LE FRASI CELEBRI – Quelle di Adriano Panatta spiegano il personaggio meglio di qualsiasi ricordo. Dalla sua reazione alla vittoria di Parigi alle sue idee politiche, dal suo rapporto col tennis alle… vacanze in Sardegna.

Il tennis, questo sport, l’ha inventato il diavolo.

Ho giocato a Roland Garros il miglior tennis della mia vita, dopo aver annullato con un tuffo un match point a Hutka e surclassato Borg nei quarti di finale. E poi, sessanta secondi di pienezza totale, di felicità, al termine della finale con Harold Solomon e poi basta. La sera, nella cena di gala, ero già molto triste. Un senso di vuoto. Quasi una depressione, che mi è durata tre settimane di seguito.

Vero, ad agosto Tiriac, che mi allenava da qualche mese, mi disse che dovevamo partire per gli Stati Uniti, per preparare gli Open americani. “Piccolo problema, Ion – gli dissi -: io l’estate la passo in Sardegna”. Finì lì il nostro rapporto. In tanti mi hanno detto che avrei potuto vincere di più, che sarei potuto essere un miglior professionista. Ma ve la posso dire una cosa? Ve la posso dì? Ma saranno stati ca… miei?

Che tipo, Borg: capace di vuotare due bottiglie di vodka, restare steso fino al mattino, e poi giocare come se niente fosse.

Il tennis non è solo una questione fisica. Sono due cervelli che si scontrano.

Non potevo essere io il modello da imitare: ero talento puro. Più facile rifarsi a uno come Björn Borg, tenere un ragazzo quattro o cinque ore al giorno ad allenarsi contro un muro. Ma per condannarsi a quelle dosi di lavoro ci voleva appunto la testa di uno come Borg. L’italiano è diverso, ha bisogno di divertirsi. Prendi due ragazzini, uno svedese e un italiano, mettili davanti a un muro a palleggiare: dopo un quarto d’ora l’italiano si è già stufato, lo svedese dopo sei ore lo devi fermare.

Il tennis è senza età, è forse la conclusione? Sì, dev’essere così… E Federer è il tennis, dunque è senza età anche lui. La differenza c’è, e si vede. Federer fa esattamente tutto quello che deve essere fatto con una racchetta in mano. Non solo, lo fa così bene da far sembrare tutto logico, persino facile.

Borg e Vilas hanno rovinato una generazione di giocatori. Oggi non c’è più un giocatore d’attacco, capace di ammorbidire la palla. Andre Agassi è stato l’evoluzione di questo tennis, ha inventato un nuovo modo di giocare, il primo vero attaccante da fondo campo. Oggi trovi degli energumeni che impugnano l’attrezzo. Il tennis è un’altra cosa. Guardo Federer: lui gioca troppo bene. Però è un illuso perché vorrebbe battere quella belva di Nadal giocando bene a tennis. Impossibile.

Fu Ignazio Pirastu, al tempo responsabile della Commissione Sport del Pci, a farci arrivare l’inattesa notizia: per Berlinguer dovevamo andare in Cile. E voleva lo sapessimo. Per il segretario del Pci non sarebbe stato giusto che la Coppa finisse nelle mani del Cile di Pinochet piuttosto che nelle nostre. Da lì in poi la strada verso la partenza si fece in discesa. Fu come un libera-tutti. Il governo Andreotti disse che lasciava libero il Coni di decidere, quest’ultimo lasciò libera la Federazione e di fatto ci ritrovammo a Santiago, liberi di vincere. Grazie a Berlinguer.

Borg era un fenomeno paranormale. Dicevo sempre di lui che era «un matto calmo». La sua era una pazzia ben mascherata. Stava tutto il giorno a registrare la tensione delle corde delle racchette. Un giorno o l’altro schioppi, gli dicevo, ti esplode il cervello. Gli è esploso un giorno, dopo aver perso con McEnroe a Wimbledon. Si è ritirato a 26 anni, quando era ancora il più forte di tutti. Si era rotto le palle. Era un uomo molto buffo Björn. Non aveva mai un soldo in tasca. Girava con l’American Express, ma allora in Italia le carte di credito non esistevano.

