Jannik è in costante crescita, ormai fra i migliori del mondo anche grazie alla guida di Vagnozzi e Cahill. Ma si può ancora intervenire sui dettagli, rifinendo il servizio e la postura dei fondamentali
«Troppo lunghi per gare tanto brevi». Parole di Jannick Sinner, pronunciate una sera di qualche anno fa al termine di allenamenti ritenuti eccessivi per uno slalom gigante da bruciare in pochi attimi. Passò l’angelo e disse amen!
Nondimeno quella stessa sera il piccolo Jannick si coricò sciatore per destarsi l’indomani tennista convinto. Meno male: non ci avesse ripensato, oggi l’Italia avrebbe uno sportivo in più con sci ai piedi e uno in meno con racchetta in mano.
Neanche a dirlo, l’atesino si è rivelato campione coraggioso, il tipo giusto per accollarsi oneri e onori di una leadership in arrivo e regolare i conti con l’ostico Daniil Medvedev, in questo match clou di Miami, evaso dal russo in un’ora e mezzo di tennis efficace, spigoloso e anche un po’ naif. Causa stanchezza, non è stato il miglior Sinner quello visto ieri sull’Hard Rock Stadium, seppure oltre la rete ci fosse la sua bestia nera, il tennista più vincente del trimestre ormai alle spalle.
Una sconfitta dalla duplice chiave di lettura. La prima dice che la nostra punta di diamante deve alzare la soglia del dolore ignorando, lí dov’è lecito, segnali negativi che il corpo invia. Solo così potrà tradurre in trionfi le presenze sempre più frequenti all’ultimo atto dei grandi tornei. La seconda fa di lui un giocatore ancora in fase di consolidamento, parte di un percorso giusto, lontano da exploit fuorvianti che mandano solo fuori di testa, vicino, invece, a quella continuità che fa da spartiacque tra i finti agonisti e quelli di spessore. Tanto da affermare, ora e per sempre, che campioni non si nasce ma si diventa, qualcosa che accade solo grazie a buoni insegnamenti e all’utilizzo oculato del talento. Una dote, quest’ultima, che il giovanotto di San Candido non usa per fare di sé il solito enfant prodige predestinato ai grandi successi. Al contrario ne fa uso oculato per consolidare, formichella formichella, progressi di volta in volta raggiunti e messi in cascina. Una mentalità che si riflette nella costruzione della sua classifica mondiale, quella che a fine 2017 lo vedeva neofita al numero 1.552 del pianeta tennis per salire l’ anno dopo al numero 550 e al 78 di fine 2019. Quindi su, su verso la 37ma posizione del 2020 fino alla top ten del 2021 e a quella dei giorni nostri. Una tabella di marcia che ha sempre trovato riscontro in miglioramenti tecnici, fisici e mentali, maturati di concerto con i risultati.
Oggi, dopo la vittoria a Montpellier, la finale di Rotterdam e queste ultime prove made in Usa, serve un quid in più per salire oltre e via tutti a scovare dove reperirlo. Allora, oltre a quel certo stoicismo di cui dopra, io vedrei almeno un paio di interventi di natura tecnica da sottoporre a Simone Vagnozzi, coach di comprovato valore che molto stimo. Solo per dire che il servizio è sicuramente molto migliorato ma risente ancora di scarsa elevazione. Un piccolo correttivo ne aumenterebbe l’esplosività, unitamente a una maggiore possibilità di angolazione soprattutto nelle soluzioni a uscire.
Il secondo getta l’occhio alla postura dei fondamentali. Jannick ha grande manualità da dietro, quindi potrebbe spingersi, all’occasione, verso gesti più alari, alzando busto e impatti rispetto al baricentro. Al momento gioca leggermente ‘accovacciato’ e questo gli preclude una maggiore dominanza dei rimbalzi e di guadagnare spazio in avanti. Con l’aggiunta che potrebbe avere tempi di esecuzione più brevi, roba che nel tennis moderno vale oro quanto pesa.
Ma attenzione: non troppo brevi, dico lasciandomi andare a un pizzico d’ironia! Diciamo proporzionati agli allenamenti. Nessuno vorrebbe che il nostro eroe avesse ripensamenti circa una preparazione non adeguata all’eccessiva brevità degli scambi. Una riflessione che lo indurrebbe a tornare sui suoi passi di sciatore mancato, lasciando il tennis italiano in povere braghe di tela.