«La figura di Panatta rientra a pieno titolo entro la categoria dei filosofi della libertà, anzi ne rappresenta uno degli interpreti di assoluta grandezza. Dal punto di vista filosofico, infatti, se la scelta della modernità è, come ammoniva Goethe, tra Spinoza e l’italianissimo Giordano Bruno, visto che Spinoza è Borg, se c’è un Bruno questi non può essere che Panatta; poiché solo lui ha davvero rappresentato l’alternativa tennistico-filosofica al modello imposto dallo svedese. Borg era un materialista, perché posizionando due mani sul rovescio e stringendo l’angolo sul dritto ottenne dalla racchetta e dalla pallina quanto nessuno aveva mai osato prima. Adriano Panatta usava la racchetta come avevano sempre insegnato i padri, mettendoci però quel tanto di spirito libertario e di fantasia che lo resero celebre. Era uno spirito libero, concentrato e distratto, veloce e sornione, tenace e pigro, tutto nella stessa maniera e nello stesso istante». Carlo Magnani
È così che «Ascenzietto», ormai cresciuto e trasformatosi nel «Cristo dei Parioli», contribuisce a dare al tennis italiano una dimensione più popolare: i circoli si aprono alla piccola borghesia, il co- sto medio delle ore sui campi, sempre più numerosi, si abbassa, la Rai comincia a trasmettere qualche diretta dei grandi tornei inter- nazionali, le case di abbigliamento sportivo made in Italy beneficiano di un boom mondiale e fanno a gara per vestire i campioni, nascono addirittura i primi ultrà da terra rossa che cooptano, pur- troppo, i gesti così poco bianchi degli stadi del calcio.
Una marca di racchette nostrana, la Maxima, offre a Panatta la prima sponsorizzazione. L’assegno è di un milione, proprio come quello del Signor Bonaventura inventato dalla matita di Tofano. Lo stipendio mensile di un operaio è di 123.000 lire, la benzina costa 148 lire al litro, 70 lire i biglietti del tram e i giornali. Lui firma il contratto, incassa i soldi e compra un’Alfa Romeo GT bianca di seconda mano. La paga esattamente un milione. A fine carriera solo il suo montepremi Atp, cioè i guadagni ufficiali ottenuti con dieci titoli e 369 vittorie complessive (contro 225 sconfitte), raggiungerà i 776.187 dollari, poco più di quanto incamera oggi un semifinalista a Wimbledon.
«Sono diventato un tennista soltanto nel 1973 quando ho battuto Borg negli ottavi di finale del Roland Garros. Björn era un ragazzi- no, si è trasformato subito in un amico, mi ha sempre fatto ridere in campo e fuori, da avversario mi soffriva. Prima di ogni incontro nello spogliatoio inscenavamo un siparietto. “Fammi divertire questa volta” diceva lui. E io ribattevo: “Lo sai che non perdo mai con te”. Gli facevo le palle corte, rallentavo il gioco, non riusciva ad attaccarmi, insomma, ci andavo spesso a nozze». Alla resa dei conti finirà dieci a sei per Borg.
All’età di nove anni Adriano Panatta è un ragazzino che non nutre particolari simpatie per i tennisti che frequentano il circolo nel quale lavora la sua famiglia, li guarda come i cani dai buchi della rete, c’è anche chi cerca di spaventarlo tirando qualche pallina contro le maglie di ferro alle quali appoggia la faccia. Non vuole diventare come loro. Per tenere la giusta distanza chiede al padre di iscriver- lo alla scuola di nuoto del Coni al Foro Italico. Spiacenti, dicono a Ascenzio, non ci sono più posti per le lezioni in piscina. Quando torna Ascenzio lo annuncia al figlio: «Ti ho iscritto ai corsi di tennis». Adriano fa spallucce e risponde vabbè senza scomporsi.
