“Sulla terra battuta, specialmente in casa, siamo una delle squadre più forti al mondo”.
L’aveva detto Corrado Barazzutti durante il vittorioso weekend contro la Svizzera. In una delle rare occasioni in cui si è sbilanciato in pronostici e speranze, disse che l’obiettivo poteva essere un risultato migliore rispetto alla semifinale del 2014. Non c’è dubbio, dunque, che la sconfitta contro l’Argentina faccia male. Non è corretto parlare di fallimento e non è il tempo dei processi: di fronte avevamo una squadra piuttosto forte, che ha preparato la serie con grande professionalità, arrivando a Pesaro con una settimana di anticipo dopo aver analizzato tutto nei minimi dettagli. Però resta l’amaro in bocca per un’occasione persa, anche se la semifinale in Gran Bretagna sarebbe stata tutt’altro che semplice. Nell’anno olimpico, le assenze di lusso in Davis (già tante) sono cresciute, e noi avremmo potuto approfittarne. Invece l’albiceleste non ha avuto bisogno nemmeno dell’ultimo singolare per espugnare Pesaro, ed è legittimo domandarsi le ragioni di questo risultato. L’abbiamo chiesto a entrambi i capitani, Daniel Orsanic e Corrado Barazzutti, e le abbiamo mischiate alle sensazioni di una tre giorni strana, piena di alti e bassi tecnici, psicologici e…meteorologici. Ognuno creda alla versione che preferisce.
“Abbiamo vinto questa partita grazie all’ottima preparazione. Direi che questo successo è nato ancor prima di scendere in campo. Ci abbiamo messo tutto: cuore, passione e coraggio. Sapevamo che i match sarebbero stati duri e combattuti, e in effetti è stato così, però il nostro lavoro ha dato i suoi frutti. Abbiamo onorato i colori della bandiera argentina”.
“Non mi piace dare giustificazioni a una sconfitta, quando si perde si perde. Però ci sono alcuni fatti innegabili: Bolelli si è dovuto operare al ginocchio poco prima del match e abbiamo perso il doppista titolare; Seppi non è stato in grado di giocare il doppio, anche se è stato ben sostituito da Lorenzi; Fognini ha dovuto giocare tre partite in 24 ore…diciamo che se il sorteggio lo avesse collocato per primo sarebbe stato meglio. E poi ci sono state diverse situazioni durante i match che ci sono scappate per un soffio, penso ai quattro setpoint di Fognini ma non solo. Diciamo che non siamo sempre stati nelle condizioni di giocare al 100%: poi c’è stata anche l’Argentina, squadra molto ben organizzata che ha ritrovato Del Potro”.
Versioni diverse e distanti tra loro, vere ma faziose. Al di là delle frasi fatte, l’Italia ha perso questa partita per un mix di sfortune ed errori, ma anche perché ha una panchina più corta. L’Argentina aveva quattro giocatori più o meno intercambiabili e ha potuto permettersi di diluirne gli impegni. Schierare Del Potro soltanto in doppio è stata una scelta, ma anche un lusso. Noi non ce li possiamo permettere ed è stato inevitabile costringere agli straordinari il povero Fognini. Dalle 11 di sabato mattina alle 16 di domenica pomeriggio, ha passato sul campo da tennis nove ore su ventinove (allenamenti esclusi). Ha un gran fisico, poteva anche firmare l’impresa con Delbonis, ma non è un robot e nemmeno un superman. Però non avevamo giocatori in grado di sostituirlo: Bolelli non c’era, Lorenzi ha quasi 35 anni e fa quel che può, Cecchinato non ha l’esperienza e (per ora) nemmeno la qualità per giocare a certi livelli. Dietro ci sono alcuni giovani ma sono, appunto, dietro. Speriamo che arrivino al più presto, ma i vari Donati, Quinzi, Napolitano, Sonego, Mager, Eremin e così via non hanno ancora la base necessaria per giocare partite come questa. Con un Bolelli in forma e un Seppi al 100% avrebbe potuto essere un match diverso, ma il problema è che la loro assenza è stata rimpiazzata come si poteva. Insomma, “panchina corta” vuol dire anche “coperta corta”. Con un paio di top-100 in più avremmo ammortizzato con agio le difficoltà e le sfortune, che di certo non sono mancate. La verità è che oggi l’Italia ha appena tre top-100 ATP, mentre l’Argentina sette (a cui si aggiungerà Juan Martin Del Potro).
