La favola sarebbe stata completa se l' ultima avversaria si fosse chiamata Venus Williams, unica ragione per cui Madison Keys ha iniziato a giocare a tennis. Madison aveva 4 anni quando piombò nella stanza dei genitori e la TV trasmetteva Wimbledon. In campo c'era proprio Venus: rimase folgorata dal suo completo Nike e chiese ai genitori di comprarlo. “Soltanto se giochi a tennis” le risposero. Detto, fatto. Ma nessuno immaginava che sarebbe scoppiato un sincero amore per questo sport. E nessuno poteva immaginare che, diciotto anni dopo, le due avrebbero potuto affrontarsi in finale allo Us Open. C'è mancato poco, pochissimo, per dare concretezza alla suggestione. Giusto i due punticini che sono mancati alla Williams per battere Sloane Stephens. Da parte sua, Madison ha trasformato in una non-partita la semifinale contro Coco Vandeweghe, sconfitta 6-1 6-2 in poco più di un'ora. L'ha cancellata, travolgendola con un tennis dirompente, fatto di due fondamentali degni del circuito ATP. Non è un modo di dire: qualche tempo fa, durante un torneo combined, il suo rovescio fu calcolato come il secondo più potente di tutti, uomini compresi. Il merito è del nonno, grande appassionato di baseball. “Mi ha stimolato a tirare sempre più forte, sognavo di tirare un home run!”. Ai tempi della sua prima semifinale Slam (Australian Open 2015), Serena Williams la incoronò, non tanto come possibile erede, ma come potenziale ambasciatrice della comunità afro-americana. Lei ha gentilmente declinato, anche perché non si sente tale. In effetti non è cresciuta schivando pallottole tra bande rivali come è successo alle Williams, nel ghetto di Compton. Anzi, è figlia di avvocati. Papà Rick è nero, mamma Christine è bianca. “Io sono semplicemente Madison” rispose quando, meno che 20enne, provarono a caricare di simboli la sua figura.
MATCH A SENSO UNICO
Non ne aveva bisogno, visto che sin da piccola è stata considerata un potenziale fenomeno. A 10 anni ha iniziato ad allenarsi a tempo pieno, a 14 è diventata professionista, a 18 è entrata tra le top-100 WTA. “Quello è stato il primo vero momento in cui ho capito di poter fare qualcosa di importante”. Nel rispetto di una curiosa tradizione, che vede i passaggi importanti ogni quattro anni, giocherà la sua prima finale Slam a 22. “Se dopo il Roland Garros mi avessero detto che sarei arrivata così lontano a New York, non ci avrei mai creduto”. Lo dice da giorni, mentre infila un successo dopo l'altro. A ben vedere, ha preso a morsi lo Us Open sin dal primo turno, ad eccezione dell'ottavo contro Elina Svitolina, battuta soltanto al decimo gioco del terzo set. La Vandeweghe ha raccolto la miseria di tre game, una vera umiliazione agonistica, soprattutto nel primo set, in cui Madison si è aggiudicata 20 dei primi 24 punti. “Madison ha giocato un grande primo set – ha ammesso la Vandeweghe tra la lacrime, battuta per la terza volta in cinque settimane – a un certo punto ho pensato che avrebbe potuto calare di rendimento, invece non si è concessa neanche una pausa, ha continuato a giocare bene fino all'ultimo punto. Ho lottato come ho potuto, ma lei è stata nel match fino alla fine”. L'unico momento di incertezza è arrivato sul 6-1 4-1, quando la Keys ha chiesto l'intervento del fisioterapista per un presunto infortunio alla gamba destra. Si è limitata a una fasciatura e ha chiuso senza problemi, sparando il quarto ace della sua partita. Un match eccezionale anche secondo i numeri, con 25 colpi vincenti a fronte di 9 errori. Non ha concesso uno straccio di palla break e ha trasformato quattro delle sette occasioni avute. Semplicemente, ha tenuto ritmi troppo alti con entrambi i fondamentali. La sua palla andava di fretta, troppo di fretta, per i movimenti ampi e macchinosi della Vandeweghe.
PAUSA BENEFICA
Sarà una finale storica, il rilancio del tennis americano dopo il pernicioso chiacchiericcio degli ultimi anni. L'ultima finale a stelle e strisce risaliva al 2002 e fu derby tra le sorelle Williams. Per trovare una vincitrice Slam americana diversa da Venus e Serena bisogna andare all'Australian Open 2002, vinto da Jennifer Capriati. L'ultima finale, guarda un po', l'aveva giocata Lindsay Davenport nel 2005. Oggi è all'angolo della Keys e ha dominato il duello a distanza con Pat Cash. In generale, ha trasmesso grande tranquillità alla sua allieva, soprattutto nella gestione dei momenti difficili. La doppia operazione al polso sinistro, a cavallo tra 2016 e 2017, le ha fatto iniziare la stagione in ritardo. Fino a Wimbledon ha vinto cinque partite, ma poi è cambiato tutto. Madison sarà inevitabilmente favorita nel match clou, anche se la Stephens ha vinto l'unico precedente, due anni e mezzo fa a Miami. È curioso che si siano affrontate soltanto una volta, visto che sono cresciute insieme e hanno condiviso la pressione di dover raccogliere il testimone delle Williams. Si conosco bene, Madison e Sloane, da tanti anni (“Ma non chiedetemi la prima volta che l'ho incontrata: non ricordo, è passato troppo tempo!”) Hanno un rapporto cordiale e si sono sentite anche quando erano entrambe fuori, a inizio stagione. Nessuna delle due ha giocato l'Australian Open, il torneo dove entrambe si erano rivelate al mondo (Stephens nel 2013, Keys nel 2015). Adesso sono in finale allo Us Open ed è la chiusura di un cerchio. Non c'è nulla di casuale in questo: semplicemente, hanno imparato a vivere il tennis nel modo giusto. “L'anno scorso, di questi tempi, avevo l'angoscia di qualificarmi per Singapore – ha detto la Keys – il periodo di stop mi ha ricordato perché gioco a tennis e la gioia che mi trasmette. Se oggi dovessi parlare con una ragazzina che sogna di fare la professionista, le direi di non prendere troppo male le sconfitte”. Ma anche le turbe adolescenziali fanno parte di un percorso, normale, che conduce alla grandezza. Perché Madison Keys, nella notte dell'Arthur Ashe, ha giocato la sua miglior partita di sempre. “Ne ho giocate altre, ma niente di paragonabile a oggi”.
US OPEN 2017 – Semifinale Donne
Madison Keys (USA) b. Coco Vandeweghe (USA) 6-1 6-2