“Il Re stava per perdere dal cugino sfigato di Harry Potter”. Nel 2012, quando da semisconosciuto si ritrovò avanti di un set e un break al Roland Garros contro Roger Federer, il New York Times lo prese gentilmente per i fondelli. “Un magrolino con le braccia che sembrano stuzzicadenti e degli indumenti comprati nel reparto bambini” Chi scrive c’era, a quella partita. E da allora non ha mai smesso di considerare David Goffin come un’unità di misura. Non tanto del tennis, ma della competenza di chi ne parla, ne guarda, ne vive, come più o meno tutti quelli che hanno in mano questa rivista. Non è bello fare i nomi, e infatti non li faremo, ma qualcuno allora può forse capire cosa ho dovuto patire in questi due ultimi mesi della stagione 2017, dove il nostro ha vinto quel che poteva vincere e perso quel che è nella natura delle cose che perda, ovvero la finale del Masters e quella di Coppa Davis. «Praticamente è il nuovo Ferrer». Questa è una delle perle che mi è toccato ascoltare. A parte il fatto che il paragone può avere una sua nobiltà, le differenze cominciano dalla taglia. Prendendo per buoni i numeri dati dall’ATP, lo spagnolo è più piccolo di tre centimetri ma pesa cinque chili in più. E quelli sono muscoli. Visti da vicino non più tardi di un Montecarlo fa, Ferrer è spesso come un armadio, Goffin è davvero sottile come il ripiano di un tavolino, e chiedo scusa per le definizioni, l’architettura d’interni non è il mio forte. Ritorniamo a Harry Potter e quell’ottavo di finale di Parigi, al quale il belga era arrivato da lucky loser. Per almeno due set, il Re si tenne sul volto non l’abituale espressione di stizza quando le cose non gli girano bene, ma di stupore. C’era da capirlo. Dopo tanti anni, si trovava davanti non un bombardiere, non un picchiatore dal fondo, ma un semplice giocatore di tennis. Uno vero, capace di usare ogni angolo del campo, di stringere, allungare e accorciare, variando rotazione e tempo di impatto sulla palla. Ci mise il suo tempo prendergli le misure proprio per le situazioni inedite che Goffin gli proponeva. E poi vinse, come è giusto che fosse.
LE QUALITÀ DI DAVID
Ma da allora la sensazione di una diversità rispetto alla maggior parte dei suoi rivali non solo è rimasta ma si è consolidata. Goffin non ha un colpo che spacca, prerogativa essenziale per gli aspiranti top 30 di oggi. Non potrebbe averlo, date quelle braccia, su questo aveva ragione il New York Times, e quelle gambe, esili quanto gli arti superiori. Il colpo migliore di Goffin è la mente. Poche volte sbaglia una scelta o l’impostazione di una partita. Tira più piano degli altri, ci sono almeno cinquanta giocatori, forse perfino un centinaio, nel circuito che viaggiano ad una velocità superiore, ma intanto lui è numero 7 del mondo. Intanto lui è arrivato a pochi punti dalla vittoria nel Masters, facendo impazzire un superdotato atleticamente e tennisticamente come Dimitrov, una palla di qua e una di là, una molle e una tesa, palleggiando per venti scambi senza mai dare ritmo all’avversario. Nella finale di Coppa Davis ha dato una lezione di tennis a Tsonga, che in termini di forza bruta dovrebbe spazzarlo via. Il colpo più forte del francese, quello da cui tutti stanno lontani, è il dritto? Goffin cominciava lo scambio sul rovescio, poi sulla palla seguente entrava in anticipo, cambiava diagonale, e così facendo rubava il tempo al francese, che sul suo lato destro, sentendosi più sicuro, si muove sempre con un filo di ritardo. Rubare il tempo, nel tennis come in tanti altri sport, è una qualità probabilmente innata, poco riconosciuta, spesso snobbata da chi non approfondisce le dinamiche che si creano nell’uno-contro-uno, ma che attualmente fa la differenza in molte occasioni. E poi lo attaccava, perché è vero che il serve&volley non tornerà più, ma a rete ci si può ancora andare, dopo essersi aperto il campo e trovato un’angolazione favorevole. Questo si chiama giocare con la testa. Questo è il tennis, signori. Goffin è un piacere per chiunque studi la materia, oltre a osservarla, e tra le due pratiche c’è ancora una certa differenza. Vero, la bellezza è nell’occhio di chi la guarda, ma spesso ciò che viene definito bellezza risente di impulsi esterni. Non è forse vero che su Facebook (e purtroppo non solo su Facebook) si trova ancora gente che ritiene Nadal un bieco forzuto solo perché ha avuto il demerito di battere spesso Federer? Per le stesse ragioni di tifoseria e di opposte fazioni, c’è chi considera Djokovic e Murray due macchine sparapalle, quando semplicemente si tratta invece dei due giocatori, insieme a quelli sopracitati, che sanno fare più cose meglio degli altri?
UN PIACERE PER GLI OCCHI
Un altro paragone che mi è toccato sentire riguardo a Goffin è stato quello con Gilles Simon: «Entrambi regolaristi» è stata la frase che hanno udito le mie fosche orecchie. Davvero? Ne siamo proprio sicuri? Premesso che anche il francese è stato – ormai con lui bisogna coniugare al passato – un grande sottovalutato, lo scambio lungo e la semplice strategia di stancare l’avversario non appartiene a Goffin: per motivi fisici (sarebbe lui il primo a rischiare l’asfissia) e tecnici (essendo titolare di un tennis che lo porta dentro il campo, dove può trovare angoli diversi e imporre il ritmo). Il paradigma Thiem è rivelatore in tal senso. Quando con la nota potenza il picchiatore austriaco costringe Goffin oltre la linea di fondo, vince o domina lo scambio. Quando Goffin riesce ad anticipare e a stringere il suo campo, perde Thiem. Proprio Simon, uno dei giocatori più intelligenti anche fuori dal campo, in una bella conversazione con Federico Ferrero pubblicata su Tennis Italiano nel numero di marzo, ha dato una notevole definizione della parola talento applicata al tennis: «Troppe persone confondono il talento con il cosiddetto bel gioco. E il bel gioco, non so perché, viene identificato col serve&volley». Goffin, soprannominato Il Geometra dal tennista francese, e il nomignolo non è certo dispregiativo, va a rete spesso e volentieri. Il suo servizio non è una bomba ma è anch’esso un gioiello, uno dei meno leggibili per gli avversari. «La potenza non è la nostra priorità – ha detto Thierry Van Cleemput, il suo allenatore -. David privilegia la lunghezza e la precisione, per creare più gioco». Del braccio, una meraviglia, abbiamo già detto. La Federazione belga impone ai suoi allievi di giocare fino a 13 anni con le palle depressurizzate per lavorare meglio su coordinazione del gesto e sul polso. Lui ha imparato bene e con la racchetta fa quello che vuole. Certo, non è un Fab Four, è umano, troppo umano. Spesso trema al momento di chiudere, perché per uno che parte così svantaggiato da Madre Natura la consapevolezza di essere a un passo dal farcela contro gente più dotata fisicamente, più predestinata, peserà sempre. Ma per quelli che non guardano il tennis con il paraocchi del tifo o della nostalgia per un gioco che non tornerà più, per quelli non convinti che dopo Federer il diluvio, il cugino sfigato di Harry Potter è una gioia per gli occhi.