Nel 2015, agli Internazionali d'Italia, vinse sul Campo Centrale contro Santiago Giraldo. Sembrava pronto al grande salto, invece una serie di infortuni l'ha rigettato indietro nel ranking. Ora dice di essere cresciuto fisicamente e maturato a livello mentale, pronto ad attaccare il muro dei top-100 ATP, pur partendo da lontano. Il talento non gli è mai mancato.Intervista pubblicata sul numero di febbraio 2018 de "Il Tennis Italiano"
Il torneo di Barletta ha riproposto il talento di Matteo Donati. Reduce da un periodo difficile, il talento di Alessandria non ha perso fiducia e aveva bisogno di un buon risultato per rilanciarsi. In Puglia ha raccolto due buone vittorie contro Andreozzi e Maden, ma punta ad andare ancora più avanti. Noi avevamo fatto il punto della situazione prima che scattasse la stagione: ecco il Donati-Pensiero.
Che fine ha fatto Matteo Donati, il talentino di Alessandria che tre anni fa aveva fatto sognare il Foro Italico, battendo Santiago Giraldo e giocando un gran match contro Tomas Berdych? I guai alla schiena, le cattive sensazioni post infortunio, la difficoltà nel trovare la cura adeguata e un pizzico di paura lo avevano fatto precipitare al n.438 ATP. Poi sono tornati i risultati e, di conseguenza, le ambizioni. Oggi Matteo ha trovato il giusto equilibrio e non si nasconde. «Tra un anno vorrei essere intorno al numero 100. Senza infortuni, ce la posso fare».
Vieni da una stagione complicata, soprattutto nella prima parte: cosa non ha funzionato?
Durante la preparazione invernale avevo ottime sensazioni, poi però sono ricomparsi i problemi alla schiena che mi avevano già bloccato in passato. Speravo passasse, ma dopo un allenamento ho avvertito una fitta e per qualche giorno non sono neanche riuscito a camminare. Visto che era già tutto organizzato, sono ugualmente andato in Australia. Grazie alle cure dei fisioterapisti ATP ho provato a scendere in campo,ma il dolore è peggiorato e mi sono dovuto ritirare. Mi sono fermato per un mese, poi ho provato a giocare il Challenger di Bergamo: era un test per capire come stavo, ma il dolore è comparso di nuovo. Di fatto, la mia stagione è partita a Barletta ma ho giocato con tanta paura. Non si capiva bene cosa avessi, il dolore mi limitava nella vita di tutti i giorni e si era anche parlato di intervento chirurgico. Ho giocato qualche buona partita, ma la testa non era libera, non ero tranquillo. Per fortuna abbiamo individuato la cura giusta e non ho più avvertito dolore. Ho dovuto giocare tutto l’anno sulla terra battuta: non è la mia superficie preferita, ma ho dovuto adattarmi su consiglio dei medici. Era il modo migliore per limitare i danni. A un certo punto ho ritrovato il gioco e i risultati: sul cemento ho giocato davvero buone partite.
Cosa hai pensato dopo il Challenger di Manerbio, quando ti sei ritrovato al numero 438 ATP?
Un minimo di preoccupazione c’era, ma non ho fatto pensieri troppo negativi. Mi preoccupava la paura di non trovare le giuste sensazioni in campo, di non ritrovare il mio tennis. La mia classifica, anche nei momenti migliori, si è sempre basata su qualche ottimo exploit. Ma non ero tranquillo, c’era una catena che alimentava energie negative. Ho colto il primo buon risultato a Genova (quarti di finale, ndr) ma c’era tanta tensione e per ottenerlo ho speso tante energie extra-tennis: quando sei in fiducia fai meno fatica, anche fuori dal campo.
A fine stagione hai giocato alla pari con Daniil Medvedev, top 50 ATP: cosa ti manca per raggiungere quel livello?
Non mi sono sentito per nulla distante, anzi ho lasciato il campo con un pizzico di rammarico: dopo aver vinto il secondo set c’è stato un game che ha fatto girare la partita. Insomma,potevo vincere. Ero contento di trovarmi in campo e ritrovare tutto quello che mi era mancato. La sconfitta non mi ha influenzato, ero felice di essermi espresso in quel modo.
Per un salto di qualità, avevi deciso di viaggiare con il preparatore atletico: lo fai ancora?
L’investimento si è limitato all’inizio della scorsa stagione, poi è sorto qualche problema e la collaborazione si è interrotta. Da allora ho proseguito in modo tradizionale, con la guida tecnica itinerante mentre sul piano atletico ero seguito a casa, ma non nei tornei. In alcune settimane, mi hanno dato una mano anche Filippo Volandri e Umberto Rianna e in quei frangenti ho avuto a disposizione i preparatori della FIT. Da quest’anno tornerò a investire su questo aspetto: Damiano Fiorucci, con il quale lavoro da anni, mi seguirà in giro per il tour, compatibilmente ai suoi impegni.Lorenzo Sonego non ha praticamente fatto carriera junior e adesso è intorno al n.160 ATP, dopo essere stato grande protagonista in Australia: pensi che sia un vantaggio arrivare nel tour da sconosciuto?
