Thomas Fabbiano, classe 1989, è stato uno dei tre talenti su cui l’Italia aveva scommesso una decina di anni fa. Gli altri due, insieme a frotte di promesse mai sbocciate, sono dispersi: lui, il più minuto, si è ritrovato solo ad affrontare il mondo senza aiuti. Contro ogni scommessa ce l’ha fatta: a dieci anni dall’ingresso nel ranking, ha toccato il paradiso dei top 100 e ci ha raccontato come si costruisce un piccolo miracolo.
(Articolo-Intervista realizzato nell'aprile 2016, di nuovo di grande attualità con la qualificazione di Fabbiano all'Australian Open)
«Trevisan, Lopez, Fabbiano». A forza di sentirlo, il mantra aveva preso casa nel cervello.
Quel mattino avevo incrociato il migliore dei tre, mentre camminava spedito verso la Porte Suzanne Lenglen. Con le cuffie nelle orecchie, il taglio rasato ai lati e l’elastico delle mutande volutamente in vista sotto la tuta, guardava fiero avanti a sé. Era la testa di serie numero uno del tabellone dei minorenni, era Matteo Trevisan. Fresco di trionfo al Bonfiglio, a Parigi si presentava da numero uno al mondo; avrebbe perso in semifinale mentre Thomas Fabbiano da San Giorgio Ionico, il terzo elemento di quel salmo laico, si sarebbe aggiudicato il torneo di doppio con l’amico Andrei Karatchenia. Un successone. Trevisan, Lopez, Fabbiano: e quando arriveranno lassù, i gufi la smetteranno con la litania che la federazione ha i campi, i soldi, i maestri eppure non cresce un giocatore decente. Così mi diceva, mentre osservava tronfio un allenamento dei suoi accanto a una sessione di volée e battutacce da osteria di Marat Safin , il preparatore al sèguito dei giovani italiani (1).
La cronaca, purtroppo, finì per raccontare un’altra storia. Quel sorpasso al cancello in Avenue de la porte d’Auteuil di nove anni fa è rimasta una delle prestazioni notevoli di Matteo Trevisan in uno Slam. Plurinfortunato e candidato al titolo di più forte giocatore italiano mai riuscito a far parlare di sé, arrivò a ridosso dei 250 al mondo nella sua stagione migliore. Daniel Lopez è disperso in Paraguay, dicono si sia ritirato. Del terzo dell’Avemaria, Thomas Fabbiano da San Giorgio Ionico, restava memoria per la acca nel nome troncato. Niente di esotico, solo una scelta della famiglia pugliese doc: un compromesso per conservare il nome del nonno senza trascinarsi la pesantezza austera di un Tommaso
Anno 2016, tennisticamente una vita più in là: Thomas ha quasi 27 anni. È rimasto affezionato al metro e settantadue. Quando colpisce di dritto, pare usi uno schioppo a retrocarica. Ta-pum: la palla parte via spinta dalla polvere da sparo. Il suo avversario di giornata, l’ex numero uno italiano Filippo Volandri, dirà che gli pareva di aver giocato contro un assatanato. Fabbiano ha perso le tracce di Lopez e di Trevisan; nel mentre, la federazione italiana aveva provveduto a smarrire il suo, di numero di telefono. Come una fidanzata sparita così, di punto in bianco. Se tocchi l’argomento, lui fa un respiro lungo e sorride, prima di misurare la replica: « È una questione delicata. Fino ai 21 anni mi hanno tenuto sul piedistallo. Come è normale che fosse, avendo dato loro successi negli Slam juniores. La regola è che da lì in poi non ti aiutano, se non sei arrivato a un certo livello. E sono d’accordo: se non hanno più visto in me un potenziale, era loro diritto pensarlo e lasciare che me la sbrigassi da solo». Però. «Però, tutto quello che è venuto dopo l’ho raggiunto io, questo deve essere chiaro. Anzi no – e torna a sorridere a denti stretti – due o tre anni fa mi hanno concesso un posto nelle prequalificazioni al Foro Italico (2)» e lo dice appena prima che, durante il challenger di Napoli, Sergio Palmieri avvicinasse il suo coach a partita in corso, per informarlo che sarebbero stati lieti di fargliele giocare di nuovo quest’anno. «Comunque, li ringrazierò a vita per ciò che mi hanno dato. Finché ho compiuto 21 anni». Cioè, quando è stato piantato in asso. «Abbandonato è la parola giusta. A quell’età, e con la mia classifica dei tempi (ha compiuto i ventuno da 381 al mondo, nda) non puoi permetterti di pagarti l’attività di tasca tua».
