Vi proponiamo “Vecchie Glorie”, uno dei 15 racconti (di tennis) dello splendido libro “Smash”, uscito un paio di mesi fa ed edito da “La Nave di Teseo”. Il racconto di Guido Maria Brera vi farà automaticamente virare verso la libreria. Ma ce ne sono anche altri….Vecchie glorie

West Kensington, London City, 5 giugno

Il giallo elettrico della pallina colpisce l’incrocio delle righe prima di schizzare via nella notte. Al di là della linea di fondocampo, Massimo può solo assistere al successo tattico del suo avversario. Il compimento di una geometria perfetta.
Non è la prima partita tra loro. Ogni volta che hanno giocato, la posta era un’altra. Non il match, ma un modo di intendere la finanza. E la vita.
“Vantaggio,” urla Derek, dall’altra parte del campo. Nei movimenti è una macchina perfetta, lo sforzo non gli lascia segni. Indossa una polo bianca come la sua camicia d’ordinanza. I calzoncini e le scarpe non vengono intaccati dal rossiccio del- la terra.
Massimo abbassa gli occhi sul terreno. Anche la scelta di quella super cie rientrava nel disegno di controllo del suo avversario. Solo Derek Morgan poteva puntare sull’effetto-sor- presa preferendo all’ultimo un campo in terra battuta del Queen’s Club, a West Kensington. E ce l’ha fatta. Tradire il comandamento britannico di giocare sull’erba aveva sorpreso Massimo. Convinto di doversi confrontare su un manto veloce, si è ritrovato impantanato in una guerra di trincea sotto i colpi da fondo campo di Derek.
Massimo riconsidera lo scambio. Il modo in cui l’americano ha incrociato da una parte all’altra del rettangolo, costringendolo a muoversi su e giù. Solidità, nervi saldi, totale gestione del gioco. Proprio come un tempo, molti anni prima. Come nella grande banca della City, quando Derek William Morgan era il capo del fixed income, settore governativi, area Europa. Manovre complesse sui titoli di Stato, sottoscrizione del debito, vendere e comprare.
L’italiano solleva lo sguardo verso gli spalti vuoti. Nessuno spettatore per quel match in piena notte fra mentore e allievo. Nessun limite alla volontà di potenza di Derek Morgan, il banker dei banker. Nel suo universo non esiste la casualità: ogni variabile è il tassello di un piano perfetto, basato sul controllo e sull’ordine.
Massimo porta gli occhi no a lui, scavalcando la rete e per- correndo metri di terra. Ne invidia l’impermeabilità, è come se avesse fatto un patto col diavolo. O come un moderno Dorian Gray. Si chiede quale simulacro stia invecchiando al posto di Derek in qualche parte del mondo. Forse uno di quegli autori- tratti di Escher, l’artista che l’americano ammira tanto. Quegli autoritratti dove il viso è ri esso e deformato in una sfera.
Sono al tie-break del terzo set. Stanno giocando da due ore e tredici minuti. E Derek è in vantaggio sul 7 a 6.
Il primo set l’ha vinto l’americano, imponendo il controllo con una feroce sequenza di topspin e sfruttando tutti i vantaggi della superficie. L’altro se l’è aggiudicato Massimo, quando ha preso le misure ed è riuscito a far pesare velocità, fantasia e cambio di ritmo. Questo set, il terzo, è un braccio di ferro. Le forze si equivalgono, mani strette in perpendicolare alla superficie dove poggiano i gomiti. E ora Derek può sfruttare un match point.
L’americano serve una prima palla veloce e angolata. La risposta di Massimo è buona e costringe Derek a un rovescio in affanno. L’italiano intuisce che l’avversario non controlla il gioco, allora attacca il campo di qualche metro. Modifica l’impugnatura, allenta la presa, ammorbidisce il braccio e al momento del contatto la sfera viene smorzata. Palla corta. Accorciare lo spazio, anticipare il tempo. Derek rimane paralizzato a fondo campo. Entrambi guardano la pallina superare la rete, lentamente, e rimbalzare due volte nella metà dell’americano. Lo scambio è concluso. Punto di Massimo. Parità.
L’italiano si guarda intorno mentre respira per recuperare. Quasi gli sembra di non ricordare come c’è finito, su quel francobollo di terra battuta a West Kensington, nel pieno di una notte di fine primavera.

