Per ritrovare se stessa, Sara Errani è tornata a consumare i campi di Villa Bolis a Cotignola, a due passi da casa. Un circolino grazioso, intirizzito dal gelo invernale, con un trapassato cruento: un mattino del 1796 proprio qui, quando il lawn tennis doveva ancora essere inventato, gli insorti della sommossa di Lugo tesero una trappola a un distaccamento di truppe napoleoniche e portarono in trionfo le teste mozzate di due ufficiali francesi. Il tempo ha cancellato i ricordi e le grida di oggi non rimandano agli anni del Terrore, semmai aiutano a individuare il campo di allenamento: basta incamminarsi per il vialetto e seguire gli «A-hééé!», esaltati dal pallone pressostatico. Due ragazzi si scaldano sul campo a fianco, Sara si sta prendendo cura del terzo che già tocca il cemento con la lingua; all’ennesimo gancio di dritto e smorzata tagliagambe, il giovanotto si arrende. Non serve la ghigliottina: per stamattina, basta così. Il bello di essere a casa è anche il lusso di pranzare da mamma Fulvia, farmacista dalle eccellenti virtù gastronomiche, e allenarsi sullo stesso rettangolo di gioco usato da bambina, incrociando a bordo campo gli affetti di sempre: il fratello Davide e il papà Giorgio, ancora impegnato nella ditta di import-export di frutta ma tuttora sostegno e primo difensore di una ragazza che, dopo una finale e due semifinali Slam e la collezione dei quattro Major in doppio, sembra soffrire – più di quanto non dia a vedere – la narrazione del suo essere campionessa. È un fastidio garbato ma che si avverte conversando con Sara e col babbo; un senso non di rivalsa ma di fierezza, accompagnata da una domanda implicita: perché le critiche e non le lodi? Perché «le mazzate» se non ha un buon servizio e non le celebrazioni se, nonostante quella battuta, ha giocato una finale a Roland Garros? Perché parlare tanto di altre, anche se han vinto poco, e non di lei? Sarita è ricomparsa nei luoghi che l’hanno vista nascere tennista, e perché la reunion fosse completa, si è palesato pure Michele Montalbini, il maestro di Faenza che la seguì dagli otto ai quindici anni; è tornato a seguirla nel Tour, lui che aveva suppergiù l’età di Sara quando iniziò a farla allenare con i cesti che costruirono la corazza del roccioso stile-Errani. L’anno alle spalle ha il sapore della cicoria scondita e l’unico successo, nel generosissimo Premier di Dubai, non ha fermato la scivolata in classifica: dal 2007, il ranking di fine anno non era così mesto. Sicché, a settembre scorso, Sarita ha quasi ringraziato l’ultimo guaio fisico per firmarsi la giustificazione, salutare il suo mondo – i tornei, l’accademia in Spagna, il coach di sempre – e farsi il regalo di un assaggio di vita. Una vacanza in Svezia con gli amici, l’amato basket, un lancio dal paracadute, le chiacchiere in casa, il dolce far nulla. Per essere il primo colonnello bolscevico di se stessa, a Sara dev’essere davvero venuto a nausea il tennis se non solo non rimpiange le ferie anticipate ma arriva a benedirle, per averla aiutata a capire cosa ne fosse stato della sua passione, se si fosse solo nascosta o se l’avesse abbandonata per sempre. «Nei mesi passati faticavo a fare tutto: caricarmi, giocare, allenarmi. Ero stanca e non era solo una questione di infortuni, mi sentivo usurata. Avevo deciso di prendermi una pausa lunga, molto lunga: da quando sono nata, credo di non essere mai stata ferma un mese senza fare niente».
Perché sei tornata in Italia?
«Al di là dei risultati che mancavano, sentivo il bisogno di riavvicinarmi a casa. I dodici anni passati a Valencia con Pablo (Lozano, n.d.a.) rimangono incancellabili, sono già andata a trovare lui e la famiglia, fanno parte della mia vita e ci vogliamo un gran bene. Ho anche tenuto casa, da quelle parti: ogni tanto gli chiedo di andare a controllare che non sia andata a fuoco! La decisione è spuntata così, senza troppi ragionamenti, entrambi sapevamo che era il momento giusto. Ora, con Montalbini e Andrea Capodimonte, il preparatore atletico e il fisioterapista mi sono costruita una squadra. E poi i cambi di vita servono per darti la carica: ti costringono a rivedere le abitudini, ti spingono a essere più attenta. Pensavo di avere perso un po’ di voglia, invece l’ho ritrovata».
Una delle campionesse italiane emigrate in Spagna, Flavia Pennetta, disse che lo aveva fatto perché in Italia mancava un metodo: anche per te è stato così?