Senza una cocciutaggine che è financo difficile da comprendere, perché quasi dieci anni di via crucis tra tornei scrausi e tentativi nei challenger abbatterebbero il morale di un monaco tibetano, accanto al suo nome si dovrebbe leggere la dicitura “ritirato”. Come tanti altri vedrai-che-questo-diventa-forte, le cui facce sbiadiscono sulle riviste specializzate impilate in cantina. Thomas, come Luca Vanni, ha fatto il miracolo della tigna: ad aprile 2016 lo trovi al numero 98 al mondo. Da stropicciarsi gli occhi. Il sito Fit gli fa i complimenti: adesso è un esempio “importante per tanti ragazzi che ci stanno provando”. È vero, sebbene dirglielo solo ora sia un esempio anche di qualcosa d’altro, molto italiano e leggermente meno virtuoso. «Però io non ho rancore: ci sono delle regole, hanno fatto delle scelte, punto». Massì. In fondo la federazione non è un ente filantropico, fa i suoi interessi: se servi, benvenuto. Sennò, saluti. E per i giocatori è una ghiotta possibilità: è lei a distribuire le maglie della nazionale, lei a poter allentare le corde del borsello offrendo finanziamenti e servizi.
Tutti si erano, meglio, tutti ci eravamo scordati di Thomas Fabbiano. Per rammentare come se la cavava, è stato utile consultare YouTube. Ironia della sorte, il primo risultato è un estratto degli Us Open 2013: l’unica partita Slam della vita, almeno fino a questa primavera. Un sorteggio irridente lo volle mandato a misurarsi con Milos Raonic, la torre canadese con un anno di vita in meno e due spanne di gambe in più. Primo punto: botta a 227 km/h. Se la palla restava in gioco, c’era match. Più spesso, andava diversamente. Ventotto ace più tardi, contro i frequenti zero di Thomas, finì con un dignitosissimo 6-3 7-6 6-3. Lo ricorda bene, quel giorno, riflettendo su una carriera da guastatore in mezzo ai bombardieri: «Il servizio, secondo me, fa la differenza ma tra vincere gli Atp e gli Slam, non tra il diventare forte o no. Ammetto che non sia al livello degli altri colpi, so che la mia velocità è inferiore alla media. Ma secondo me non è il fatto di non avere la battuta di Raonic che non mi ha fatto arrivare in alto. Al massimo, avessi avuto un gran servizio mi sarei potuto aiutare di più, invece di sudarmi tutti i punti».
Certo è che Thomas si presenta con misure curiose, in uno sport in cui l’altezza standard del top 100 aggiornata alle ultime classifiche è il metro e 86. Assestato con fierezza su un fisico tanto minuto da sparire in mezzo ai raccattapalle adolescenti, più che una a una ex scommessa del vivaio federale l’occhio superficiale dell’appassionato sarebbe tentato di pensare a un’allucinazione collettiva. Invece no. Per aiutarsi a diventare uno dei cento tennisti più bravi del pianeta, Fabbiano si è rivolto a uno specialista. Uno ce l’aveva in casa: è il padre Stefano, medico di famiglia con studio in centro a San Giorgio. Fu lui a inaugurare, da sindaco del paese, il circolo che aprì nel 1995 e in cui il figlio iniziò a giocare. Il dottore del suo tennis, però, è un altro. Si chiama Fabio Gorietti, è un coach che gestisce la Tennis Training School. Se vi aspettate la sede a Key Biscayne, Florida dovete sapere che i campi stanno un po’ più a est: a Foligno, Umbria (3). «Ho lavorato spesso – dice – con ragazzi come Thomas, che erano stati forti da giovani e poi erano scesi di classifica e di morale. Da noi, in Italia, è così: quando uno vince quattro partite ti portano alle stelle; ne perdi quattro e diventi nessuno. La sua insicurezza, ogni tanto, lo faceva cadere nella sfiducia: da quando è venuto qui, ho cercato di lavorare sulla consapevolezza». Gorietti non ha dubbi: «La capacità di vincere contro giocatori di alto livello, a parte quelli altissimi, lui ce l’ha». Luca Vanni, che ha una storia ancora più improbabile della sua, guarda caso è suo compagno di allenamenti a Foligno e lo si è visto transitare dai tornei di terza categoria agli Slam: figurarsi se Gorietti si stupisce se Thomas si qualifica a Chennai, batte Gilles Muller (38), Dodig (80), Leonardo Mayer (40) e gioca negli ottavi a Dubai contro un Thomas appena più nutrito e curriculato, Berdych.
