Mancino, talento enorme, voglia di sacrificarsi nulla. Ljubicic se lo ricorda ancora: «Mano deliziosa, ma era uno dei più pigri che abbia mai conosciuto». Ha vinto match con le scarpe slacciate, la racchetta rotta e fatto ammattire ogni coach abbia provato a raddrizzarlo. Ora ha trovato pace nell’hotel di famiglia.Dopo averlo visto palleggiare nella sua accademia di Monaco di Baviera, l’appuntito Niki Pilic – una specie di colonnello slavo ex finalista al Roland Garros, coach di fenomeni come Djokovic e Michael Stich – lo prese da parte e gli parlò chiaro: «Io ho già preso 32 giocatori e li ho portati nei primi 100, es ist klar? Bene, tu sarai il numero 33». “Tu” era Stefan Pircher di Rablà, frazione di un minuscolo comune in val Venosta, Parcines, dove trovi cascate, neve, canederli allo speck da buttare giù con un Caldaro, c’è pure un campanile in mezzo a un lago. Ma nulla che richiami il tennis. Stefan, difatti, aveva iniziato a giocare nel circolo di Naturno col maestro Wolfi Gapp senza un perché, se non per imitare la sorella, Evelin: rovescio a due mani, braccio veloce e delicato, estremamente coordinato. Un vero talento, quel piccolo Pircher nato nel 1978. E che sia lo stesso Pircher battezzato da Pilic fatichi ad accettarlo, se gli chiedi di fare due scambi oggi: si presenta vestito da scampagnata, coi pantaloni lunghi e senza racchetta. Se ne fa prestare una fucsia da una ragazzina, incordata alla tensione del retino per farfalle; posa il pacchetto di sigarette e accompagna la prima palla ridacchiando: «Skusa, sono mesi ke non gioko». Ma al terzo rovescio stretto, ti ha già spedito a rispondere sul campo accanto e, guardando di là dalla rete, ti sembra si sia materializzato una specie di Nalbandian con due modifiche, una crucco-tirolese e l’altra tecnica, perché è mancino. Sono passati più di vent’anni eppure Ivan Ljubicic, ex numero 3 del mondo e conosciutissimo coach della rinascita di Federer, non si è scordato di lui: «Pircher? Certo, ci siamo allenati insieme. Aveva una mano deliziosa, solo che era uno dei ragazzi più pigri che io abbia mai conosciuto».FATICHE TORINESI
La non-carriera di questo ragazzone è un’ode al non fatto e al proibito: tutto ciò che andava accuratamente evitato per perdersi per strada, c’è da stare certi che abbia trovato il modo di farlo. A raccontarsi, trova del tutto normale ammettere che sì, «da ragazzo vincevo facile contro Starace, Di Mauro. Anche contro Paolo Lorenzi». Quel Lorenzi, Paolo, la testa di serie negli Slam, quello che mette paura a Murray agli Us Open e vince i tornei Atp. L’archivio conferma: era il master del Futures Italy 2 del 1999, un doppio 6-4. A ripensare a quei tempi sorride con un filo di amarezza, scoprendo un diastema alla Mladenovic: «Lui però è un fenomeno, eh. È l’antitennis, ma è un fenomeno. Che ti devo dire, adesso un po’ mi dispiace. Avessi avuto la testa di un altro e non la mia, o anche solo avessi avuto me stesso di oggi a farmi da coach, mi sarei raddrizzato a bastonate». L’avventura di Stefan Pircher con il tennis, per il vero, stava per finire al suo inizio: dal club sotto casa, dove i genitori gestivano un albergo, arrivò a portarselo via Luigi Bertino, conosciuto grazie agli stage di Dennis Van Der Meer organizzati a Merano dal mitico Luciano Botti. Bertino, uno dei coach storici del PTR, lo osservò, capì tutto, lo impacchettò e lo spedì in quello che, allora, era l’atipicissimo cervello del tennis italiano di alto livello: Moncalieri, piccola cittadina nebbiosa contigua a Torino. Solo che, al primo giorno in Piemonte, «mia madre, che mi aveva regalato uno dei primi telefoni cellulari, chiamò e si mise subito a piangere. Tornai immediatamente a casa, non potevo sopportare che stesse così male: solo che lei mi disse che no, non era giusto farmi smettere solo perché mi voleva con lei. Il giorno dopo feci di nuovo Parcines-Moncalieri e rimasi lì un paio di anni, ad allenarmi». Allenarsi, insomma. Fare fatica, come ricorda Ljubicic, non era esattamente tra le priorità di Stefan Pircher. E se schifava i cesti, anche i tornei li lasciava volentieri agli altri: «Un giorno Bertino mi obbligò a iscrivermi a un tabellone. E non voleva neanche che prendessi un taxi, dovevo assolutamente muovermi coi mezzi pubblici. Mi diede le indicazioni per arrivare al circolo, il problema è che io mi perdevo dappertutto: ero un ragazzino alto uno e quaranta, in una città grande, che parlava una lingua sconosciuta. Le uniche cose che sapevo dire in italiano erano “Mi chiamo Stefan Pircher” e “ho 14 anni”. Chiaramente non andai a giocare. La sera mi chiese come fosse