Le reazioni di “pancia” sono pericolose, perché condizionate dall'emotività del momento. Quanto sta accadendo in questi giorni ne è un ottimo esempio. Tanti personaggi, anche importanti, stanno portando avanti una crociata per introdurre il tie-break nel quinto set, laddove non viene ancora attuato: Australian Open, Roland Garros e Wimbledon. L'onda emotiva, naturalmente, è la semifinale di Wimbledon tra Kevin Anderson e John Isner: 6 ore e 36 minuti di battaglia, chiuse al cinquantesimo gioco del quinto set. Tutti si sono sentiti in dovere di dire la loro, dai diretti interessati fino a personaggi importanti come John McEnroe, Mats Wilander o lo stesso Nicolas Mahut, che è ancora in attività ma verrà ricordato per aver giocato, proprio a Wimbledon, il match più lungo di sempre. Le argomentazioni sono le solite: il quinto set a oltranza è troppo dispendioso per i giocatori, faticoso per il pubblico, problematico per la programmazione, penalizzante per chi ne esce vincitore. Il pensiero è figlio delle innovazioni sperimentate dall'ATP alle Next Gen ATP Finals, in cui le regole del tennis sono state sventrate con alcune trovate quantomeno fantasiose (set ai 4 game, tie-break sul 3-3 e l'abolizione dei vantaggi). Chi ha apprezzato queste norme, ovviamente, vede con orrore le maratone rimaste in tre Slam su quattro (lo Us Open adotta da tempo il tie-break nel set decisivo, mentre la Coppa Davis lo ha introdotto nel 2016: la vecchia Insalatiera rischia di essere crocifissa tra un mese, quando le federazioni dovranno pronunciarsi sulle incredibili proposte di riforma). Si tratta di opinioni “di pancia”, accettabili se pronunciate da John Isner e Kevin Anderson (stremati dopo una partita durissima: a un cambio di campo, quando il confine dell'epica era stato abbondantemente superato, Isner ha scherzato con la giudice di sedia, chiedendole se si poteva giocare un tie-break). Per il resto abbiamo ascoltato troppe parole al vento, senza dati oggettivi a supporto. E allora i dati ve li diamo noi, dimostrandovi che si tratta di un dibattito basato sul nulla. A voler essere generosi, un filo di vento viene fatto passare per una tempesta. I “tremendi” quinti set a oltranza sono un fatto rarissimo e per questo non ingombrante o dannoso per il tennis. Se è vero che Isner-Mahut ha rappresentato una mostruosità, i due protagonisti passeranno alla storia e il loro nome è scolpito su una targa nei pressi del Campo 18 di Wimbledon. E il museo della Hall of Fame di Newport ospita gli oggetti indossati da Mahut in quei tre giorni di giugno 2010. Con tutto il rispetto, difficilmente il francese avrebbe mai avuto accesso alla galleria degli immortali.
PERCENTUALI IRRISORIE
Ma torniamo ai numeri. Per comprendere la tendenza dei “terribili” quinti set a oltranza, abbiamo analizzato tutte le prove del Grande Slam giocate dal 2010 a oggi. 35 Slam, per un totale di 4.445 partite. Bene. Volete sapere quante sono arrivate sul 6-6 al quinto? 139. Il 3,12%.