***


Un lampo, appena sopra la rete. Era rimbalzato all’angolo sulla metà campo opposta per tornare su. Un istante dopo ave- va preso la forma di una pallina da tennis. Un’altra collisione, con un altro piatto corde: rovescio incrociato. La sfera aveva fischiato nell’aria, scavalcato il net, mentre la prima racchetta si muoveva in anticipo tagliando il colpo di rovescio. Demi-volée. L’impatto sull’erba, un secondo rimbalzo. Punto.

Sugli spalti del Centrale, tutti avevano applaudito l’esecuzione con cui si era concluso lo scambio. Tutti tranne un uomo sui cinquanta, in piedi vicino al bordo del campo. Impassibile, Massimo De Ruggero era rimasto a guardare l’autore del colpo: il tennista dai tratti orientali con una maglia troppo stretta, dai colori troppo squillanti. Per Massimo, riconoscerlo era sta- to doloroso. L’attaccatura così alta dei capelli, le rotondità che lo appesantivano, dicevano di una vittima degli anni trascorsi. Come lui, d’altra parte. O forse lui si era salvato, almeno fino a quel momento.
Oltre la rete, a ventiquattro metri di distanza, l’avversario sembrava più a suo agio nonostante avesse perso lo scambio. La costituzione fisica lo aiutava, il bianco della maglia evidenziava la buona tenuta muscolare, più che i chili di troppo. Eppure, a ogni colpo, era come se rimanesse sorpreso di non trovare la brillantezza di allora.
I due stavano giocando senza forzare, nel Queen’s Club di West Kensington. Qualche scambio da fondo campo, niente di più. Ogni tanto l’orientale provava una palla corta per accorciare il gioco. L’ultima gli era riuscita.
Non era certo un duello, quello. Eppure un silenzio ingombrante pesava sul campo. Un silenzio imposto dal ricordo di ciò che era stato, e non era più. Anche Massimo ricordava. Era lo stesso giorno, ma di molti anni prima. Il 5 giugno 1989.
Agli ottavi del Roland Garros, il numero uno del mondo affrontava un ragazzino magro dall’aria timida. Ivan Lendl contro Michael Chang. Sotto di due set, il piccolo orientale di nazionalità statunitense prese a innervosire l’avversario. Chang guadagnò punti con un gioco di eccessi, palle corte sul rovescio alternate a parabole altissime. Arrivò a strappare due set. Poi tirò fuori il genio, come Davide usò la onda contro Golia. Tirò fuori una prima di servizio dal basso, un colpo da ping-pong, che mandò in crisi ogni previsione di Lendl. La pallina sembrava libera di andare al di là di ogni ragionevole ipotesi. Chang vinse il punto. Poi conquistò il gioco, il set e quel match indimenticabile.
Un movimento, tra gli spettatori in piedi come lui, aveva strappato Massimo ai ricordi. Gli era parso di riconoscere qualcuno. Un vestito scuro, una camicia bianca, un viso deciso. Aveva pensato di essersi sbagliato, mentre riportava gli occhi sul campo. Sulla concentrazione dei giocatori, sui loro corpi, su quella caricatura di duello.
Eppure era stata quella parodia a farlo ritornare a Londra. Dove Massimo, una volta, viveva. Poi era cambiato tutto e per molti anni non ci aveva più messo piede. La città richiamava brutti ricordi. La ne del suo matrimonio, le certezze andate in frantumi, la crisi in cui era sprofondato.
Londra, aveva ripreso a frequentarla esattamente dodici mesi prima, e solo per un invito alla precedente edizione di quel torneo di vecchie glorie. Un evento a metà strada fra beneficenza e mondanità, un evento a cui aveva deciso di non mancare.
In Massimo, l’amore per il tennis vinceva l’antica insofferenza per il jet set londinese. Così, nel giugno scorso, aveva lasciato l’Italia, la sua casa al mare sul promontorio toscano, la vista sull’isola che si allunga all’orizzonte. Aveva lasciato quello che poteva sembrare un buen retiro, il riposo del guerriero. E invece non lo era, perché anche dal suo rifugio davanti al Tirreno Massimo aveva continuato a interrogare schermi ultrapiatti, e a interpretare sequenze alfa-numeriche. Come un tempo, in modo diverso da un tempo.
Il suono secco delle corde che colpivano la pallina l’aveva riportato al match, alla fatica di Michael Chang e allo smarrimento di Ivan Lendl. Non avrebbero dovuto giocarla, quella partita. Non poteva esistere un remake del confronto tra Davide e Golia. I miti non dovevano invecchiare.

