Dopo una vita di alti e bassi, ragazzate e notti al pub, l’ex enfant terrible Daniel Evans sembra aver chiuso col passato. Con l’aiuto della fidanzata si è dato una regolata, d’inverno ha finalmente lavorato da professionista e i risultati si vedono. È in finale a Sydney, e può sognare il primo titolo ATP.Ogni santo ha un passato, ogni peccatore ha un futuro. Se Samuel Beckett è entrato nel tennis grazie a Stan Wawrinka, a dedicare un avambraccio a Oscar Wilde ci ha pensato Daniel Evans, lo sgraziato ventiseienne inglese che ha deciso di tatuarsi un suo aforisma in bella vista, per ricordare a chiunque di smetterla di giudicare i suoi atteggiamenti. L’elenco di chi gli puntava il dito contro era lungo come i 200 chilometri che separano Londra dalla sua Birmingham, dove è partita la carriera di quello che fino a qualche mese fa i giornali d’oltremanica amavano etichettare come “biggest waste of talent”, il più grande spreco di talento, mentre oggi sulla carta stampata ci torna spesso per i suoi risultati sul campo. Quel campo che è diventato la sua casa molto presto, quando a soli tredici anni ha lasciato la sua umile famiglia della working class (padre elettricista, madre infermiera) per spostarsi all’accademia LTA a Loughborough, come tantissimi altri. Ma con una differenza che col tennis non va troppo d’accordo: il concetto di sacrificio, per vedere dei risultati a lungo termine, non gli è mai appartenuto. Così, mentre gli altri crescevano e accontentavano i tecnici federali, lui negli anni si è costruito la fama del disgraziato, di quello che un giorno arriva al terzo turno dello Us Open sculacciando Nishikori e Tomic, l’altro al terzo litro di birra al pub, facendo bye bye all’allenamento della mattina dopo. Il suo problema è sempre stato quello: una passione sfrenata per locali, serate e divertimento, naturale conseguenza di qualche bravata di troppo e della scarsa voglia di allenarsi e faticare, che gli aveva fatto quasi gettare nel cestino una carriera che sta diventando sempre più interessante. Lui non ci badava troppo, ha sempre ripetuto “se gioco bene, entro tranquillamente tra i top 100”, e sulla seconda parte nessuno gli dava torto. Ma è la prima che lasciava qualche dubbio. Non se sta bene, ma se ha voglia. E quella ha sempre fatto su e giù come i rapporti con la LTA. A fine 2010 gli tagliarono i fondi, dodici mesi dopo lo reputarono di nuovo meritevole, altri dodici mesi dopo cambiarono idea un’altra volta. In sintesi, ha dovuto più o meno arrangiarsi. E da quel tatuaggio, che risale a fine 2010, per trovare il suo futuro e farselo piacere ci ha messo cinque anni. Ma l'importante è che ci sia riuscito.
“SO COSA DEVO FARE, MA NON LO FACCIO”
Molti giocatori dal passato movimentato non amano parlarne: Dustin Brown detesta le domande sul camper con cui girava l’Europa ai tempi dei Futures, mentre Ivan Dodig finge di non ricordare quella notte in cui dormì sotto un ponte, perché non aveva un euro in tasca. Dan il ribelle, invece, i tempi dei pub fino al mattino li ricorda col sorriso: è fatto così. Semplice, senza troppi freni, onesto con sé stesso. Ama non prendersi troppo sul serio. Non a caso è amico di Kyrgios, ci ha giocato qualche doppio insieme: fra disgraziati si capiscono. Basta spiarne i social: gli altri “pro” pesano ogni parola, lui chiede link per gli streaming dei suoi incontri, scherza con gli amici, si diverte. “Non sono un buon lavoratore, non mi impegno quanto dovrei, so cosa devo fare ma non lo faccio”, diceva di sé qualche anno fa, facendo sembrare un santo pure Mario Balotelli. “Ci sono altre cose nella vita. Ho un gruppo di persone con le quali mi piace uscire e andare a divertirmi come farebbe chiunque”. Ciò che non dice e che nel febbraio di due anni fa, quando un infortunio al ginocchio l’ha obbligato a fermarsi tre mesi e il ranking è sceso al numero 772, ha pensato di piantare il chiodo. I media colsero l’occasione per gettargli addosso un po’ di fango, scrivendo che si era perso di nuovo, tornando ai soliti vizi. C’era un fondo di verità: ha beccato una multa per non essersi presentato a un Futures dove era iscritto, perché dopo aver toccato il tennis che conta non accettava di dover ripartire dal bass(issim)o. Ma l’ha fatto, e bene, spalleggiato dal coach Mark Hilton. È tornato nel maggio del 2015, si è dato una regolata e dodici mesi dopo ha toccato per la prima volta i top-100. Non è che non esca più la sera, anzi. Ma torna prima e si comporta in maniera responsabile, anche grazie all’arrivo di Georgina, la prima fidanzata vera della sua vita. Era nel suo box quando allo scorso Us Open ha sculacciato la baby star Zverev, e al terzo turno, sul Louis Armstrong e in orario da pub, è arrivato a un punto dal rovinare la (futura) favola di Stan Wawrinka. Sparava vincenti e “come on” a raffica, Stan si è stufato e gli ha urlato di smetterla. Qualche game dopo è passato ad “allez”, per dire a Wawrinka che alla voce “paura del top-10”, la casella è vuota. Lo avrebbe dovuto battere sul campo, non a parole.
  UN OMAGGIO A JULIEN HOFERLIN
La scorsa settimana Evans ha scritto su Twitter che “è incredibile vedere giocare a tennis Roberta Vinci”. Ha ragione, eppure i due non sono così diversi. Braccio magico, rasoiata in back difficile da “tirar su”, per usare il gergo dei giocatori, e poi ancora tanta facilità, una gran copertura della rete. In una parola: classe. Ha iniziato l’anno alla Hopman Cup e fra singolare e doppio non ha vinto un set in sei incontri. Ma era un’esibizione: la sua vera stagione è scattata a Sydney e si è fatto trovare pronto. Quattro match, quattro vittorie in tre set, a ritoccare quella semifinale del 2014 a Zagabria che valeva come miglior risultato in carriera e mostrare che il duro lavoro invernale, chiuso da una decina di giorni all’IMG Academy di Bradenton, è servito parecchio. Ha fatto fuori Thiem ai quarti, Kuznetsov in semifinale e in finale se la vedrà con Gilles Muller, anche lui a caccia del primo titolo ATP, a 33 anni e dopo ben cinque finali perse. La prima addirittura nel 2004. Il 33enne lussemburghese se lo meriterebbe un sacco, ma il “peccatore” non sembra d’accordo e vuole fare un regalo a Julien Hoferlin, l’ex coach della LTA morto di cancro al cervello a fine 2015, a soli 49 anni. L’aveva seguito a lungo, per un periodo anche da coach personale, e si era creato un rapporto stupendo perché aveva imparato ad accettare Evans così com’è. “Ha un potenziale da primi 60 al mondo – diceva di lui – ma il tennis è solo una parte della sua vita, come tante altre. Non capisce che deve diventare la priorità”. Forse l’ha capito adesso. Con la finale sarà numero 51, in caso di vittoria entrerà nei primi 50, per mostrare a Hoferlin che non solo aveva ragione, ma l’aveva addirittura sottovalutato. “Julien sarebbe fiero di quello che stai facendo, ovunque sia”, gli ha scritto ieri su Twitter un suo follower. “Evo” l’ha solo ritwittato, senza aggiungere altro. Forse aspetta di farlo con un trofeo in braccio.