A proposito, com’è assaggiare il ferro di un top ten? «Bello. La cosa migliore è la fierezza di un percorso che per me è stato così lungo. Poi, giocare contro Berdych che è lassù da dieci anni è una sensazione ancora più appagante. Alla fine del match (2-6 2-6, che lui giudica «onesto», nda) gli ho detto che è stato troppo bravo. Lui mi stava rispondendo qualcosa, ma intanto ero scappato dalla stretta di mano. Comunque, quelli sono campioni diversi dagli altri: affrontarli è tutta un’altra cosa, col rispetto che devo a un quarto di finale che ho giocato in India contro Paire. E poi, nei momenti importanti ho notato che lui ha dovuto trovare il servizio per vincere punti chiave, insomma, non si è potuto permettere di scherzare. Come magari ogni tanto vedi fare a Djokovic nei primi turni». Sapere di poter appartenere, anche senza vista mare, alla medesima popolazione del condominio del Grande Tennis, fa tutta la differenza del mondo. «Che poi – aggiunge Gorietti – dopo la partita Thomas mi ha detto che, per fortuna, di top ten ce ne sono solo dieci», perché quelli rimarranno oggettivamente ingiocabili, ora e per sempre.Sono dettagli che al grosso degli spettatori sfuggono; a chi corre una vita alla rincorsa di quel treno extralusso, danno speranza per continuare. Soprattutto per chi, parole sue, per darsi la possibilità di farcela è avanzato col «passo della lumaca». Primo punto Atp nel maggio 2006. Numero 500 nel 2007. Prima del 2011, mai un passaggio nei primi 300. Poi di nuovo un passo e mezzo avanti e uno indietro, fino al 200, 180, 150, 130 e, alleluia, il numero che si accorcia e diventa di due cifre: 98. Che è tutto: “star dentro”, come dicono i professionisti, vuol dire entrare nei tabelloni dei quattro Slam. Cioè prendersi il montepremi di quattro eventi-bancomat con cui mettere via il denaro che finanzia un anno di attività e concede un po’ di respiro se ti serve una visita specialistica, se finalmente c’è quel torneo là che costa un sacco di soldi per raggiungerlo ma è meglio di quell’altro vicino a casa, se non vedi l’ora di prenderti un rischio e investire qualche settimana nelle qualificazioni degli Atp. E il contesto, che lo spettatore da tivù tanto spesso sottovaluta: l’ospitalità di un grande torneo fa bene al corpo e fa morale, aiuta. «Se arrivi 100 al mondo vincendo cinque challenger non è la stessa cosa che essere 150 essendoti qualificato tre volte in un Atp: nel primo caso hai punti ma non un euro, nel secondo qualcosa ti rimane in tasca. Il vantaggio di essere nei primi 100 è che, finalmente, puoi giocare “quei” tornei e arriva il bello. Fai una fatica assurda per arrivarci, ma poi hai un anno da gestire in relativa tranquillità. Semmai, il problema è che se ti distrai torni 200 e vanifichi tutta la fatica».
A volte, per ritrovarsi punto e a capo, è sufficiente rimanere vittime della ragioneria: a Fabbiano scadevano punti preziosi ma, tra il challenger di Barletta e Monte Carlo, una volta tanto si è premiato e dandosi una possibilità nel circolo più esclusivo della Terra, anche se l’altra opzione era in Puglia, quindi casa sua. Come negarsi la gioia, per la prima volta nella vita, di essere coccolati al Country Club: ristorante di livello, massaggi, navetta di lusso, hotel pentastellato o giù di lì, e la chance di pescare il jolly e ritrovarsi nel main draw. Magari sul Centrale, magari contro Federer, con 13.000 euro di gettone garantiti. Gli è andata male sicché, coi magheggi del saliscendi del ranking, al Roland Garros non potrà entrare nel tabellone principale: ci sono troppi malati di rientro con la classifica protetta et voilà, la differenza tra 24.000 euro sicuri e un potenziale zero è servita. Tocca deglutire e tirare innanzi.
