Sono passati quasi cinquant’anni dalla “prima volta” del nostro columnist a Indian Wells. Aneddoti, considerazioni generali e tecniche su quello che è da molti considerato il torneo meglio organizzato del circuito Atp

La mia prima volta in California risale ai secondi anni settanta, in coincidenza con gli echi di un bel torneo Atp giunto nella città di Palm Springs dopo una fase embrionale spesa in una Tucson ormai priva di pericolosi pistoleri. Poi all’inizio degli ’80 una compagnia aerea di second’ordine mi giocò un brutto scherzo in partenza dal John Wayne Airport di Sant’Ana, destinazione San Francisco, un maledetto decollo in cui ho pensato per un attimo di lasciarci le penne. Andò bene per il rotto della cuffia ma per reazione riflessa, di California non ne ho più voluto sapere.

Tant’é che ancora oggi, ogni volta sono lí lí per alzare il telefono e chiedere un accredito per Indian Wells, ma subito dopo l’idea ripiega su se stessa al ricordo di una Los Angeles illuminata che quella lontana sera mi veniva minacciosamente incontro.
Le 46 repliche successive del prestigioso torneo le ho godute da modesto teleutente apprezzando, tuttavia, i grandi cambiamenti che hanno fatto del torneuccio nato in Arizona, il grandissimo evento dei giorni nostri cresciuto rasente sorgenti d’acqua scoperte da antichi e gloriosi pellerossa. Un cemento a mezza via tra la velocità della moderna terra parigina e lo sgusciante scivolio dell’erba a 6mm in auge nella Church Road dei tempi andati. Un mix che nel tempo ha rilevato il dominio di giocatori a tutto campo, diversi per modalità di vittoria ma uguali per sana ambizione. Così che le due vittorie di Hewitt valgono quelle di Becker mentre le tre di Connors pesano come le stesse di Chang e Nadal. Su tutti svettano le cinque di Federer e le altrettante di Djokovic, tennisti universali di grande spirito adattivo avvezzi a numeri più ampi anche nel lontano West.


Le vittoria di Norrie e Fritz nei due anni alle spalle la dicono lunga sulla transizione in atto, resa celere anche per questioni di età nonché storie di covid e politica internazionale che nello sport non dovrebbero avere ruolo. Insomma, per riffa o per raffa, l’era Alcaraz ha nell’edizione in corso una strada non proprio spianata ma almeno senza le buche che per noi romani sono invece un incubo extrasportivo ormai di antica fattura.

Quanto agli italiani, Fognini è stato giustiziato da un giovane Shelton più potente e motivato di lui mentre l’uscita di Sonego per mano di Kubler ci priva di un un bel match contro Dimitrov. Berrettini, ancora al di sotto del suo standard, ha ceduto a Taro Daniel in tre set ma è apparso in netto recupero. Quanto ai più giovani del villaggio, se tutto andrà bene, Sinner e Musetti entreranno in contatto al terzo turno e soltanto uno potrà approdare agli ottavi. Una rotta di collisione inevitabile, e per certi versi benefica, poca cosa rispetto al volaccio che tanti anni fa mi ha precluso, vita natural durante, di assistere al Masters 1000 meglio organizzato dell’intero circuito Atp.