, aveva un’espressione del tipo: “so quello che mi chiederete, avanti”. E infatti ha detto che l’altra è stata più aggressiva, ha giocato bene, ma che la settimana è comunque positiva. Bye bye. Cinque minuti dopo è arrivata Serena Williams. Quante ne avrà fatte? 1.000? 1.500? Il momento più interessante è stato quando è caduto il microfono a Ben Rothenberg e lei ha detto: “Come on!”, fingendosi indignata e prima di sciogliersi in un sorriso. Quasi tutti i giocatori dicono sempre le stesse cose, ben attenti a non mettersi contro nessuno, che siano persone o istituzioni. Non è semplice fare un buon giornalismo quando l’ambiente è così ovattato, per non dire appiattito. Il problema è che non ci sono grosse soluzioni alternative. Abolire le conferenze stampa? Metterle soltanto da un certo punto in poi? Renderle obbligatorie solo se un top-10 perde da un giocatore peggio piazzato? Obbligare i tennisti un tot numero di one-to-one per ogni torneo? Soluzioni tutt’altro che soddisfacenti. Però era giusto segnalare il problema. Un problema di cui i giornalisti sono tra i colpevoli, ma non gli unici.
Giove Pluvio ha spaventato pubblico e organizzatori, ma alla fine è stato clemente. Al netto di tre ore e mezza di ritardo, si è ultimato il programma. L’unico dazio da pagare è stato lo spostamento di Keys-Muguruza sul Campo Pietrangeli. Non c’è dubbio che un tetto sul Centrale avrebbe risolto più di un problema. Nel tennis di oggi, dominato dalle TV, garantire la continuità del programma è una priorità. A Roma c’è spesso il sole, ci mancherebbe, ma asserzioni come “play suspended” e “rain delay” sono un tantino anacronistiche. Per Roma il problema è doppio, poiché il diretto concorrente Madrid ha ben tre campi dotati di tetto retrattile. Saranno brutti, creeranno ombre orribili, però ci sono. Sul piano tecnico, il match del giorno è stato l’ultimo. La combinazione Djokovic-Nishikori è in grado di offrire quanto di più simile ci sia al tennis playstation. Scambi a velocità supersoniche, prestazioni atletiche strabilianti. Se il tennis del futuro è questo, c’è da essere ottimisti? Il dibattito è aperto. La nostra opinione è tutto sommato positiva. Il massimo della bellezza applicata al tennis è il contrasto di stili, ma ormai è merce rara a causa della scomparsa degli attaccanti. Tuttavia, assistere a certi scambi è esaltante. Se il tennis del futuro avesse più Nishikori, non ci sarebbe da lamentarsi. Intanto Djokovic continua a vincere, e lunedì festeggerà la 100esima settimana consecutiva in vetta al tennis. La numero 200 in totale.
Mentre Novak e KeI picchiavano a volontà sul Campo Centrale, erano accese le luci degli altri campi. Sul Pietrangeli c’era una semifinale di doppio femminile, vinta da Hingis-Mirza su Begu-Niculescu. Le urla della Niculescu non sono servite a nulla. Semmai ha impressionato l’abbigliamento della Hingis. Spalle nude, completino leggerissimo, giocava come se ci fossero 40 gradi ma si arrivava a stento a 15. La sua intesa tecnico-tattica con la Mirza ha ormai raggiunto la perfezione: sono bastati pochi game per capire perché sono le numero 1 indiscusse. Sul Grandstand, invece, si giocava un torneo sconosciuto ai più: la We Are Tennis Cup. Tutti conoscerete il sito web e lo slogan diffuso fino alla noia da BNP Paribas, il più importante sponsor tennistico a livello globale. Adesso circola anche un filmato in cui John McEnroe incarna il sergente di un fittizio esercito di appassionati. Ma pochi sanno che esiste un torneo riservato ai soli dipendenti di BNP Paribas. Il livello è clamorosamente basso: quando siamo arrivati, stavano battagliando l’italiana Lisa Mori e la francese Emilie Vergoby. Ogni punto valeva 1 e si è imposta la francese per 28 a 13. Non abbiamo capito bene la formula, ma abbiamo capito che la delegazione francese era particolarmente rumorosa. Alla fine hanno vinto loro e in finale troveranno il Lussemburgo, vincitore sulla Svizzera nell’altra semifinale. Con tutti i milioni che la banca francese versa al tennis, ci stanno anche queste cose. E poi hanno portato un discreto indotto economico a torneo e città, per tornare all’argomento della conferenza FIT di venerdì. Siamo sicuri che i protagonisti non dimenticheranno mai di aver giocato con i raccattapalle a disposizione.