Thomas vive a Foligno, col fratello Roberto che studia all’Università di Perugia. La sorella Valentina, invece, è iscritta all’ateneo di Chieti. La fidanzata di lungo corso, Linda, conosciuta quando lui si allenava a Roma ai Parioli, viaggia più di lui e lavora a Dubai per una società che cura report macroeconomici dei Paesi emergenti. Si incrociano in giro per il mondo, un ménage che lo stereotipo di famiglia italiana del sud vorrebbe impossibile mentre funziona benissimo («Soffriamo la lontananza ma neanche troppo, perché sappiamo di viaggiare entrambi alla ricerca del successo personale. E poi il fatto di riuscire a incontrarci nei posti più sperduti, incrociando i voli, è un’esperienza che ci fortifica: quando la racconto, la gente rimane stranita ma a noi va bene così»).
«I miei genitori sono tornati a vivere da soli, com’erano prima di mettere su famiglia. Per loro è stato un dispiacere vedere i figli allontanarsi da casa; però ci seguono, noi li sentiamo vicinissimi anche se stiamo a 400 chilometri di distanza. Ci appoggiano, in ogni situazione ci fanno sentire la loro vicinanza». Per vedersi, soprattutto Thomas che fa il globetrotter, si aspettano le feste comandate o qualche pausa tra un torneo e l’altro. Nel resto dell’anno, è impegnato a far quadrare i conti dell’impresa: «Economicamente non ho mai avuto una sicurezza. Quei piccoli guadagni arrivano se sei nei primi duecento. Però non sono mai stato con l’acqua alla gola, nel senso che non ho mai dovuto rinunciare a una trasferta per le spese né mi sono dovuto mettere a lavorare o a fare altre cose per mantenermi. Se gioco i tornei a squadre, poi, non mi nego altri tornei, perché sono competizioni in date piuttosto libere da impegni. So però che c’è gente che deve tornare a giocare gli Open per finanziarsi» e questo non va bene: è il dibattito, molto in voga, su chi meriti i soldi, sul fatto che le donne debbano guadagnare per legge come gli uomini. Che uno come Thomas Fabbiano debba stare sulle spese avendo cento persone in tutto il globo che sanno fare il suo mestiere meglio di lui, non sembra un problema prioritario. Eppure, giocare a tennis è come avere una robusta famiglia a carico, allenarsi e spostarsi costa come mandare due figli all’università: «Se Andy Murray – parla Gorietti – dice che i biglietti li vendono solo le superstar e che il numero 100 al mondo chissenefrega di quello che guadagna, forse dovrebbe pensare che l’assurdità è proprio vedere il 100 al mondo che è costretto a fare i campionati a squadre per campare. E che se si va avanti così, a parte quei pochi milionari, tutti smetteranno di giocare e un giorno il mondo del tennis crollerà. Oggi tutto funziona perché lo giocano dappertutto e crea interesse: ma il giro di affari anche solo intorno ai futures, con biglietti aerei, vitto, alloggio è enorme e ci sono centinaia di giocatori che li frequentano a spendere, ogni settimana, milioni di euro».
Armato di una consapevolezza mai avuta, Fabbiano è andato in Cina portandosi dietro il preparatore atletico, che ovviamente costa. «Però l’investimento di qualche migliaio di euro ti dà la possibilità di farne entrare molti di più ed è un discorso che molti giocatori italiani faticano a rendere proprio», racconta il coach, mentre l’allievo ne fa più una questione di tempi giusti e non si sente un ritardatario: «Fosse per me, rifarei ogni cosa. Ho percorso tutti i passaggi: dai tornei junior ai futures, poi i challenger, ora spero gli Atp e gli Slam. Quasi ogni anno sono riuscito ad aggiungere qualcosa al mio tennis… è che magari in pochi se ne sono accorti. In dieci anni di professionismo ho perso pochi giorni di allenamento, quindi alla sfortuna non credo: anche quando ero scoraggiato, e un paio di volte mi son detto che alla fine dell’anno avrei deciso se continuare o meno, il mattino dopo sono tornato in campo a lavorare convinto della mia scelta, ho sempre pensato di avere una possibilità».