Né un vantaggio, né un problema. Ognuno ha il suo processo di crescita. C’è chi matura a 12 anni, chi a 15, chi a 18, chi non può viaggiare per ragioni economiche… non c’è una regola. Personalmente, l’attività junior mi è servita molto: ho avutola possibilità di giocare sul Campo 1 di Wimbledon e potrò sempre raccontare di aver giocato su un campo importante, anche se punto a calpestare l’erba del Centre Court! Arrivare sconosciuto a 20 anni? Cambia poco: basta un anno perché tutti ti conoscano. E la carriera si fa dopo i 20 anni.
Tanti anni fa, quando orbitava tra il n.200 e il n.300 ATP, Thomas Fabbiano disse con convinzione che i top-50 erano un obiettivo raggiungibile. Oggi è vicino al traguardo: la sua perseveranza può essere un esempio?
Sicuro. Lavorando tanto ha raggiunto obiettivi importanti e vederlo da vicino può aiutare. Non dimenticherei nemmeno il caso di Paolo Lorenzi: pure lui è arrivato molto in alto non più così giovane. In generale, bisogna prendere spunto da tutti gli esempi positivi.
Facciamo finta che un marziano abbia visto la tua partita di Roma 2015 contro Giraldo e poi sia tornato su Marte. Oggi torna e vede i tuoi ranking di fine anno: 189 nel 2015, 207 nel 2017, 268 nel 2017: come spiegarglielo?
Una singola partita non può fare un giocatore. Personalmente amo certi palcoscenici, ho vissuto alla grande l’esperienza al Foro Italico. A Roma ho il team al completo, mi sono sempre trovato bene. Non a caso, ho rivinto l’anno dopo proprio con Giraldo. Diciamo che a Roma mi esprimo meglio della settimana precedente e di quella successiva. Dopo l’exploit del 2015 ho avuto un po’ di sfortuna: ricominciare dopo 4-5 mesi di stop può essere pesante, soprattutto per chi, come me, si esprime al meglio quando riesce a giocare tante partite di seguito. Inoltre c’era una maturità fisica e mentale da raggiungere. Oggi sono vicino a quel traguardo.
Che differenze ci sono tra il Donati del maggio 2015 e quello di oggi?
Fisicamente sto molto meglio. Sul piano tecnico-tattico mi sento migliorato, ma i progressi più importanti sono quelli atletici, significativi sia nella pesantezza di palla sia nella mobilità. Questo aspetto ci premeva molto, specie quando giocavo contro avversari forti sul piano fisico.
Ritieni di aver fatto qualche errore in questi anni?
Non sono stato impeccabile nel gestire i rientri dopo un infortunio. Anziché fermarmi un giorno in più, mi sono sempre fermato uno in meno. Risultato? Lo stesso problema si è quasi sempre ripresentato. L’infortunio alla schiena mi ha tormentato per tre volte: se la prima fossi stato fermo un mese in più, probabilmente nei due anni successivi non avrei più avuto fastidi. Ma dagli errori si impara.Durante la preparazione invernale, sei arrivato a sollevare 160 chili: pensi di esserti sempre impegnato a sufficienza sul piano atletico?
Ho sempre lavorato abbastanza. Il fatto è che sono cresciuto molto in altezza e soltanto quest’anno mi sono fermato a un metro e 87. Questo aspetto mi ha creato qualche problema: per quanto lavorassi, faticavo a migliorare. Il 2017 è stato il primo anno in cui c’è stato un incremento significativo in termini di forza, mobilità e peso corporeo. Anche quest’ultimo aspetto era importante, specie guardando la stazza di molti avversari. Non ho rivoluzionato il modo di lavorare ma c’è stato qualche aggiustamento. Ho prestato grande attenzione alla schiena, ne ho curato la stabilità e gli incrementi sono arrivati.
Hai eliminato il tuo profilo da Facebook, ma sei ancora attivo su Instagram: cosa pensi dei social network?
Sono importanti, soprattutto per l’immagine perché molte aziende ci investono parecchi soldi. Per il resto è interessante seguire tante persone, anche al di fuori dal mondo del tennis. A noi giocatori capita spesso di avere tempi morti, ma grazie ai social riusciamo a restare in contatto. Per quanto riguarda minacce e insulti legati alle scommesse, mi è successo come a tutti gli altri. Non ho mai dato importanza a queste cose: se qualcuno vuole minacciarmi sul serio non lo fa su Instagram. Chi minaccia via social è quasi sempre un poveretto…
Che tipo di programmazione svolgerai nel 2018? Non pensi che giocare troppi tornei Challenger in Italia sia un po’ limitante, quasi dannoso?
Può essere un limite, ma dipende da come la si vive. Intanto il livello tecnico dei Challenger italiani è molto alto. Se si mantiene la giusta professionalità, si possono trarre benefici a un costo inferiore. Va bene girare per il mondo, ma a Roma posso andare con tre persone dello staff al seguito, in Australia o in Cina è più complicato: bisogna tenere in considerazione anche il bilancio economico perché le esperienze all’estero vanno fatte, ma in una certa fascia di classifica la parte economica ha un certo rilievo. Detto questo, inizierò il 2018 giocando due settimane in Europa, poi ne passerò cinque in Asia. Cercherò di giocare il più possibile sul cemento, sperando di non avere problemi fisici.
Un pronostico: tra 12 mesi in che posizione sarai?
Di solito dico 150, ma sinceramente penso di puntare a qualcosa di più. Dico primi 100 o molto vicino: senza intoppi fisici, ho le carte in regola per riuscirci.
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