Fosse un dibattito elettorale, saremmo vicini all'irrilevanza politica. Soglia di sbarramento superata per un soffio, qualche seggio, buono per il vitalizio, ma nulla di più. Di questi 139, soltanto 110 sono andati a oltranza perché lo Us Open adotta il “salvifico” tie-break al quinto set. Curiosamente, è avvenuto soltanto 29 volte, mentre gli altri Slam hanno ospitato qualche match “a oltranza” in più: 32 Australian Open e Roland Garros, 46 Wimbledon, il più soggetto ai match maratona. Non è difficile individuarne il motivo: l'incidenza del servizio, maggiore rispetto alle altre superfici (nonostante l'erba sia stata rallentata rispetto a qualche anno fa). La percentuale di queste partite, dipinte con orrore dai commenti letti e ascoltati in questi giorni, resta nulla o poco più: 4,02% (46 su 1143). Ma non finisce qui: non è mai successo che un singolo Slam fosse imbrattato da match-maratona. Il "picco" risale a Wimbledon 2015: 9 su 127, con la “spaventosa” percentuale del 7%. In cambio, ci sono stati tre Slam con una sola partita andata a oltranza (Wimbledon 2011 e 2013, Roland Garros 2016). Dati troppo ridotti per pensare a un rimodellamento delle regole, almeno stando alle motivazioni sentite in questi giorni. John Isner ha proposto l'introduzione del tie-break sul 12-12, trovando l'immediato conforto di Anderson. La pensa così anche John McEnroe: durante la telecronaca della partita di venerdì, ai microfoni della BBC, ha detto che “Il quinto set non dovrebbe terminare sul 6-6, ma sul 10-10. Quello che succederà avrà effetto sulla prestazione di domenica”. Anche Mats Wilander ha detto: “Si potrebbe giocare il tie-break sul 10-10 o sul 12-12: credo che sarebbe un aiuto per tutti sapere che c'è una sorta di punto d'arrivo, per il quale ci si può preparare”.
Non siamo d'accordo.
Il motivo è semplice. Uno dei vanti del tennis è la sua formula di punteggio, perfetta per ridurre o azzerare le casualità. Per vincere un game bisogna ottenere due punti in più, per vincere un set bisogna intascare due game in più, e bisogna vincere due (o tre) set. Il tie-break è stato un'ottima innovazione, un ibrido tra il concetto di “sudden death” e il principio dei “due punti in più”. Tuttavia, non mette al riparo dal fattore fortuna. Prendiamo Djokovic-Nadal, splendida semifinale di Wimbledon (durata oltre cinque ore, sia pure spalmate su due giorni, per le quali non si è lamentato nessuno). Con il tie-break, un singolo colpo fortunato (un nastro, una riga, una scivolata) avrebbe potuto decidere l'esito di una grande battaglia. Con la formula attuale, Djokovic ha dimostrato di meritare la vittoria, rimontando per due volte da 15-40 nel set decisivo (sul 4-4 e sul 7-7), e prendendosi il break sul 9-8. È chiaro che la presenza di grandi battitori accende il rischio di set infiniti, ma la formula tutela il più forte, o almeno il più meritevole in quella partita. E i numeri dicono che si tratta di casi sporadici, rarissimi. C'è di più: dei 139 match arrivati sul 6-6 al quinto, ben 26 (con una notevole percentuale del 20%) hanno coinvolto tre soli giocatori: John Isner (11), Ivo Karlovic (9) e Kevin Anderson (6). Significa che pochissimi giocatori creano situazioni “di pericolo”. Ma poi, pericolo per cosa? Nei tornei del Grande Slam si gioca per cifre enormi: anche chi perde al primo turno porta a casa decine di migliaia di dollari. Cifre che valgono un paio d'ore di più in campo, o di attesa negli spogliatoi. E c'è un altro aspetto che frantuma definitivamente la teoria secondo cui il tie-break sarebbe una tutela in vista del turno successivo: chi vince una partita per 7-6 al quinto allo Us Open ha la percentuale peggiore di vittorie al turno seguente rispetto a chi esce dalle maratone negli altri Slam. Qui è opportuno mostrare i dati (sempre presi dal 2010 a oggi).