Era stato allora che una voce l’aveva strappato a quelle riflessioni: “Sapevo di trovarti qui.”
Massimo si era voltato. E aveva incrociato lo sguardo con l’uomo che in un’altra vita aveva considerato un mentore. L’uomo che poi aveva avuto come nemico e al anco del quale, alla ne, era tornato a combattere una battaglia decisiva. Anche allora era il 5 giugno. Quella era stata l’ultima volta che aveva visto Derek Morgan. 5 giugno, come la notte prima del D-Day, lo sbarco in Normandia che cambiò il corso della seconda guerra mondiale. 5 giugno, come il giorno in cui un ragazzo fermò i carri armati in piazza Tienanmen, giorno di svolte e di battaglie.
Altre se n’erano viste il 6 giugno di alcuni anni prima: un’antica banca italiana in crisi, gravi turbolenze sul debito pubblico, un’asta di titoli di Stato a rischio. E sull’Italia l’incombere di un gigantesco attacco speculativo. Il pericolo remoto di default che diventava una probabilità concreta. Una variabile impazzita che sfuggiva al controllo di Derek Morgan. Per evitare quel crash dalle conseguenze impensabili, Derek si era rivolto a Massimo, novello Achille richiamato alla battaglia. I miti non invecchiano.
Avevano salvato l’Italia, loro due, con una complessa manovra finanziaria. Avevano teso una trappola ai grandi raider orchestrando una magia degna di un grande illusionista. Una dissimulazione all’altezza degli stratagemmi alleati prima del D-Day.

Non si vedevano da quel giorno, lui e Derek. Dal 5 giugno di alcuni anni prima. Ma sull’americano il tempo non sembrava fare presa. Il viso squadrato non tradiva i sessant’anni. L’argento toccava solo qua e là i capelli scuri. Gli occhi ancora fermi, la schiena ancora dritta.
Massimo non aveva finto stupore. Conosceva quell’uomo, conosceva quel tipo di sorprese. Così aveva mantenuto la fronte distesa mentre Derek gli chiedeva col suo accento americano: “Com’è che dicevamo?”
“Il tennis non è solo un gioco,” aveva scandito lui, tornando a rivolgersi al campo.
Un servizio incerto di Chang, ma Lendl non ne aveva approfittato.
Derek aveva sorriso. “E il tuo mare? Com’è questa vita?” “Ho i miei ritmi, i miei tramonti. Le mie abitudini.”
“Hai più tempo per pescare.”
“Riesco ad andarci tutto l’anno.”
“E non ti annoi?”
“Ho chiuso, Derek, con la vita che considerava noiose le cose belle.”
L’altro aveva annuito senza convinzione. Massimo se n’era accorto, anche se continuava a seguire il gioco. Passano gli anni, si era detto, ma alcune cose non passeranno mai. Per esempio l’impressione che Derek Morgan sappia tutto. Si era girato verso di lui. “E tu, cosa stai facendo?”
“Mi godo la pensione,” aveva ribattuto Derek calmo.
Il dialogo era stato spezzato da un applauso. Entrambi ave- vano puntato gli occhi sul campo, dove Lendl aveva strappato il servizio e fatto il break. Era in vantaggio per 3 a 1, nel secondo set.
“Vincerà,” aveva detto Derek, sollevando il mignolo verso Lendl.
“Ha già perso una volta.”
“Quell’incontro è irripetibile.”
Poi era calato il silenzio. Uno scambio da fondo campo, piuttosto fiacco, si era spento su un errore di Chang. Il fruscio della rete, il morire della pallina.
“È tutta la vita che combattiamo contro il tempo,” aveva considerato Derek. Obliquo, allusivo, come un colpo a incrociare.
“Non combattevamo la stessa guerra. Tu non hai mai accettato il tempo per quello che è: la prima tra tutte le variabili.”
Ace di Lendl. Ai due sul campo era rimasta solo la forza. Come vecchie catapulte, statiche e pesanti.
Massimo aveva ripreso: “Invece io ho continuato a cercare l’attimo. Il tempo fa parte della vita, e della natura. Tu hai sempre sognato di cancellarlo. O determinarlo.”
“Il tempo è relativo, come tutte le percezioni umane.” Poi Derek aveva accennato al campo: “Non voglio distrarti.”
“Stavo andando via.” Le parole si erano sovrapposte al brusio del pubblico davanti a un bel rovescio di Chang.
“Allora alla prossima,” aveva detto l’americano, facendogli spazio verso l’uscita. Massimo aveva abbozzato un sorriso e si era incamminato. Qualche passo. Poi la voce di Derek gli era piombata alle spalle: “Hai programmi per la serata?”
L’italiano si era voltato, quasi di scatto. L’altro stava indicando il campo. E Massimo aveva capito. “Ti senti una vecchia gloria?”
“Una gloria e basta. E poi mi devi una rivincita.”
“Qui?”
“Qui, a mezzanotte,” aveva mentito Derek indicando il Centrale in erba. Massimo aveva annuito appena prima di allontanarsi verso l’uscita. Un’altra volta, lasciarsi dietro Derek Morgan. Il passato
ritorna comunque. Anche quando provi ad allontanarti, anche quando ti sembra definitivo. Ancora lui, dopo questi anni. Dopo che insieme avevano combattuto la terza guerra mondiale. Il conflitto invisibile.
Ancora Derek Morgan.
Era cominciata così, con un incontro fortuito. Oppure di fortuito non c’era niente in quell’incontro. Come non c’era niente nella vita di Derek Morgan, l’uomo che poteva permettersi di giocare in notturna su un campo del Queen’s Club, in occasione di quel torneo di vecchie glorie. L’uomo che forse aveva organizzato quel palio di leggende tennistiche solo per poter recapitare un invito a Massimo. Poteva farlo. Non esiste limite per colui che accende i riflettori.
Ecco com’era cominciata. E adesso, grazie a quella palla corta, sono in parità al tie del terzo e ultimo set. Ha rischiato, Massimo, ma ha riportato la situazione in equilibrio. Quella palla gli ricorda un tempo andato, quando l’aggettivo “corto” indicava altre manovre. Quando davanti agli schermi ultrapiatti della grande banca, proprio a London City, lo short era la quintessenza della finanza aggressiva. Quando “posizione corta”, “shortare”, significava vendere allo scoperto: vendere ciò che non si ha, vendere ciò che si prende in prestito, per scommettere poi sulla differenza di prezzo. Per alcuni era l’es- senza della speculazione, per altri il senso stesso della partita contro le variabili.