SEI CHIODI STORTI di Dario Cresto-Dina
Editore: 66thand2nd
Collana: Vite inattese
Pagine: 160
Prezzo: 17 euro
Web: www.66thand2nd.com/libri/171-sei-chiodi-storti.asp
Se si osservano le fotografie dei suoi palleggi infantili si scopre uno sguardo annoiato e malinconico che con la coda dell’occhio sembra inoltrarsi in territori misteriosi, il suo Far West segreto. Sarà una donna, Wally San Donnino, la sua prima maestra, «una signora ossuta e severa nella quale si celava un militare dell’esercito prussiano», a imporgli la racchetta come si consegna nelle mani di un soldato il fucile.
«Il tennis mi ha cresciuto, lo riconosco, mi ha fatto diventare uomo prima che giocatore. Sapevo di essere bravino ma non pensavo di avere la stoffa per primeggiare fuori dai confini laziali. Nel 1968 ho abbandonato la terza geometri, il diploma l’ho poi recuperato quarantaduenne a Civitavecchia, e sono andato in Australia con Martin Mulligan che era nato a Sidney ma che amava così tan- to l’Italia da pretenderne la nazionalità, uno che era arrivato in finale a Wimbledon nel ’62. Vi rimasi da novembre a marzo, eravamo in cinque: Vittorio Crotta, Pietro Marzano, Mimì Di Domenico, Piero Toci e io. Ero ancora juniores e in un torneo a Brisbane battei l’americano Clark Graebner che era lì per la Coppa Davis, grande amico di Ashe e celebre soprattutto per aver preso per il collo Nastase al culmine di una rissa in campo.
Vidi allenarsi Laver, Rosewall, Roche, Newcombe. Avevano qualche anno più di me, negli allenamenti mostravano volontà, disciplina, costanza. La mia indole mi portava in tutt’altra direzione, cercai ugualmente di agganciare quella loro luce e farla un po’ mia. Credo di averla accarezzata per più di quindici anni, con alti e bassi, nonostante la mia pigrizia, confortandola con un certo senso dell’umorismo che mi ha consentito di ridere anche di me stesso, un vizio che spero mi allunghi la vita».
Infine, c’è la superbia. Panatta si allena il giusto. Non troppo, non troppo poco. Sul piano tecnico è un aristocratico naturale, una do- te di cui approfitta usandola come un alibi per giustificare la sua indolenza e uno spiccato e incorreggibile complesso di superiorità. Per lui chi si ammazza di fatica sul campo di allenamento lo fa perché non sa giocare. Sono attori mediocri che ripetono meccanicamente un copione e devono leggerlo e rileggerlo in continua- zione per non scordare la parte. Lui invece improvvisa, non cambia impugnatura quando passa dal dritto al rovescio, esegue tutti i colpi con la presa «continental». Usa il polso per le variazioni. Mirabilmente. Sono come spruzzi di colore sulla tela di un astrattista. È la ragione per cui non esiste un giocatore contemporaneo che riesca a stupirlo, ad appassionarlo.
«Tranne Federer, l’unico, e lui lo sa, che fa delle cose che nessuno in questo sport ha mai osato fare. Raffinatezze impossibili. E mentre gli altri sembrano impegnati in un eterno trasloco lungo sette piani di scale Roger non suda né si spettina».
Senza traslocare mai, anche Panatta lo snob, però, ha sofferto. Ma si trattava di una sofferenza endogena che veniva prodotta di- rettamente dal suo organismo. Un dolore biologico. Non era delle vittorie di routine che aveva bisogno ma di liberarsi della sfida, di scrollarsi di dosso l’avversario. Prima riusciva a chiudere la parti- ta, più breve sarebbe stata la nostalgia che subentrava subito dopo il match point, come quella pioggia fina che ti entra nella pelle e non se ne va più. Nella sacca del tennis custodiva gelosamente sei chiodi storti e arrugginiti. Erano i suoi portafortuna. Li aveva con sé a Santiago. Li conserva ancora oggi.