Dal vivo, Fabbiano sembra ancora più veloce che in tivù. Col suo colpo tuttofare che fa schioccare la palla, ti dimentichi del fatto che la sua taglia sia quasi diventata fuorilegge, nel tennis-Nba di oggi con gli Zverev, i Raonic, e un Kyrgios considerato “normale” perché arriva al metro e 93. Inizi a spiegarti perché lui c’è ancora e una marea di altri, invece, si è arresa. Domanda: per farti coraggio, quante volte ha pensato agli altri piccolini di talento, a Olivier Rochus, ai fenomeni folletti? «Mai. Sono gli altri che mi dicono queste cose da dieci anni, che siccome uno della mia statura ce l’ha fatta allora io eccetera eccetera. Mi parlano di Rochus e anche di Dudi Sela. Tanto che avevo preso, ogni tanto, a dirlo pure io: ma per accontentare chi me lo chiedeva. Non l’ho mai pensato». Sembra respingere l’obiezione della taglia, come se non si sentisse piccolo: tanto intensamente da non esserlo più. Sennò, a vedersi passare a fianco Kenny “bagnino” De Schepper, due metri e un fascio di muscoli dorsali da wrestler che gonfiano la maglietta ogni volta che apre le braccia per scaricare giù battute ai duecentotrenta, qualunque persona normale prenderebbe il treno e tornerebbe a casa, a iscriversi a scuola o a cercarsi un lavoro. Parte del suo mestiere, invece, è abbattere i pregiudizi a colpi di testardaggine. Aiutandosi con quell’accelerazione spaziale, che già dieci anni fa faceva sognare e che lui invoca a voce alta sul campo, quando le cose non vanno. «Col dritto, da adesso solo col dritto». (1) Rinuncio a calcolare quanti stipendi possa aver pagato la recita dei mantra. Sciortino, Allgauer, Montenet; De Vecchis, Ansaldo, Ocera; Capodimonte, Cobolli, Luddi; Tarallo, Ceraudo, Jorquera. E poi Virgili e Natali prima di Trevisan, Lopez e Fabbiano. Presumo parecchi, a scorrere i nomi di alcuni tecnici a libro paga della federazione ricorrenti nel 1995, nel 2005 e nel 2015.
(2) Chi vince il torneo di prequalificazione ottiene una wild card per il tabellone principale degli Internazionali d’Italia.
(3) Chist'è 'o paese d''o sole: non secondo Gorietti, però. «In Italia manca il sole. Sembra una stupidaggine ma, a parte Piatti che è il più bravo di tutti e poi a Bordighera ha trovato un clima mite, noi comuni mortali siamo in difficoltà. Il sole fa sentire meno la fatica, incide sull’umore. Noi abbiamo attrezzato tutta la struttura per allenare i ragazzi a Foligno, che è abbastanza ben collegata con l’aeroporto di Fiumicino. L’unica cosa che ‘n sono stato capace de fa’ – dice con accento umbro che improvvisamente si palesa – è de porta’ 25 gradi tutto l’anno a Foligno». Ecco, perché in provincia di Perugia? Al sud c’è tutto il sole che vuoi e Thomas è pugliese: «Lì è difficile, manca anche la mentalità: l’ideale sarebbe Napoli o Palermo ma è praticamente impossibile, ci sono altre dinamiche». Con un centro tecnico nazionale direttamente a Roma, l’aeroporto sarebbe ancora più vicino e la compagnia dei migliori italiani assai più probabile: «E certo, sarebbe l’ideale. Foligno è piccola e collegata con Roma con un treno che ci mette un’ora e venti, è in pianura, ha i cinema, i ristoranti, un ragazzo può anche viverci e lavora meglio, visto che qui ci si passa un sacco di tempo. A Roma funzionerebbe bene, perché i primi, che so, 20 giocatori italiani potrebbero trovarsi e lavorare insieme con i coach e con i preparatori. A Tirrenia i ragazzi non ci vanno volentieri: penso anche solo alle luci al neon in sala mensa, insomma, un ambiente un po’ così. Qui abbiamo la cucina aperta anche alle tre del pomeriggio: un professionista deve avere a disposizione queste comodità». Il messaggio è lanciato.
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