andata e io, dopo aver cercato di inventarmi mille storie, confessai di essere rimasto in stanza». Alle Pleiadi di Moncalieri, a inizio anni Novanta, si allenavano davvero tutti: Camporese, Caratti, Furlan, Mordegan, con Riccardo Piatti a coordinare il gruppo. C’era anche Corrado Borroni, rimasto nella memoria per due cose, l’essere stato quel tizio dal rovescio magico che batté Kafelnikov a Roma e, nell’ambiente, quello «che tutti chiamavano il capoccione, perché aveva un testone enorme: ovviamente a lui quel soprannome non piaceva. Ma io ero appena arrivato, conoscevo solo il tedesco e non avevo capito che fosse un termine offensivo. Un giorno mi rivolsi a lui, che era più grande di me di cinque anni, chiamandolo “Ehi, capoccione!” Meglio non dire come finì».CACCIATO DA PILIC
Forse per le preghiere di mamma Midi, capitò che a Bertino venisse proposto un lavoro proprio vicino a Merano: lui accettò e Stefan tornò a casa ad allenarsi, mentre la famiglia del suo coach viveva lo stesso straniamento che lui aveva sperimentato sulla sua pelle, a Torino. «Sua moglie e i figli vivevano nella villetta di fianco al nostro hotel. Credo che, in due anni, sia uscita tre volte di casa. Del resto qui nessuno parla italiano e lui stava dal mattino alla sera in campo». Quando la nostalgia piegò le resistenze dei Bertino, Pircher provò a fare il salto tra i professionisti a Modena, con Massimo Bontempi. Le cose non andarono benissimo. Anche se i risultati cominciavano ad arrivare insieme ai primi punti Atp – in un satellite in Tunisia batté l’ex top 70 Yahiya Doumbia – «era un incubo, perché bastava un soffio di vento per mandare tutto al diavolo». Non solo tutto, anche tutti: Bontempi, che forse non aveva la chiave giusta per aprire la serratura della sua mente imbizzarrita tra nervosismi e apatia, riceveva in dote una scarica di parolacce dal suo giocatore ogni volta che una partita non andava per il verso giusto. Ora, seduto al bancone del suo ristorante da mille e una notte, pensando a quella grande occasione cede a un minimo di rimpianto: «Potevo fare di meglio. Una volta, in California, invece di allenarmi affittai un golf kart e gli passai vicino, facendogli ciao ciao con la mano. Un’altra volta mi feci prestare casa da una signora che viaggiava molto per lavoro e passai la settimana a divertirmi con la segretaria del club che ospitava il torneo. Bontempi, poverino, lo avevo fatto letteralmente ammattire: mandò un fax ai miei genitori per dire che, in tutta la sua carriera, non era mai stato preso in giro così da un allievo, e che non ce la faceva più». Se Pircher, in campo, metteva la palla dove voleva, purtroppo preferiva calpestare altri rettangoli: «In Grecia, una volta, feci il “dritto”, nel senso che passai direttamente dalla discoteca al circolo. Il mio match iniziava alle dieci del mattino, ero mezzo sconvolto. Avevo diciott’anni, se nessuno mi controllava ero pericolosissimo. Poi me ne rendevo conto, che i miei lavoravano e io andavo in giro per il mondo a fare il cretino spendendo i loro soldi, però era difficile trattenermi: quanti altri ragazzi della mia età avevano le stesse opportunità di fare la bella vita in giro per il mondo?». Ancora adesso, se gli chiedi cosa gli manchi di più tra il non aver potuto giocare a Wimbledon o in Davis, pensa ad altro: «Mentre noi parliamo, un professionista sta volando in America. Newport, Atlanta, magari Los Angeles prima di andare a New York…» Possibile che neanche il colonnello Pilic, quello che riuscì a far ragionare cavallo pazzo Ivanisevic a Wimbledon 2001, sia riuscito a metterlo in riga? «Sì, possibile. In accademia c’era un lituano che giocava bene ma aveva il vizio di rubare: batterie, vestiti, tutto quello che trovava. Una sera, dopo che già era stato beccato nei centri commerciali a fregarsi della roba, gli addetti scoprirono che c’era stato un furto nel ristorante dell’accademia. Io manco a dirlo, ero in giro per locali con amici; ignari di tutto, tornammo in stanza ubriachi all’alba, facendo un po’ di casino nei corridoi. Dopo due ore, arrivò la polizia e ci accusò di essere i responsabili del furto, perché gli altri ragazzi ci avevano sentito camminare di notte fuori dalle nostre stanze e bussare alle porte delle loro camere. Finimmo tutti in commissariato, a farci fare le foto segnaletiche e lasciare le impronte digitali. E finì tutto anche con Pilic perché, nonostante alla fine avesse creduto alla nostra innocenza e avesse cacciato il lituano, mi spiegò che comunque anche io avevo violato le regole del club andando a fare bisboccia in città e, quindi, ero fuori».