Massimo ha sentito che quello era il momento giusto. Come nell’altra vita, quando era uno dei cinque migliori trader d’Europa. Quando era subentrato a Derek alla guida del fixed income della grande banca. Lui, l’italiano che aveva scalato la piramide. Tempistica e coraggio: nel tennis come in Borsa. Era andato sempre in cerca dell’attimo giusto, del momento in cui montare il trade e picchiare duro. Coraggio e tempistica. Come quando sei in svantaggio e concedi il match point. E allora puoi solo giocartela. Succedeva così anche sui mercati, quando un trade si metteva male eppure Massimo se la sentiva, e invece di uscire dalla posizione in passivo la raddoppiava. Double up, si chiamava. Anni prima era stato un raddoppio del genere a causare la prima rottura fra lui e Derek.
Massimo De Ruggero ha sempre pensato che il tennis fosse una buona metafora della finanza, e si è riservato lo stile del virtuoso. Ha scelto il gioco alla McEnroe: offensivo, tutto d’anticipo, basato sull’intuizione del movimento della pallina. Al contrario, Derek ha puntato sulla forza e sul controllo del gioco. L’americano ricorda Borg: freddo, desideroso di calcolare ogni dettaglio. Andare a rete non lo contempla nemmeno: troppo rischioso. Lascia il tentativo agli avversari, ma la sua bravura è tenerli sempre lontani.

