Infortuni e cattivi risultati tengono Laura Robson ben lontana dal tennis che conta. Dieci anni fa vinceva Wimbledon Junior, è stata n.27 WTA a 19 anni, ma un grave infortunio al polso l'ha tenuta in officina per un anno e mezzo. Da allora vive un calvario da cui non riesce a uscire. Però sta giocando bene in doppio…

C'è dolorosa coerenza nei gesti e nelle parole di Laura Robson. Dieci anni fa, quando vinceva la prova giovanile di Wimbledon, diceva che prima o poi si sarebbe imposta anche nel torneo dei grandi. L'approccio tra le professioniste sembrava darle ragione: numero 27 WTA a 19 anni di età, nella sua bacheca trova spazio una medaglia d'argento olimpica, conquistata nel 2012, sul Centre Court, insieme ad Andy Murray (fu l'anello debole della coppia durante la finale del misto contro i bielorussi Mirnyi-Azarenka). Travolta dagli infortuni, in particolare da un grave problema a un polso, oggi è numero 333 WTA e ha sorpreso con le sue ultime dichiarazioni: dovessero offrirle una wild card per Wimbledon, la rifiuterebbe. Motivo? Non la merita. E poi, ha avuto abbastanza occasioni. La carriera di Laura è franata quando il polso sinistro (lei è mancina) ha iniziato a farle male. Le terapie conservative non hanno funzionato, poi si è sottoposta a due interventi chirurgici che l'hanno bloccata per un anno e mezzo. Quest'anno puntava a risorgere, ma i problemi all'anca e risultati mediocri la tengono lontanissima dal tennis che conta. Ha giocato a intermittenza, lontano dall'Europa: dopo la trasferta australiana, si è limitata a quattro tornei in Giappone, senza risultati di rilievo. La scorsa settimana ha rimesso piede in Gran Bretagna per il torneo ITF di Surbiton, ma ha giocato soltanto il doppio. Insieme all'australiana Monique Adamczak è giunta in semifinale. Un po' poco per una ragazza che aveva concrete aspirazioni di diventare numero 1. L'infortunio al polso ha messo in ginocchio ogni ambizione, nonché i tentativi di recupero. Le hanno teso più di una mano, spesso sotto forma di wild card: lo scorso anno ha giocato a Wimbledon ma ha perso al primo turno. Quest'anno, le cose sono cambiate. Ci sono sei britanniche, più giovani di lei, che le stanno davanti in classifica: Naomi Broady, Katie Boulter, Gabriella Taylor, Harriet Dart, Katy Dunne e Katie Swan.

“AMO IL TENNIS: PER QUESTO VADO AVANTI”
“Se anche Wimbledon mi offrisse una wild card, non la accetterei – ha detto la Robson, impegnata in doppio a Nottingham – non sarebbe giusto togliere la chance a qualcun altro quando io ho giocato a intermittenza. Potrei giocare le qualificazioni, ma in tabellone… non penso. Ho avuto occasioni a sufficienza”. La profonda autostima che mostrava una decina d'anni fa si è tramutata in orgoglio, nella necessità di tornare lassù con le proprie forze. Ma per adesso non ci sta neanche provando, segnata da tante esperienze negative. Laura ha ammesso di aver vissuto momenti di profonda crisi interiore che l'hanno spinta a un passo dal ritiro. “Sinceramente, non so come mi sento – ha detto – le cose cambiano continuamente. Stavo bene a gennaio, poi mi sono infortunata di nuovo. Ma sono una persona positiva e spero che le cose tornino a funzionare. Se non amassi giocare a tennis, non andrei avanti. È questo amore che mi fa andare avanti. Come tutti i giocatori vittime di infortuni, credo di essere abbastanza forte da tornare in alto. Vado avanti per questo, non voglio mantenere l'attuale classifica per il resto della mia carriera. Tutto quello che posso fare è continuare a lavorare e cercare di restare sana, senza infortuni”. L'hanno stimolata su un argomento che fa sempre presa, che regala l'assist buono per un titolo. “Se ho pensato di ritirarmi? Credo che chiunque abbia avuto pensieri di questo genere nel suo lavoro. Tuttavia, amo ancora quello che faccio e lo sto facendo da 15 anni. Non sono ancora pronta per fermarmi. Non posso immaginare una vita senza tennis, non ancora”. Se il dolore al polso sembra scomparso, il fastidio all'anca sopraggiunto a gennaio va e viene, e rappresenta un pensiero. Per questo, Laura ha scelto di giocare soprattutto il doppio, limitando il singolare a tante partite di allenamento. “Per le prossime settimane, il mio obiettivo è restare senza dolore”. Attualmente è n.104 nel ranking di specialità e a Nottingham fa coppia con la taiwanese Angel Chan.

QUELLA SPARATORIA A LAS VEGAS
L'anca è la stessa parte del corpo che ha bloccato Andy Murray (a proposito: nei prossimi giorni scioglierà i dubbi sulla partecipazione al Queen's e Wimbledon). “Andy ha dimostrato quanto sia delicato – dice la Robson – non è un infortunio facile perché limita ogni attività, sia in campo che in palestra. È un problema che porta ad arrugginirsi. Il dolore è comparso in Australia e ho visto due dottori, ma ho continuato a giocare perché mi avevano detto che era tutto ok. Ma il dolore è rimasto, ho consultato altri medici e mi sono state dette altre cose”. E allora ha ripiegato sul doppio, scelta che le consente di annusare ancora i grandi tornei ma che rischia di diventare un ripiego. Wimbledon 2018 segnerà il decennale del suo successo nel torneo giovanile del 2008. Ragazza esuberante, figlia di immigrati australiani, ha dovuto imparare a crescere sin da ragazzina. “Per fortuna i miei genitori non mi hanno mai messo pressioni. Ogni decisione è stata mia. Quando sei in Cina è perdi per la terza settimana di fila, arrivano pensieri oscuri”. Però ha rimesso in piedi il rapporto professionale con il vecchio coach Martijn Bok, olandese, con cui dice di stare facendo un buon lavoro. Ma i risultati, per adesso, latitano. A ben vedere, si è parlato di lei soltanto per il fatto di cronaca dello scorso ottobre, quando era presente alla drammatica sparatoria presso il Mandalay Bay Hotel di Las Vegas. Stava seguendo un concerto di musica country insieme ad alcuni amici, quando uno squilibrato, Stephen Paddock, ha sparato sulla folla. Sono morte 58 persone, 515 sono rimaste ferite. Una volta commessa la strage, si è ucciso. La Robson è rimasta illesa, ma le cicatrici mentali sono ancora presenti. “È stato qualcosa di folle e sono stata molto fortunata – racconta – non mi piace pensarci ancora. Eravamo di lato, abbiamo sentito tutto, ma eravamo fuori dalla traiettoria dei colpi. Il giorno dopo, mia mamma mi ha abbracciato forte quando mi ha preso all'aeroporto. E i miei cani hanno capito che qualcosa non andava, perché si sono seduti su di me per cinque giorni”. L'esperienza potrebbe darle una mano, restituendole motivazioni un po' smarrite. Ma quel fastidioso infortunio all'anca la sta tenendo ai margini. E allora, gli obiettivi di inizio anno sembrano improbabili. Voleva rientrare tra le top-100 e ritrovare la “migliore versione si me stessa sul campo da tennis”. Per adesso non si è vista. In singolare ha vinto 10 partite e il suo miglior risultato rimane la finale a Perth, in febbraio. E allora il doppio sta diventando qualcosa di più che un'alternativa. Forse è un opzione. Forse è l'unico modo per restare agganciata al tennis che conta.