Che Federer sia unico, lo si vede dal modo in cui colpisce la palla, dal cambio di ritmo, dalle soluzioni tecniche e tattiche che decide di adottare. Colpisce la palla con violenza, ma lo fa sempre nella maniera giusta. In un modo classico, ma nello stesso tempo moderno.

Credo che Arthur Ashe abbia rivoluzionato il tennis internazionale: è stato il primo giocatore nero a vincere, una svolta radicale. Mi è stato raccontato di alcuni circoli in cui i giocatori di colore non potevano nemmeno entrare, Ashe in questo senso è stato molto importante.

Lendl era un giocatore fortissimo, uno dei più forti della sua epoca, ma non era bravo a giocare a tennis. Era quasi imbattibile, al suo apice, ma aveva evidenti limiti tecnici: a rete ad esempio non ne azzeccava una.

Nel tennis c’è il doping come in quasi tutti gli sport. Non credo agli atleti vittime, che prendono le cose senza saperlo. Allora non sono vittime, sono deficienti. La verità è che poi beccano sempre chi vogliono beccare. Conta molto la forza politica di una nazione.

Per organizzare un torneo bisogna conoscere bene la città in cui si svolge. Roma è una grande «zoccola», i miei Internazionali sposavano sport e mondanità, i campioni del tennis e il generone romano.

[Sugli Internazionali di Roma del 1976] Quella vittoria non la dedicai a mio padre, a mia madre, a mia moglie o a mio figlio. La dedicai a me stesso e basta!

Se arrivi a giocare a livello mondiale, non puoi permetterti d’essere pigro. Ho subìto i luoghi comuni che vedono nel romano un campione d’indolenza. Vero, magari succedeva, dopo tre mesi di torneo, che sentissi l’esigenza di staccare, di dedicarmi ad altro. Il tennis non è mai stato l’unica cosa importante della mia vita per me. Anche quando ero all’apice mi piaceva leggere, mi tenevo informato: erano gli anni di piombo.

Sono sempre stato di sinistra ma non mi piacciono i fanatismi, gli eccessi ideologici.

Sono sempre stato un campione a modo mio. Oggi dilaga il divismo. Mi chiedo come fa uno che gioca a pallone o impugna una racchetta a sentirsi un fenomeno. Quando sento uno di questi parlare in terza persona, m’incazzo. Hanno i body guard, Maria Sharapova pensa di essere Greta Garbo. A parte Roger Federer e Rafael Nadal che sono due ragazzi eccezionali, gli altri sono tutti molto tristi e molto montati.

Ma se davvero a una scelta, o a una classifica, non è possibile sottrarsi, allora suggerirei di abolire ogni discussione sul numero di successi degli Slam o sulla lunghezza di questo o quel “governo” tennistico, per aprire una cartella e inserirvi dentro tutti i nomi degli innovatori, dunque di quei tennisti (inevitabilmente campioni), che hanno spinto il tennis verso il futuro. Sono loro i costruttori del nostro sport, e a loro, quando si discute di storia o di supremazia, occorre rifarsi per meglio comprendere ciò che è stato prima e ciò che è venuto dopo. Per esempio, Borg (che, datemi retta, non era un uomo di ghiaccio) in campo era davvero una macchina. Con quel suo tennis di rimbalzo, con quei pallonetti che prendevano velocità quando toccavano terra, ha finito per dare una nuova dimensione al campo. McEnroe è stato un innovatore per motivi più sottili, eppure importanti, e ancora attuali. In un momento particolarissimo della crescita del nostro sport, nella tendenza generale a trasformarlo in un gioco di difesa, tra molti non geniali imitatori di Borg, spiegò a tutti come l’attacco fosse ancora uno spartito irrinunciabile e dette il via a quanti vennero dopo di lui come Becker e Stich, Edberg e Rafter. John definì un concetto dell’anticipo ancora più grande di quello attuale: non solo i colpi, lui anticipava addirittura le geometrie dell’avversario.