C'è un luogo dove Andy Murray è quasi imbattibile. Sono i prati del Queen's Club, laddove si gioca il tradizionale torneo di avvicinamento ai Championships. L'ha vinto per cinque volte, più di tutti, e oggi inizierà l'assalto al sesto titolo: primo avversario, il connazionale acquisito Aljaz Bedene. Come sempre, a fare il tifo per lui ci sarà mamma Judy. Grande personaggio, molto presente nella sua vita e nella sua carriera, capace resistere al mare di critiche incassate quando il figlio si è affacciato nel circuito Le davano della pazza, della madre isterica. Lei leggeva tutto, si mordeva la lingua, stringeva i pugni, ma ha sempre resistito. Non ha replicato, non ha reagito. Il tempo le ha dato ragione e oggi, con entrambi i figli capaci di salire in cima al mondo (Andy in singolare, Jamie in doppio) arriva a dire che “forse anche io avrei pensato lo stesso di me”. Qualche giorno fa è uscita la sua autobiografia, 288 pagine intitolate “Knowing the Score: My Family and Our Tennis Story”. Chi l'ha letta, parla di una narrazione ironica e brillante di un'avventura – quella della famiglia Murray – che non aveva il lieto fine annunciato come è capitato ad altri big. Motivo? La Scozia non aveva mai prodotto nulla, era un paese del quarto mondo tennistico.
I MERITI DI RAFA
La prima a provarci era stata lei, ma non era brava a sufficienza. Niente borsa di studio negli Stati Uniti, niente convocazione nelle rappresentative britanniche. Nessun disonore, ci mancherebbe. Ma c'era quel retrogusto amaro: fosse nata altrove, e non a Dunblane, piovosa cittadina scozzese, magari sarebbe stata un'altra storia. Ma ci sono persone che hanno la capacità di cambiarla, la storia. E allora Judy ha scelto di farlo da dentro: ha iniziato ad allenare, fedele a un motto: “Perché non dovremmo farcela anche noi?”. Partendo da una base dell'1% di praticanti, ha messo in piedi alcune piccole squadre fino a scovare i fenomeni. La fortuna è che i fenomeni ce l'aveva in casa, anzi, in grembo. La bravura è stata la capacità di indirizzarli, soprattutto Andy. Ripensando al passato, Judy Murray spara una frase che dovrebbe far riflettere gli investimenti milionari di tante federazioni: “Non sono i sistemi a creare i giocatori. Sono le persone”. Ha avuto l'intelligenza di rendersi conto che qualcosa non funzionava nella LTA. Jamie era tra i più forti under 14 al mondo, ma il trasferimento al centro tecnico di Roehampton lo rovinò. In virtù di quella esperienza, Judy era convinta a non lasciar andare Andy. Né con la LTA, né altrove. “Ma poi giocò un partita a racketball con Nadal e decise di andare ad allenarsi in Spagna. Dobbiamo molto a Rafa” dice Judy, che in questi anni è stata anche capitana della Fed Cup britannica.
LA STRAGE DI DUNBLANE
In un'intervista col Guardian, buona per promuovere il torneo del Queen's e il suo libro appena uscito, ha raccontato una turba adolescenziale di Andy. Capitava che ogni sera fosse in preda a una crisi di isteria. “Accadeva tra le 19.30 e le 20. Era rumoroso, attaccava i cuscini e saltava dal letto a castello”. Poi gli è passata, così come i problemi economici di una famiglia che non nasce certo ricca. “Non abbiamo mai avuto una carta di credito. Abbiamo preso in prestito un sacco di soldi e non avevamo la certezza di poterli restituire. Ammetto di aver trascorso diverse notti insonni”. Ma lo spavento più grande, ovviamente, è stato il massacro di Dunblane, l'atroce attentato commesso da Thomas Hamilton. Si infilò nella palestra della scuola elementare, armato di quattro pistole, e sparò all'impazzata, uccidendo 16 bambini e una maestra, prima di togliersi la vita. “Andy aveva 9 anni, Jamie 10. Entrambi lo conoscevano, ma erano troppo piccoli per rendersi conto della gravità della cosa. Non ricordano molto di quel giorno, mentre io rimasi colpita quando li andai a prendere dopo aver aspettato ore e ore, insieme alle altre madri: non sapevano cosa fosse successo, soltanto che c'era un uomo con una pistola. Gli insegnanti li avevano tenuti occupati e sicuri. Davvero, non so come abbiano fatto”. Per anni, Dunblane è stata famosa per questo. Ma poi sono arrivati due tennisti che hanno cambiato – almeno in parte – la percezione di questo angolo di Scozia. “Nessuno dimenticherà quello che è successo – racconta – nei giorni seguenti c'era la sensazione che potesse finire tutto da un momento all'altro, così la gente si è data da fare ancora di più”.
CI VOLEVA LA VITTORIA A WIMBLEDON…
Ma Judy Murray non aveva bisogno di questo stimolo, anzi, dovette combattere con i pregiudizi di cui sopra. “Probabilmente qualcuno pensava che le donne competitive avessero qualcosa di sbagliato”. Jamie si è specializzato nel doppio e ha vinto tre Slam, ma il vero gioiello è Andy. Al suo anglo sono passati diversi coach: Emilio Sanchez (agli inizi), poi Miles Maclagan, Dani Vallverdu, Ivan Lendl, Amelie Mauresmo, Jonas Bjorkman e poi di nuovo Lendl. Soggetti diversi, ma lei c'è sempre stata. E c'era anche in quella domenica di luglio, quattro anni fa, quando il figlio ha finalmente vinto Wimbledon. “Quella vittoria mi ha dato un po' di voce in capitolo per raccontare la nostra storia. Doveva vincere Wimbledon affinché io avessi il diritto di parola. Da lì in poi, la mia fiducia è cresciuta molto. Ho anche trovato il coraggio di partecipare a Strictly Come Dancing (la versione britannica di “Ballando con le Stelle”, ndr), qualcosa che non avrei mai sognato di fare”. Oggi Judy Murray è una donna realizzata, porta avanti progetti, clinic, lezioni…ma resta pur sempre una mamma (anzi, nonna). E quando scendono in campo i figli, l'emozione è sempre la stessa. “Sono sempre molto stressata. E sono stupita di essere sopravvissuta in questi 20 anni…” Qui, probabilmente, bluffa.