Venerdì pomeriggio, mentre Anderson e Isner si davano battaglia per 6 ore e 36 minuti sul Centre Court, sul Campo 3 si giocava la partita più lunga nella storia del torneo juniores di Wimbledon. L’ha vinta per 19/17 al terzo il mancino londinese Jack Draper, figlio di Roger (per otto anni presidente della LTA), e ora punta a restituire alla Gran Bretagna un titolo fra i “boys” che manca addirittura dal 1962.“Stanley Matthews? Mai sentito nominare”. Jack Draper ha risposto così a chi gli chiedeva se conoscesse il nome dell’ultimo britannico capace di vincere Wimbledon juniores. Una risposta persino scontata, visto che il ricordo storico risale al 1962, trentanove prima della nascita del sedicenne di Sutton, che domenica proverà a mettere fine a un digiuno lungo 56 anni, paragonabili ai 77 trascorsi fra l’ultimo successo ai Championships di Fred Perry e il primo di Andy Murray, datato 2013. Per la prima volta dal 2007 la Gran Bretagna non ha portato alcun giocatore alla seconda settimana, ma a dare ai suoi connazionali qualcosa per cui gioire ci ha pensato lui, figlio di quel Roger Draper che è stato CEO della LTA dal 2006 al 2013. Il mancino londinese ha trascinato l’Union Jack fino alla finale del torneo juniores, con buone chance di riempire il Campo 1 come non si vede da un po’. Perché c’è in palio un risultato a suo modo storico, fallito da tutti i connazionali che l’hanno preceduto in finale (ultimo Liam Broady, nel 2011), e perché Draper – da numero 41 del ranking under 18, non certo uno dei favoriti – si è ritagliato un meritato spazio sui quotidiani grazie a una semifinale-maratona da 4 ore e 24 minuti contro il colombiano Nicolas Mejia, vinta per 7-6 6-7 19/17, con nervi e personalità. Proprio mentre il pubblico del Centre Court rischiava l’abbiocco durante la seconda partita più lunga nella storia del Champsionships, sul Campo 3 Draper e Mejia, numero 6 ITF, hanno giocato un match Anderson-Isner in miniatura, con due set in meno ma una battaglia ugualmente equilibrata, e sicuramente più piacevole e ricca di pathos. Perché la loro non è stata una sfida di ace e servizi vincenti, e se la sono davvero lottata punto a punto, producendo una qualità e un tasso d’intrattenimento che non avrebbero sfigurato fra i primi turni del torneo dei grandi.UN CALVARIO COL LIETO FINE
Draper ha avuto un primo match-point nel tie-break del secondo set, ma l’ha mancato, ha perso il set e in avvio di terzo ha ceduto per la prima volta la battuta. Ma invece che perdere la bussola ha immediatamente recuperato lo svantaggio, e da lì è iniziata la battaglia vera, punto su punto, proseguita per tutto un terzo set lungo ben 156 minuti. Non pareva affatto che in campo ci fossero due juniores, per capacità di tenere i nervi saldi e di gestire una partita così preziosa per la loro giovane carriera. Nel terzo set è stato sempre Draper a comandare, ma la sua partita si è trasformata in un calvario di match-point mancati, anche per merito di un avversario monumentale in buona parte delle occasioni. La maggior abitudine del diciottenne di Bogotà a giocare certe partite si vedeva a occhio nudo, tanto che per ben tredici volte è riuscito con successo a servire per rimanere nel match, ma stavolta Draper (che giovedì aveva sconfitto ai quarti il nostro Lorenzo Musetti, altro di cui sentiremo parlare…) ne aveva semplicemente di più, come ben dimostrato in dei turni di servizio dominati con agio. Il problema era convertire almeno uno di quei benedetti match-point. Se n’è fumati nove in tutto: sul 5-4, sul 7-6, sul 9-8 e sul 13-12. Tolto l’angolo del rivale non c’era una sola persona che non tifasse per lui, sempre con maggiore insistenza, e Draper ha provato a coinvolgerli, a portarli dentro alla partita, anche con qualche gesto teatrale. Sulla palla match numero otto ha invocato addirittura l’aiuto del cielo, con le mani giunte, ma invece che la grazia divina è arrivata una prima robusta del rivale, che l’ha obbligato a rimandare di nuovo i suoi propositi. Per fortuna il decimo match-point, sul 18-17, è stato l’ultimo, finalmente quello buono.“NON SO COME HO FATTO A METTERLA IN CAMPO”
Draper ha risposto bene, ha sparato un paio di diritti con coraggio e ha chiuso con uno smash, col quale ha scaricato nella metà campo dell’avversario tutta la sua voglia di prendersi la finale, e gettare le basi di una carriera importante. A differenza di Anderson lui la forza per esultare ce l’aveva: si è lasciato cadere a terra e poi ha tirato un paio di pugni al campo, per sfogare la tensione, ma poi si è dovuto contenere perché Mejia era distrutto psicologicamente, anche più di Isner, tanto da versare qualche lacrima. “Questa partita è stata una tortura – ha detto Draper in conferenza stampa –, ed ero sicuro al 100% che quello smash l’avrei sbagliato, perché di recente Ryan si è lamentato di quanto sono scarso nello smash, specialmente nella ricerca della palla con i piedi. Non so come ho fatto a metterlo in campo, non sono nemmeno certo di averla colpita al centro delle corde”. Ryan è Ryan Jones, il suo coach, al quale vanno tanti meriti per la crescita con servizio e diritto, i due colpi fondamentali per vincere la partita sotto gli occhi anche del capitano di Coppa Davis Leon Smith, e soprattutto della madre e del fratello Ben, anche lui tennista, che da qualche tempo ha scelto la strada del college, mollando il Regno Unito a favore degli States. Nel match più lungo della storia di Wimbledon juniores hanno sofferto tutti insieme a lui, che grazie ai buoni risultati recenti si era guadagnato anche una wild card per le qualificazioni del torneo vero e proprio. Ha perso subito con l’egiziano Safwat, ma per mettere piede all’All England Club ha dovuto solo attendere il via del torneo juniores, e sette giorni dopo sarà in campo per la finale, contro il numero uno del mondo Chun Hsin Tseng. Il taiwanese è stato in campo 3 ore e 23 minuti meno di lui, ma sedici anni (ne compirà 17 il prossimo 22 dicembre) certe fatiche si sentono meno. Specie quando c’è un titolo di Wimbledon all’orizzonte.
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