Faccia a faccia su un campo, a ventiquattro metri l’uno dall’altro, sembrano riproporre lo storico match tra Lendl e Chang. Solo che non ci sono battute imprevedibili né ricezioni spericolate in grado d’innervosire Derek Morgan.
Era così anche in banca. “L’unico modo di prevedere il fu- turo è causarlo,” ripeteva l’americano. Aveva smesso di cercare l’attimo. E si era posto l’obiettivo di governare il tempo, servirsi degli strumenti della finanza per manipolare, attraverso i mercati, la vita di milioni di essere umani. Sempre nel rispetto delle regole, perché quelli come Derek non hanno bisogno di infrangerle.
Colpisce la pallina come se volesse privarla di volume e ridurla a un punto su una superficie. La forza dei colpi è la stessa con cui ispirava l’attacco all’euro e ai debiti sovrani in Europa. Le perfette geometrie che disegna sul campo ricordano i movimenti che sapeva dettare ai mercati, l’ordine che imponeva al mondo governando i flussi di capitale. Il suo ordine. Il fermo immagine di un tempo immoto e di una realtà congelata a garanzia della supremazia di pochi. L’utopia di alcuni, l’incubo di altri. Come il dritto e il rovescio.
Derek William Morgan: capace di illuminare la scena dei mercati come ha illuminato quel campo di West Kensington. Capace di accendere coni di luce per tenere in ombra, al riparo dagli attacchi, ciò che gli sta a cuore. Di illuminare l’Europa, quando l’America era fragile.
Derek recupera le palline a fondo campo, prima di battere. Massimo si chiede se non sia un modo per prendere tempo e rifiatare, intanto che si piega sulle ginocchia, pronto a ricevere. Le mani strette sull’impugnatura. Vuole strappare quel servizio, e imporre il proprio gioco. Sente che è il momento. Rapporti di forza: la chiave di tutto. Nella politica, nella finanza, sulla terra battuta di quel campo del Queen’s Club. È nella finanza che si fa politica.

Derek batte forte, ma non riesce a imprimere l’effetto giusto. Nel momento in cui la pallina si stacca dalle corde, Massimo decide di rinunciare alla solita aggressività. Sceglie una tattica fredda, paziente, da fondo campo: la tattica di Derek. D’altra parte l’americano rappresenta quello che lui, tempo prima, avrebbe voluto essere. Tanto tempo prima, in un’altra vita, quando ancora non sapeva cosa Derek Morgan fosse disposto a fare.
Massimo incrocia un diagonale che taglia il campo. L’americano si muove rapido, abbozza un rovescio. Senza tensione la sfera torna indietro. Massimo non deve neanche spostarsi per scaricare un lungolinea preciso. E Derek assiste immobile al trionfo di quella geometria.
Ha creato le condizioni per vincere, Massimo. Adesso la partita è in mano sua. Su questo rettangolo di terra lo può fare, ma sui mercati ha sempre creduto che la vera abilità fosse intuire il momento in cui le condizioni erano favorevoli. Tutti pensano che la nanza sia un movimento frenetico. La si rac- conta così, e così la si vede nei lm. Invece Massimo sa che la finanza è attesa, gioco di pazienza: bisogna aspettare, fermi, im- mobili, come predatori. Fino all’occasione propizia, quand’è tempo di andare giù duri.
Adesso ce l’ha, l’occasione per chiudere il match. Quel ser- vizio è il trigger: non il tempo raffigurato come una linea retta, ma il tempo come singolo istante. E adesso dipende solo da lui.