«No, io cercavo qualcuno che mi seguisse a tempo pieno e non ho avuto la fortuna di trovarlo in Italia. Molti coach italiani, quando iniziai a girare il mondo, erano legati ad un circolo, al loro stipendio, alle lezioni private, alla famiglia Insomma, non se la sentivano. Sono finita in Spagna un po’ per caso, prima da Bruguera a Barcellona e poi a Valencia, dove ho trovato Pablo e David Andres. Mi sono trovata benissimo e sono restata. Ma se avessi trovato un Pablo qui, sarei rimasta in Italia. Non avevo il mito della Spagna».
Eppure sei diventata Sarita la spagnola: il dritto carico, la tigna, le rimonte, la sostanza. Hai imparato tutto là o erano cose che sapevi fare già per conto tuo?
«Da piccola ero già super competitiva, il mio istinto era vincere sempre, a tutto. E il tipo di gioco era questo, anche perché non ho mai potuto tirare ai trecento all’ora. E quel desiderio di vincere mi ha aiutato a superare tante paure. Ci sono giocatori che, magari per non voler soffrire quando perdono, in campo finiscono per lottare di meno, non dare tutto e arrendersi. Io no: tante volte, dalla tivù, non si capisce se un giocatore ha un problema. Io in campo sono scesa, sempre, dando tutto quello che avevo. Un anno, a Madrid, affrontai la Radwanska con la febbre. Non volevo giocare. Pablo mi disse di farlo: se oggi vali il 10%, mi disse, ti giochi quello e poi vedi come va. Al massimo, perdi; soprattutto, non puoi pretendere di giocare a tennis solo quando ti senti più che bene. Persi 6-0 6-1 e i commenti che lessi nel dopo partita erano del tipo: “Visto, che stesa ha preso la Errani?”».
Ma per te, cos’è il bello di questo gioco?
«La competizione. Direi anche la tattica, se solo si potesse usare di più… Ormai quasi tutte tirano pallate, se stanno in campo vincono loro, se escono vinci tu. In passato potevi pensare di più, scegliere gli effetti, le diagonali, pensare ai punti deboli dell’avversaria e sfruttarli. Non che io non ci provi, a portare la partita sotto questo aspetto, ma non sempre ci riesco. Il bello del tennis è lottare, dare tutto. Ci sono giorni, per esempio, in cui il dritto non entra. Capita. Allora, invece di mollare, stai lì. Provi ad adattarti alle condizioni, a cambiare gioco, a spendere quello che hai. Lo faccio perché ho la mala hostia (un caratteraccio, n.d.a.), mi attacco alla partita, rifiuto di perdere, sono testarda».
Un tennista mi ha detto che saper giocare bene a tennis è un conto, ma saper competere è tutta un’altra cosa.
«Vero. Il nostro è uno sport complesso, in cui devi saper gestire tanti aspetti. Non si tratta solo andare in campo e colpire la palla, quello lo sanno fare in tante. Ci sono altre componenti in cui devi essere brava: allenarti nel modo giusto, per esempio. Che è un discorso personale, varia per quantità e tipo di lavoro, ma va fatto al meglio. O saper tirare fuori il meglio nella lotta: perché a volte giochi tranquilla, ma capita solo in certe circostanze; in altre, per esempio in Fed Cup, succede che la tensione ti paralizzi. E devi usare altre doti, se il tennis viene a mancare».
Che cos’è il talento? È il bel gesto, il tocco, il gran colpo che accende il pubblico? È saper vincere?
«Il talento? Onestamente è una parola che non ho mai usato, non è proprio nel mio vocabolario. Direi che ce ne sono tanti, ma io parlerei di qualità: c’è chi ha il gran colpo, chi la mentalità giusta per fare il professionista, chi ha un talento fisico per questo sport. Certo è che, per essere lì in alto, qualcosa lo devi avere. In generale, però, la gente considera il talento… Vabbè, non mi esprimo».
Il pubblico è attirato dal colpo spettacolare e dal gioco stiloso. Torniamo al rapporto con i consumatori del tennis: la sensazione è che, da una famosa intervista post-Parigi 2012, ti sia chiusa in un fortino per difenderti dai giudizi puntuti della gente e della stampa.
«Non è che mi sia chiusa. Anzi: quando parlo, cerco sempre di dire quello che penso. Il problema è un altro: quell’anno ero finita sulla copertina di Vanity Fair con una frase virgolettata che non avevo mai detto (“Balotelli non mi piace”, n.d.a.) e trovai scritte altre cose mai pronunciate, o stravolte nel loro senso: come si poteva pensare che potessi davvero definire Federer un fighetto, o che avessi poca stima dei giocatori italiani? Mi sono sentita impotente, usata, sono stata malissimo. È stata una delle cose più brutte che mi siano mai capitate. E non avevo neppure possibilità di replica: la stampa, in questo, ha un potere allucinante. Ci avevo pure provato, a spiegare com’erano andate le cose, sui miei social: nessuno mi diede retta. Fu davvero una mazzata, tanto più che capitò nei giorni in cui avevo fatto finale a Roland Garros».