US OPEN: 29 match chiusi 7-6 al quinto (2,85% del totale)
Il vincente al turno successivo: 5 vittorie e 24 sconfitte (17,25%)
AUSTRALIAN OPEN: 32 match chiusi a oltranza (2,8% del totale)
Il vincente al turno successivo: 13 vittorie e 19 sconfitte (40,6%)
ROLAND GARROS: 32 match chiusi a oltranza (2,8% del totale)
Il vincente al turno successivo: 6 vittorie e 26 sconfitte (18,75%)
WIMBLEDON: 46 match chiusi a oltranza (4,02% del totale)
Il vincente al turno successivo: 18 vittorie e 28 sconfitte (39,13%)
I numeri certificano, inequivocabilmente, che il tie-break al quinto non tutela affatto il vincente per il turno successivo. Anzi. Ovviamente i dati non tengono conto dei casi specifici: è chiaro che Isner non si reggesse in piedi dopo il 70-68 contro Mahut (raccolse cinque game al turno successivo contro De Bakker), così come ci sono stati alcuni casi di giocatori oggettivamente provati dopo una maratona. Allo stesso tempo, diversi tennisti hanno perso al turno successivo non certo per stanchezza ma perché hanno trovato un avversario nettamente più forte. Più in generale, il tie-break al quinto non è in nessun modo uno strumento per garantire la regolarità. Ma poi, di che “regolarità” parliamo? La fatica fisica, tecnica e mentale è un fattore di qualsiasi torneo, da quando il Maggiore Walter Clopton Wingfield ha brevettato il Lawn Tennis, circa 150 anni fa. Per non parlare dell'aspetto romantico del nostro sport: i match a oltranza restano nella memoria, sono scolpiti nella storia del tennis. Più difficile ricordare un singolo match dello Us Open chiuso 7-6 al quinto, almeno tra gli ultimi 29. Certo, Agassi-Blake del 2005 è leggenda, così come Sampras-Corretja del 1996. Ma il tie-break al quinto non garantisce in nessun modo il miglioramento del torneo. Lo dicono i numeri.
NOTA. L'introduzione del tie-break nel quinto set di Coppa Davis (al netto di quello che succederà ad Orlando) è una modifica accettabile: in Davis c'è la possibilità teorica che lo stesso giocatore debba giocare per tre giorni consecutivi al meglio dei cinque set: singolare, doppio, singolare. Al contrario, negli Slam è garantito il giorno di riposo che viene disatteso solo in casi eccezionali.
I MATCH "A OLTRANZA" NEGLI ULTIMI SLAM
WIMBLEDON 2018
Ruben Bemelmans (BEL) b. Steve Johnson (USA) 7-5 6-3 4-6 6-7 8-6
Mackenzie McDonald (USA) b. Nicolas Jarry (CIL) 7-6 5-7 3-6 6-2 11-9
Jan Lennard Struff (GER) b. Ivo Karlovic (CRO) 6-7 3-6 7-6 7-6 13-11
Kevin Anderson (SAF) b. Roger Federer (SUI) 2-6 6-7 7-5 6-4 13-11
Kevin Anderson (SAF) b. John Isner (USA) 7-6 6-7 6-7 6-4 26-24
Novak Djokovic (SRB) b. Rafael Nadal (SPA) 6-4 3-6 7-6 3-6 10-8
ROLAND GARROS 2018
Marco Cecchinato (ITA) b. Marius Copil (ROM) 2-6 6-7 7-5 6-2 10-8
Grigor Dimitrov (BUL) b. Jared Donaldson (USA) 6-7 6-4 4-6 6-4 10-8
Pierre Hugues Herbert (FRA) b. Jeremy Chardy (FRA) 2-6 6-3 6-2 3-6 9-7
AUSTRALIAN OPEN 2018
Diego Schwartzman (ARG) b. Dusan Lajovic (SRB) 2-6 6-3 5-7 6-4 11-9
Casper Ruud (NOR) b. Quentin Halys (FRA) 6-3 3-6 6-7 7-5 11-9
Ivo Karlovic (CRO) b. Yuichi Sugita (GIA) 7-6 6-7 7-5 4-6 12-10
Grigor Dimitrov (BUL) b. Mackenzie McDOnald (USA) 4-6 6-2 6-4 0-6 8-6
Andreas Seppi (ITA) b. Ivo Karlovic (CRO) 6-3 7-6 6-7 6-7 9-7
US OPEN 2017
Nicolas Mahut (FRA) b. Marton Fucsovics (UNG) 6-3 2-6 6-4 2-6 7-6
Radu Albot (MDA) b. Yan Hsun Lu (TPE) 6-2 7-6 5-7 0-6 7-6