Fa rimbalzare la pallina. La lascia andare in aria. L’impatto è brutale, alla ricerca dell’ace. Il momento di andare giù duri. E invece il servizio si spegne sulla rete.
Inspira, espira, per riempirsi d’ossigeno, per calmare i nervi. Nel pugno ha la sfera gialla: la seconda di servizio, un’altra occasione, l’ultima. Dà un’occhiata all’avversario. Stringe la racchetta, disegna una curva, colpisce con la stessa violenza. Qualcosa d’inaspettato, una seconda forzata. Andare giù duri. Tutto per tutto, un all-in a sfidare il calcolo statistico. Come in banca. Ma la pallina impatta oltre la linea di metà campo, laddove il punto non è buono. Doppio fallo, parità, condizioni che sfumano, calcoli sbagliati, esecuzioni maldestre.
Eccolo, l’errore umano. La variabile delle variabili, forse ancora più importante del tempo. Massimo dà uno strappo col braccio, per la frustrazione, che quasi gli fa volare via la racchetta.
Si dice che va tutto bene, si impone di recuperare il controllo. Deve mettersi d’impegno, ora, per ritrovare il sangue freddo, quello che l’ha reso celebre nella comunità finanziaria, sulla street, come vengono chiamati i mercati in gergo. Gli veniva naturale, un tempo. Mentre si prepara a battere, pensa che le cose cambiano.
“Interim is mine,” scriveva Shakespeare, celebrando il momento della scelta. L’istante in cui la pallina è libera di andare. Sul campo e nell’alta finanza, Derek cancellava quella frase, cancellava la libertà di scelta, scriveva il destino del pianeta attraverso il controllo delle valute e delle politiche monetarie. Ora che l’italiano lo guarda stringere la racchetta, gli pare che stringa il calcio di una pistola.
“Allora?” fa Derek. “Sei stanco?”
“Ci sono,” gli risponde, palleggiando per prepararsi al servizio.
Ma è ancora nervoso per quel doppio fallo, e la battuta traccia nell’aria una traiettoria poco angolata. La risposta di Derek è lucida, l’italiano avanza e forza il colpo.
“Fuori!” grida l’americano. Tiene il braccio teso e con la racchetta indica qualcosa sulla terra rossa.
“Era buona,” ribatte Massimo. Sa che non è vero, prova solo a innervosire l’avversario. Come Chang con Lendl, in quel match del 1989.
“Era fuori.” La voce di Derek è piatta. Impossibile fargli perdere il controllo. L’italiano lo vede spostarsi, fare qualche metro e colpire vicino al segno della pallina.
“Come fai a sapere che è rimbalzata proprio lì?” domanda con una sfumatura ironica.
“Lo so e basta.” Derek tira su un sopracciglio. “E lo sai anche tu.”
Massimo allarga le braccia, prima di recuperare la posizione. Ha fatto un errore, un altro, ha perso l’autocontrollo, e ha regalato un nuovo match point.
Derek è impassibile. Il palleggio, la sfera gialla in aria, il corpo che si inarca. Stavolta, appena la racchetta tocca la pallina, l’italiano scatta in avanti scendendo a rete.
Derek è costretto a un dritto giocato in difesa, che fa tornare la sfera dalla parte di Massimo. Non la lascia neanche rimbalzare, lui: volée. E parità.
L’americano batte il palmo di una mano sul piatto delle corde, simulando un applauso.

Sono sempre stati in parità. Un eterno equilibrio, dove nessuno era interessato ai soldi. Non l’americano di ghiaccio, l’uomo ossessionato dal controllo, che usava la finanza per garantire la supremazia del way of life statunitense. Non l’italiano che si era preso la City ingaggiando una guerra personale con le variabili. Da molto tempo giocano una partita, loro due.