È passato del tempo ma la ferita sembra fresca.
«Perché e dura, ancora adesso. Nonostante gli anni trascorsi, ogni tanto continuano a scrivere che odio l’Inter, o a rinfacciarmi altre cose. Forse un altro, al posto mio, se ne fregherebbe. Io non ci riesco. Invece i commenti, dico quelli molto critici, non mi danno così fastidio: certo, è brutto leggere giudizi negativi, ma ho imparato a conviverci. In fondo, se non vuoi insulti, chiudi i social e finita lì».
In campo sembri disposta a immolarti pur di vincere: ma quanto dura, la gioia di un successo?
«Poco. Banalmente, se vinci il giorno dopo sei già in campo. Se perdi, hai cinque giorni per pensarci prima della partita successiva. Vincere mi dà gioia, ma non hai tempo di gustarla. Rispetto agli anni scorsi, ora cerco di dimenticare in fretta una sconfitta; da ragazza soffrivo di più, ora riesco a “perdere meglio”. E sono più consapevole di tutto, anche di aver vinto giocando male, quando succede».
Quale vittoria ha cambiato la vita?
«Sarebbe facile dire la semifinale di Roland Garros 2012 contro la Stosur, ma la “mia” partita è stata il terzo turno contro la Ivanovic. Prima di quel torneo, contro le grandi ero sempre in sofferenza (fino a Parigi 2012 aveva un bilancio di 28 sconfitte in altrettanti incontri contro le top 10, n.d.a.). La verità è che non pensavo di poterle battere. Contro Ana persi il primo set 6-1, sembrava dovesse finire come al solito. Invece riuscii a cambiare direzione alla partita e quel match mi diede una fiducia che mai avevo provato».
Il tennis ti ha anche premiato con guadagni da star: quanto è importante l’aspetto economico?
«I soldi non sono mai stati la chiave, né la motivazione. Non ho mai giocato pensando a quanto avrei guadagnato vincendo. Neanche negli Slam, dove ci sono prize money altissimi. I punti dei tornei invece, mi hanno spesso motivato. Capisco che qualcuno possa anche prendere male queste parole, intendo dire che ho avuto la fortuna di guadagnare tanto facendo una cosa che mi piace. Ma ecco, se anche non ci fosse stato il guadagno, l’avrei fatta nello stesso modo».
So che da ragazzina ammiravi Agassi: è cambiato qualcosa dopo aver letto la sua biografia, Open?
«Direi di no. Il libro mi è piaciuto, se sentiva il bisogno di raccontare tutto, anche cose private, ha fatto bene. Mi ha impressionato il racconto del padre, che lo obbligava ad allenarsi. Anche perché ci sono tante situazioni come la sua, pure tra i professionisti di oggi: non è che il Tour sia frequentato solo da atleti che hanno sempre amato il tennis».
Tu in che categoria sei?
«In quella delle persone fortunate. Ma dipende dalla famiglia e dagli affetti che hai intorno a te. Ci sono ragazzini obbligati a giocare controvoglia: quando ero piccola c’erano mie coetanee che giocavano alla grande e poi hanno smesso, perché stavano facendo qualcosa che non amavano. A tennis devi iniziare molto presto e spendere subito ore e ore in campo: cesto, atletica, tornei… Ricordo tornei giovanili in cui la mamma dava due sberle alla figlia appena uscita dal campo perché aveva perso. Nel suo libro, Agassi ha raccontato una parte di quel 90% del tennis che in televisione non si vede».
Hai 29 anni e qualche centinaio di chilometri nelle gambe, nove titoli WTA, il career Slam ottenuto con Roberta Vinci, sei stata numero 5, hai vinto tre Fed Cup: quali ambizioni ti restano?
«Vorrei giocare più spensierata. Da quando ho vissuto quei due anni pazzeschi, il 2012 e 2013, ho sofferto troppo la pressione. Ho giocato col freno a mano perché sentivo di dover dimostrare qualcosa. L’ho vissuta male, non ero tranquilla, giocavo e avevo paura. Quest’anno vorrei divertirmi: se ho la palla buona, al diavolo, voglio tirarla ed essere più sciolta. Non è facile, perché in partita entra in gioco la competitività e nei momenti di tensione fai quello che ti rende più sicura. Nel mio caso, tendo a rallentare. Però vorrei essere più serena».