ADDIO A 20 ANNI
Nel 1999, a vent’anni, Stefan Pircher giocò la sua ultima partita. In Croazia, frantumò tutte e cinque le Head Prestige, ne comprò una da Igor Zelenay, spaccò anche quella e giocò l’ultimo set con il fusto rotto. Tornò in albergo dai suoi e iniziò, il lunedì dopo, a rinforzare la squadra dell’hotel Roessl, un posto bellissimo in cui si sta da favola, si mangia ancora meglio e, se chiedi un consiglio sull’ultima birra Först o sul Lagrein, lui sa dirti tutto: è il responsabile del ristorante dell’albergo. Il vizio di spaccare tutto lo aveva preso in gioventù tanto che, quando ti mostra la foto in bianco e nero del suo esordio vittorioso in qualche trofeo junior, noti subito due cose: lo sguardo accigliato, come se – nonostante tutto il talento del mondo – il campo da tennis non lo facesse sentire a casa, e la testa della racchetta. Depressa al centro, dopo uno scontro frontale col terreno di gioco. Poteva essere un matrimonio che avrebbe fatto faville, ma non s’aveva da fare. Dei suoi anni in Piemonte resta il diofà, che ha smesso da secoli di essere una bestemmia ma è una parola desemantizzata, che vale più o meno un accidenti; del suo passaggio nel mondo del tennis rimane una scheda ossuta sul sito dell’Atp che ricorda il best ranking (819) e il montepremi ricavato dall’attività (2.416 dollari, più o meno quello che il suo hotel incassa in un’ora). Nella memoria di chi lo ha incrociato, episodi folli come quella volta, a Riva del Garda, che giocò un match intero con un paio di scarpe Benetton da passeggio tenute slacciate, perché aveva dimenticato quelle da tennis. E, ci crediate o meno, vinse: tanto che, da allora, prese a giocarle tutte quante, le partite, con le scarpe slacciate. Insomma, ci sono parecchie cose che Stefan Pircher potrà raccontare al figlioletto appena nato, Rafael («ma non per Nadal, io tifo Roger»), quando inizierà a stargli dietro nelle faccende dell’hotel Roessl. Il giorno della finale di Wimbledon 2017, mamma Midi si è chiusa in casa per ammirare il trionfo di Federer; lui no, passava ogni venti minuti al bar per aggiornarsi sul punteggio. «Non guardo quasi niente, salvo gli Australian Open quando torno a casa tardi, dopo la chiusura del ristorante. Comunque troppo facile, oggi», il commento dopo aver dato un’occhiata a qualche punto. Dopo il match, in sala interviste, qualcuno ha chiesto a mister 19 Slam quanto fosse stato prezioso il suo talento per riuscire a vincere tanto, e così a lungo. Federer ha risposto che «il talento, preso da solo, non ti porta da nessuna parte». Ed è verissimo. Il talento no ma la sfortuna sì: Aivaras Balzekas, il lituano che rubava e sottrasse a Stefan Pircher l’unico coach in grado di farlo uscire dalla selva oscura dell’autolesionismo, venne punito da un destino beffardo: fu investito da un’auto guidata da un ubriaco che lo travolse a lato strada mentre, in un gesto di generosità gratuita, aiutava un amico a spingere un veicolo in panne. Morì sul colpo, a 23 anni.