Negli ultimi anni Massimo ha continuato a seguire i movimenti di Derek, dai computer nella casa sul promontorio. Ha riconosciuto la mano del grande manipolatore dietro certe oscillazioni dei mercati, nei grandi interventi di politica monetaria, nelle svolte delle banche centrali e nella svalutazione delle monete. In tutto questo ha riconosciuto il piano di Derek Morgan e dell’inner circle di cui è l’architrave. L’élite composta da esponenti delle più grandi banche d’affari, uomini vicini alla Federal Reserve, alti consulenti del Tesoro americano e pochi, selezionati raider dei Fondi speculativi. La matrice invisibile dell’Occidente. Si riunivano una volta al mese, in un grattacielo di New York City. Un posto apparentemente come tanti, dove invece si orchestravano splendori e miserie del pianeta Terra. Lo chiamavano il Tredicesimo Piano.
E mentre Derek Morgan tesseva la trama dei destini mondiali, davanti al mare Massimo la decifrava. E poi rendeva pubbliche le sue intuizioni, su un blog di controinformazione finanziaria.
Azione, reazione. Attacco, difesa. Battuta, risposta. Come su quel campo da tennis. Come in quel match tra loro, glorie di un mondo anonimo, invisibile, privo di tracce e di Storia.
In una vita precedente, il confronto col tempo e con le variabili aveva distrutto Massimo. Sperso tra i fantasmi dell’ossessione, aveva pagato prezzi pesanti, perso quasi tutto. Poi si era rialzato. Eppure, neanche la pace del mare aveva esorcizza- to i fantasmi. E da qualche tempo inseguiva una nuova chimera. Un nuovo studio sulle variabili. Le ha calcolate per tutti gli anni passati nella finanza, e continua a farlo adesso.
Un algoritmo. È a questo che lavora. Un algoritmo che interpreti i movimenti dei mercati. Un sistema avanzatissimo in grado di studiare come si determinino le reazioni nel circuito delle transazioni. Perché, come, quando si vende o si compra. Perché, come, quando cresce la fiducia. Perché, come, quando si diffonde il panico.
Un modo per comprendere gli individui che, uno accanto all’altro, formano la rete degli scambi. Come questo battere e ribattere una pallina su un campo. Allo stesso modo, ma in un altro tipo di scambi, su un campo più grande. Il mondo. L’algoritmo di Massimo analizza i mercati, decifra le loro caratteristiche, prevede le tendenze, anticipa le reazioni.
Ed è questo che Derek vuole. Per questo sono qui, adesso, a palleggiare in piena notte. Per questo l’americano sta andando al servizio: forte, potente, preciso. Una macchina che non può incepparsi. La risposta di Massimo è tesa, all’attacco, e subito dopo l’italiano spinge le gambe verso la rete. Derek si coordina, dà l’illusione di scaricare un passante per tagliare fuori l’avversario. Poi, all’ultimo, Massimo nota le gambe dell’americano flettersi e il piatto della racchetta orientarsi verso il cielo. La velocità è il rapporto tra spazio e tempo. E davanti all’impennarsi della sfera, Massimo sa che è proprio il tempo a mancargli. Per questo nemmeno ci prova, e resta fermo. Tiene la testa bassa, rinunciando a seguire la parabola della sfera che si solleva fino a scavalcarlo. Sente il suono dell’impatto col terreno. E sa che il punto è buono. Un lob liftato di quelli che fanno male, perché era certo di aver intrappolato il suo avversario. Come quando in finanza si va a letto sicuri di un pro tto e la mattina dopo un imprevisto, un gap down in qualche mercato lontano, l’ha tra- sformato in perdita. Nuovo vantaggio dell’americano.