Tornare top ten non è un obiettivo?
«No. Quelle due stagioni sono state molto più belle di quanto potessi immaginare nella mia vita, ma non è che stia pensando di tornare per forza là. Certo, dopo tanti anni in cui c’erano sei-sette fuoriclasse sempre in cima, ora c’è più movimento e un saliscendi continuo. Ma il livello medio è diventato molto più alto e siamo in tante a essere vicine».
Il calendario WTA è diventato “asiacentrico” e si gioca spesso sul cemento: non proprio il tuo mondo ideale.
«Per niente. Sono rimasti pochi tornei su terra battuta: ad Acapulco hanno cambiato superficie perché il torneo precede Indian Wells e Miami e va bene. Però avevamo i nostri tornei sudamericani, dopo l’Australia, e adesso non ci sono più. Io l’ho anche fatto presente ma non ho questo gran potere per far cambiare direzione. Sull’Asia è anche una questione economica, lo capisco. Però, in Cina per esempio, non ci sono condizioni sane per i giocatori. Negli ultimi anni ho avuto difficoltà respiratorie: ogni volta che vado a Wuhan o a Pechino mi gira la testa per l’inquinamento. E ci sono stati, anche quest’anno, tanti ritiri: non credo sia un caso».
Veniamo alla domanda che ti rincorre dagli inizi, quella sul servizio. Hai mai pensato alla fatica che fai per conquistare un punto e poi bum, l’altra tira una prima vincente e fa pari?
«Non ho mai visto la questione in questi termini. La verità è che, all’inizio della mia carriera, il servizio non era un problema, anche perché quando ero 50 al mondo non mi cagava nessuno… Invece, la prima volta che arrivai al terzo turno in Australia, nel 2009, mi presentai in conferenza stampa dopo aver perso contro la Zvonareva e la prima domanda di un giornalista italiano fu: “Come ci si sente a battere una terza di servizio?” Fu una botta. Lo raccontai a chi mi era vicino, che mi consigliò di fregarmene: ma non è come dirlo. Poi arrivò il 2012: secondo me servivo abbastanza bene, ovviamente non ero come le altre che fanno ace, ma la mia battuta non era un dramma. Solo che, da lì, ho subìto un massacro, che mi ha influenzato molto. Ho sempre saputo che era il mio punto debole, ma affrontavo i turni di battuta tranquillamente. Da allora, invece, vado in partita e mi sento osservata. Sento che la gente mi critica, la tensione aumenta e servo ancora peggio. Eravamo arrivati al punto che in certe partite servivo bene ma, ormai, era un luogo comune non guardare il match e dire che avevo servito malissimo. È andata così e mi dispiace, perché più mi sento presa di mira e più le cose si complicano. Mi capita solo in Italia, però: all’estero non è che pensino chissà cosa della mia battuta, eppure nessuno mi ha mai fatto il terzo grado».
Ma ci hai provato davvero in tutti i modi, a sistemarlo?
«Ci ho lavorato tantissimo. Solo che mi sono pure infortunata in maniera seria e per sentire meno dolore ho cambiato movimento. La spalla non ha la mobilità giusta, non riesco a metterla in certe posizioni, ma quest’anno me ne voglio fregare: ho cambiato un po’ la meccanica e il colpo è diventato più aggressivo. Voglio superarla, questa cosa».
E sai già quando sarà il tempo di scendere? Come Agassi, più vicina ai quaranta che ai trenta?
«Chi lo sa. Magari un giorno di questi mi sveglierò e penserò che la vita che sto facendo non mi va più. Ma adesso mi piace ancora e, almeno per altri tre o quattro anni, continuerò».
L'articolo terminava così…
Quando leggerete questa storia, Sara avrà appena giocato il suo primo Slam senza essere testa di serie, dopo cinque anni. Lo scorso anno, esclusa dalle favorite e lontana dalla terra, aveva vinto il suo titolo più importante negli Emirati Arabi e, pure allora, invece di gridare al miracolo si era sentito qualche “sì, ma”… le più forti si erano autoeliminate, una mancava, quell’altra ancora aveva la bua. Forse quel piccolo fenomeno di Sara Errani dovrà davvero aspettare di smettere, e lasciare spazio alle giovani italiane che non ci sono, per sentirsi dire una volta per tutte, senza distinguo, senza premesse e senza asterischi: ciao, campionessa.
…Si dice che da ogni delusione nasca un'opportunità. Ecco, tutto quello che è successo in questi giorni rappresenta una grande opportunità per Sara Errani: dimostrare a tutti, che da oggi la guarderanno con occhi diversi, che lei la è per davvero. Una campionessa.