LE OCCASIONI SCIUPATE
La Davis non rappresenta l’esatto stato di salute di una nazione, quindi si poteva anche vincere. E non sarebbe stata né un’impresa, né un miracolo. E’ girata male, ma non c’è niente di male nel dire che gli argentini sono stati più bravi di noi. L’errore delle posizioni nel doppio è stato piuttosto grave e forse è stato decisivo, ma non ne parleremmo se Fognini e Lorenzi avessero sfruttato le tre palle break sul 3-2 al quinto, quando Del Potro sembrava sulle ginocchia e Pella aveva il braccio tremolante. Due su tre le abbiamo giocate male e lì va recitato il mea culpa. Ci sono poi stati i quattro setpoint di Fognini per portare Delbonis al quinto. Un Delbonis sempre più boccheggiante. Due volte è stato bravo l’argentino, due volte Fabio ha sbagliato al termine di scambi pieni di paura. Dagli infuocati gradoni del Tennis Club Baratoff è facile puntare il dito contro il giocatore, ma stavolta non è il caso. Fognini ha dato quello che aveva e non gli si può addebitare granché. Merita i complimenti per aver reso possibile quello che sembrava impossibile, quando era sotto di due set e le gambe non giravano. “In effetti stavo peggio all’inizio, mentre alla fine mi sembrava che Delbonis fosse addirittura più stanco di me – ha detto Fabio – io avevo otto set nelle gambe, ma lui era come se ne avesse sedici. Ci ho provato, ci tenevo tanto, ho dato tutto ma non è bastato”.
RISSA PSICOLOGICA NEL FINALE
No, a Fabio non si può dire nulla. Ha regalato quelle emozioni che solo la Davis può trasmettere. Frasi fatte, luoghi comuni? Certo, ma è la verità. Gli ultimi 6-7 game della partita sono stati un concentrato di situazioni in cui non era più tennis. Era guerra psicologica, di cui il pubblico è stato parte integrante. Fabio ha personalità e non ha avuto problemi nel battibeccare con i circa 60 argentini più calorosi, e ha convinto il pubblico (oltre 4.000 persone) a fare altrettanto. Stufi dei cori intonati fino allo sfinimento, gli italiani hanno provato a seppellirli con i fischi. Ne è venuto fuori un clima incandescente, fin quasi bellissimo, di sicuro molto divertente per lo spettatore neutrale. E’ dovuto intervenire il supervisor Soren Friemel, chiedendo alla speaker Lucia Maglitto di invitare il pubblico alla calma. Alla fine hanno goduto gli argentini, ed è un trionfo (molto) personale di Daniel Orsanic. Ha messo insieme Del Potro e Monaco, ha creato un clima di amicizia e complicità e ha ridato l’entusiasmo-Davis a una nazione vittima di tante batoste e – soprattutto – reduce dal pensionamento dai giocatori della “Legiòn”, una straordinaria generazione incapace di sollevare ‘sta benedetta Insalatiera nonostante tre finali (2006, 2008, 2011).
Perdere fa male. Fa sempre male. Ma contro l’Argentina, in fondo, è un po’ meno doloroso. Nella conferenza stampa finale, gioiosa, si sono presentati in 18. Orsanic li ha voluti tutti con sé, come a mostrare ai (tanti) argentini presenti la compattezza del suo team. C’erano tutti: sparring, fisioterapista, incordatore, osteopata e chi più ne ha più ne metta. Ahiloro, il sogno Davis potrebbe restare tale anche stavolta, perché già in Gran Bretagna avranno le loro gatte de pelare, ma intanto sono in semifinale. Noi no, rimandiamo il sogno nella speranza che i giovani crescano e che il 2017 possa essere finalmente l’anno dei volti nuovi. Probabilmente andremo ancora avanti con Corrado Barazzutti: a breve ci saranno le elezioni FIT e il rinnovo delle cariche dirigenziali. “Io ho dato la mia disponibilità al Consiglio Federale: se vorranno, sono pronto ad andare avanti”. Ce l’aveva già detto, lo ha ribadito. Ed è probabile che la sua fedeltà al progetto FIT sarà premiata. Ma d’altra parte, come ha detto “Barazza”. “Il risultato dipende sempre e comunque dai giocatori”. Quai giocatori di cui abbiamo un gran bisogno.