Massimo inizia a sentirsi davvero stanco. Tocca a lui battere. Di fronte all’ennesimo match point da neutralizzare fa un respiro, scarica un servizio veloce, e imposta una strategia d’attacco. La risposta di Derek è centrale e imprecisa. La palla si impenna disegnando una curva. Questa volta però la traiettoria è il risultato di un controllo mancato. Massimo ha il tempo di conquistare qualche metro e liberare l’energia compressa dalla tensione. Il gesto è quello dell’adrenalina e del dominio. Smash. Punto. Match point annullato e nuova parità.
Al centro del campo, Massimo si piega. Deve riprendere fiato. Un vento notturno gli incolla la maglietta sudata alla pelle, rabbrividisce. Si alza, fa per tornare a fondo campo. Ma la voce di Derek, ancora una volta, lo inchioda: “Che dicono i numeri?”
L’italiano gira su se stesso. Osserva l’altro in piedi, vicino alla rete. Parlare è l’unico modo per farlo scendere lì, in quella parte del campo che il gioco dell’americano esclude. Come in passato ha escluso il debito USA e il dollaro da ogni possibilità di attacco.
“Cosa vuoi sapere?” “Chi daresti vincente?” “Tra noi due?”
Derek annuisce. “Tra noi due, adesso.”
Lui sorride, scrollando la testa: “Finora nel tie sei andato meglio tu,” considera, “ma valutando la differenza d’età e ipotizzando stesse condizioni d’allenamento, direi che il tempo gioca a mio vantaggio.”
“Il tempo… ” mormora l’americano.
Il silenzio che rimane, lo spezza Massimo: “Cosa vuoi, davvero?” La domanda che avrebbe dovuto fare molte ore prima.
“Chiuderla qui.”
“Nel tennis non esiste parità, Derek. Se vuoi smettere, significa che ti ritiri… Quindi ho vinto.”
L’americano indurisce il viso, l’espressione di quando sta puntando quello che vuole: “Possiamo continuare all’infinito sul campo.” Fa una pausa. “Ma non parlavo di questo. È il blog, che intendo. Quel gioco che fai, la controinformazione… L’ho letto, lo leggo sempre. Dietro puoi esserci solo tu. Perché, Massimo?”
Lui si curva alla terra, ci lascia la racchetta sopra. Poi risponde: “Perché non hai ancora capito che non puoi manipolare la vita.”
“Tu invece pensi di poter calcolare tutto, riuscire a interpretare ogni variabile. Ma non è così.” Derek indica con la sua racchetta un punto imprecisato, in alto.
E pochi istanti dopo, i fari agli angoli del campo si spengono. I due sprofondano nel buio. Il cielo di ne primavera è terso, disegna un manto di stelle sopra di loro.
“Questa variabile non potevi prevederla,” dice l’americano alla luce della luna.
“Stai barando.”
“No. Ti sto dimostrando che non esiste calcolo umano per comprendere qualsiasi incognita. L’unico vero calcolo è quello che impone delle costanti. Sono anche i limiti della tua ricerca, del tuo studio su quell’algoritmo. Perché vuoi sol- tanto che preveda l’andamento dei mercati, mentre dovrebbe poterli condizionare. Condizionare, Massimo. Capisci cosa vorrebbe dire? Alla guerra andrebbe una funzione, ci sarebbe un algoritmo al posto dei cannoni.”
“Per assecondare i tuoi ni…”
“Per garantire la stabilità.”
L’italiano fa un paio di metri verso la metà campo opposta:
“E come? Facendo e disfacendo governi?”
“Governando le variabili, conservando l’equilibrio, garantendo l’ordine nel tempo. Qui, ora e per sempre. Uno strumento che faccia crollare il prezzo delle materie prime se c’è instabilità politica in Sudamerica, che sostenga gli acquisti se un Paese della periferia europea rischia un crash incontrollabile, che abbatta il costo del petrolio se Mosca alza la voce…”
“Sei pazzo,” replica Massimo sorridendo. “O forse vedi cose che nessuno vede, come in un’allucinazione, come in un romanzo di fantascienza. Solo che per te il futuro è adesso.” Poi torna indietro, si piega a recuperare la racchetta. Il profilo sulla terra è abbastanza definito da farla individuare nel buio. La impugna e ricomincia a parlare: “Vedi, nel tennis,” ma si ferma, perché non distingue l’americano. Poi lo sente respirare, e prosegue: “Nel tennis, ogni giocatore sfrutta sen- za saperlo un calcolo delle probabilità. In frazioni di secondo, mette insieme gli indizi per prevedere la traiettoria della pallina in arrivo.” La voce è abbastanza penetrante per raggiungere Derek e guidare la sua immaginazione. “Ogni giocatore studia l’avversario: il movimento del braccio, la posizione dei piedi. Studia l’ambiente, la super cie del campo, e i ricordi dei match precedenti. Ogni giocatore è anche un matematico, Derek. Ma nei giochi ci sono gli imprevisti. Quelli che vuoi ridurre a costanti sono dei maledetti imprevisti. E a volte gli imprevisti cambiano il corso della Storia. Nessun algoritmo può impugnare una racchetta.” S’interrompe. Al chiarore della luna, muove la racchetta in avanti finché il profilo dell’ovale non sfiora la spalla dell’americano. Quando riprende a parlare, un tono condiscendente, quasi paternalistico, gli piega la voce: “E nessun algoritmo può muovere un cannone… Per questo sei la persona più vicina alla follia che io abbia mai incontrato.”
L’americano fa una smorfia divertita. “La libertà è quello che ti farà perdere sempre.”
“Hai paura,” scandisce Massimo. “Vuoi uno strumento di controllo che faccia a meno di tutto perché non ti di più nemmeno di te stesso. Temi di essere la variabile imprevista che compromette il piano. Non credi al tempo, e non vuoi che esistano la fine e l’inizio. Invece qualcosa deve finire perché altro possa cominciare. Hai ingabbiato il pianeta in un’armatura. Lo stai soffocando. Ma la ne si avvicina e possiamo solo sperare in un tempo nuovo. Guarda gli accelerazionisti, Derek: loro ti direbbero di correre in cerca della ne, accelerare e superare il tempo. Sta venendo qualcosa di buono. In fondo io ne sono la prova. Là fuori si può ricominciare.”

Derek si muove lentamente, il contorno della sua gura sfuma nel buio, la terra attutisce il suono dei passi. “Non esiste niente fuori da quest’ordine, Massimo.”
Le luci si riaccendono.
L’italiano si guarda intorno, ma Derek sembra svanito. Piega la testa, Massimo. Tiene le braccia lungo i fianchi, rimane a osservare i segni della pallina sul terriccio. Gli sembrano un cimitero di possibilità. Ogni traccia impressa sul rosso del campo ha cancellato, per sempre, i colpi che hanno scelto di non giocare.
Massimo segue con nostalgia ognuna di quelle impronte. Ciò che poteva essere e non è stato. Percorsi interrotti, storie lasciate a metà. Eppure, non smette di credere in ciò che ancora potrà essere. I colpi che vivono in ogni tennista, i punti del campo ancora vergini. Niente può cancellare l’istante in cui la sfera è libera di andare.

Interim is mine.