Grazie al forfait di Raonic a Parigi Bercy, Andy Murray diventa il 26esimo numero 1 nella storia dell’ATP. E’ il riconoscimento alla perseveranza di chi non si è mai arreso, anche quando gli avversari sembravano troppo forti e la distanza era enorme. Migliorarsi anno dopo anno e scegliere le persone giuste è stata la chiave dei suoi successi.Non l’aveva immaginata così, ma la vita non è un film. Fosse stato lo sceneggiatore della sua vita tennistica, Andy Murray avrebbe scelto Wimbledon, o magari la finale del Masters, per diventare numero 1 del mondo. Non certo uno spogliatoio del rinnovato palazzone di Bercy, sobborgo di Parigi, dove qualche addetto dell’ATP gli avrà dato una pacca sulla spalla, mentre si preparava a sfidare Milos Raonic. “Ehi, Andy, il tuo avversario ha dato forfait. Sei in finale. E sei numero 1 del mondo”. Una lesione al quadricipite ha messo a rischio la partecipazione del canadese alle ATP World Tour Finals: figurarsi se sarebbe sceso in campo a Bercy. “Ho sentito un dolore sul 4-2 del primo set contro Tsonga – ha detto Raonic – stamane è stata dura alzarmi, poi ho effettuato una risonanza che ha individuato il problema. Tra 10, 20, 50 anni, soltanto i più attenti ricorderanno i dettagli di questo strano sabato, con appena 70 minuti di tennis, il tempo necessario a John Isner per seppellire Marin Cilic con ben 18 ace. 6-4 6-3 e terza finale Masters 1000 in carriera, la prima lontano dagli Stati Uniti. Al contrario, tutti ricorderanno il 7 novembre 2016, il lunedì che detronizza Novak Djokovic e incorona Andy Murray, 26esimo numero 1 nella storia del tennis. Detto che i punti ATP non si comprano al supermercato (Muster docet), il traguardo è doppiamente meritato perché sono passati 7 anni da quando lo scozzese è diventato per la prima volta numero 2. Da allora, 76 settimane da viceré, un’operazione alla schiena e la sensazione di essere meno forte dei mostri sacri. Prima Federer, poi Nadal, poi Djokovic…sembravano troppo per lui.
Supereroi irraggiungibili per il più bravo degli esseri umani, una specie di Batman costretto a inseguire non uno, ma tre Superman. Il grande merito di Murray è stata la perseveranza. Non ha mai mollato, ha sempre cercato di migliorarsi, prestando attenzione a ogni dettaglio possibile. Alla fine ha avuto ragione, più vecchio a diventare numero 1 per la prima volta dai tempi di John Newcombe. Lo scozzese deve ringraziare tante persone: mamma Judy, la moglie Kim (che l’aveva lasciato perché giocava troppo alla Playstation: oggi sarà ben lieta di sapere che il suo futuro marito aveva solo questa mancanza, mentre sembra che altri si siano lasciati andare a tentazioni ben più scivolose…), gli allenatori che si sono succeduti…ma non c’è dubbio che la scossa decisiva l’abbia data Ivan Lendl. Assunto nel 2011, gli ha permesso di superare il complesso degli Slam. Proprio come Ivan il Terribile, Andy ha dovuto perdere quattro finali prima di aggiudicarsi il primo titolo (Us Open 2012). Insieme a lui ha sfatato il tabù Wimbledon, e sempre con lui è tornato a vincere dopo la parentesi con Amelie Mauresmo. Lendl non è Parigi, ma c’è molto di suo nei miglioramenti con il dritto e con la seconda di servizio. Senza dimenticare un atteggiamento più maturo, che gli ha fatto conquistare tanti appassionati. Prima si rifugiava in trash-talks, vomitava sul campo, non era un mostro di eleganza. Adesso la gente ha capito che Andy è uno che lavora sodo. Una buona persona, con valori importanti e un sincero rispetto per la storia, elemento-chiave per chiunque ambisca ad essere un campione. Quando Lendl giocava, era attento a ogni dettaglio. Alimentazione, preparazione fisica, trucchi psicologici. Aveva bisogno di tutto per battere i Borg, i Connors, i McEnroe e i primi Edberg e Becker. Da parte sua, Murray ha dovuto fare altrettanto per avvicinarsi agli altri.
“Fino a quando non vinci, non sai se puoi farcela – ha detto Lendl a giugno, quando è tornato all’angolo di Andy – lui l’ha dimostrato, adesso dobbiamo domandarci se può riuscirci di nuovo. Ma la risposta è certamente più facile”. Da allora, il bilancio di Andy parla di 47 vittorie e 3 sconfitte, con ben sei titoli in cascina (compreso il secondo Wimbledon e il secondo oro olimpico). Ad aprile, il distacco da Djokovic era di oltre 8.000 punti. L’ha rosicchiato con pazienza, settimana dopo settimana, e adesso può festeggiare. Dovesse battere Isner nella finale di Bercy, si presenterebbe a Londra con 405 punti di vantaggio: un distacco che potrebbe essere decisivo, anche se Nole avrà comunque la possibilità di effettuare il contro-sorpasso. E così, se Marat Safin e Dinara Safina sono stati numero 1 ATP e WTA, Serena e Venus Williams entrambe numero 1 WTA, i fratelli Murray potranno raccontare di essere stati in cima al tennis: Andy in singolare, Jamie in doppio. Murray entra con pieno merito nella lista dei numeri 1 ATP: c’è chi ha vinto meno di lui (Kafelnikov, Moya, Rafter, Ferrero, Roddick, Muster) e persino chi c’è arrivato senza aver vinto neanche uno Slam (Marcelo Rios). Se dovesse chiudere l’anno al numero 1, tuttavia, non batterebbe il record di Ivan Lendl, il più anziano a chiudere una stagione in vetta (aveva 29 anni e 299 giorni nel 1989). Ma non crediamo che ci perderà il sonno: adesso Andy è il numero 1. Il più bravo di tutti. Lo ha dimostrato e meritato nell’unico luogo che conta: il campo da tennis.
VIDEO: ANDY MURRAY E’ IL NUOVO NUMERO 1
IL SUCCESSO A WIMBLEDON
L’ORO OLIMPICO A RIO DE JANEIRO
I NUMERI 1 NELLA STORIA DELL’ ATP
Roger Federer (302 settimane in vetta)
Pete Sampras (286)
Ivan Lendl (270)
Jimmy Connors (268)
Novak Djokovic (223)
John McEnroe (170)
Rafael Nadal (141)
Bjorn Borg (109)
Andre Agassi (101)
Lleyton Hewitt (80)
Stefan Edberg (72)
Jim Courier (58)
Gustavo Kuerten (43)
Ilie Nastase (40)
Mats Wilander (20)
Andy Roddick (13)
Boris Becker (12)
Marat Safin (9)
John Newcombe (8)
Juan Carlos Ferrero (8)
Thomas Muster (6)
Marcelo Rios (6)
Yevgeny Kafelnikov (6)
Carlos Moyà (2)
Patrick Rafter (1)
Andy Murray (1)
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