A Fognini va riconosciuto un grande merito: aver dimostrato che anche un campione ha paura, soffre la pressione, crolla di fronte a un ostacolo. Con i suoi atteggiamenti spesso villani, mostra umanità. Non vanno giustificati, ma non va nemmeno crocifisso lui. Anche perché in futuro ci mancherà. (Tratto dal numero di maggio de "Il Tennis Italiano")Ho conosciuto Fabio Fognini nel 2004. Amministravo la società di management che lo rappresentava e avevamo appena chiuso la prima buona sponsorizzazione con Kia Motors. Con l’occasione, invitai il direttore vendite e buon appassionato di tennis, Giorgio Speziali, a vedere l’incontro di quarti di finale del Trofeo Bonfiglio contro Sebastian Rieschick. Fabio trascinò i piedi per tutto il match, indolente, quasi insofferente. L’avversario non sarebbe mai salito oltre la posizione numero 199 del ranking ATP, ma da junior è stato un mezzo fenomeno, e quel torneo lo vinse battendo in finale Juan Martin del Potro. Però, quel che lasciò tutti basiti (ok, incazzati) era l’atteggiamento di chi sembrava fosse sul campo perché costretto da chissà quale punizione divina. Ci saremmo presto abituati. Con una scusa, riuscii a portare via Giorgio alla fine del primo set, prima che stracciasse il contratto. Un paio di settimane dopo, stessa scena. Questa volta si trattava dei quarti di finale juniores di Roland Garros, da giocare contro Gaël Monfils. Presi sotto braccio Gianni Clerici e gli dissi: «Vieni con me, ti mostro un giovane italiano che non sarà il nuovo Federer ma diventerà fortissimo». Dopo 15 minuti, con la solita cortesia e onestamente preoccupato per il mio futuro, Gianni sospirò: «Eh… forse c’è un pochino da lavorare ancora…».

In campo, Fabio è sempre stato quello che conosciamo: stupiva per certe giocate, poi ti faceva vergognare per un insulto, una bestemmia, una sceneggiata. Ha vinto quattro tornei ATP, spesso salvato l’Italia in Davis, sconfitto tre volte Rafa Nadal, conquistato un quarto di finale Slam e raggiunto la soglia della top 10 mondiale, al numero 13. Ma ha pure litigato con coach e famiglia sul centrale Monte-Carlo e in mondovisione, ha rivolto un epiteto razzista ad un avversario (Krajinovic), minacciato giudici di sedia e supervisor, denigrato certi prodotti degli sponsor, mostrato comportamenti talmente irriverenti da spingere gli altri giocatori a muoversi affinché si prendessero dei provvedimenti nei suoi confronti (ed è andato molto vicino ad una lunga squalifica, prima del match di Davis contro il Kazakhstan, nel 2015). Non l’hanno cambiato i genitori, non ci sono riusciti fior di psicologi, non mi pare il matrimonio abbia influito, chissà se la paternità avrà altri esiti. Ma questo, nel bene e nel male, è Fabio Fognini. C’è chi lo detesta al punto da tifargli sempre contro (succede anche tra i miei colleghi, che pure trarrebbero benefici da un azzurro che vince), altri che invece non si perdono un match, per godere di un talento tecnico che ha pochi eguali e, perché no, per godere di una sua sfuriata. Perché i suoi incontri, va detto, raramente sono banali, benché non esattamente educativi.

Tuttavia, gli va riconosciuto un merito assoluto, quello di aver dimostrato che anche un campione (e arrivare ad essere tra i tredici migliori nella propria professione vuol dire essere un campione, che si parli di tennisti, idraulici o avvocati) ha paura, soffre la pressione, crolla davanti ad un ostacolo che immagina troppo grande. Non succede a tutti nella vita quotidiana? Quante bestemmie volano agli incroci delle strade solamente perché un tizio che ci ha tagliato la strada? Quanti furti, incazzature, litigi si vedono nei tornei di Quarta, dove il premio è un buon sconto al negozio del circolo, quando va bene? Ho perfino conosciuto brave persone che non sono riuscite a terminare un incontro di torneo sociale per una chiamata dubbia, altre che hanno rotto più racchette di Safin e Ivanisevic (il sottoscritto non è indenne da queste vicende). Ecco, Fognini, con i suoi atteggiamenti spesso villani, mostra una certa umanità. Per questo vanno giustificati? Certo che no. Per questo va crocefisso, perché non è un Superman come Federer, Nadal o Djokovic che riescono a mascherare, forse perfino a vincere, le loro paure? Certo che no. Sicuramente, a breve lo rimpiangeremo, perché tra i giovani non si vede nessuno che abbia metà del suo talento. E nemmeno capace di farci esprimere sentimenti, di amore e odio, così forte. Che Dio ce lo tenga in grazia ancora a lungo.