Prima la formazione, poi i risultati. È il mantra che Vincenzo Santopadre ha trasmesso a Matteo Berrettini negli anni della crescita, diventato la chiave per costruire un giocatore dal futuro assicurato. Il successo del loro progetto è la risposta a un mondo animato solo dalla ricerca del risultato. Tutti vogliono arrivare prima, loro hanno preferito arrivare meglio.Oltre che un gran risultato per lui e una splendida notizia per il nostro tennis, il titolo di Matteo Berrettini a Gstaad rappresenta una lezione. Per tutti. La spinta data dai risultati di Cecchinato, Fognini o chi per loro c’entra poco: semplicemente, hanno pagato tutte insieme le tante scelte giuste fatte negli anni della crescita, grazie alla mano attenta di coach Vincenzo Santopadre. Ha preso un quattordicenne che non era nemmeno considerato fra i più forti della sua età, ha investito tempo e attenzione, e soprattutto ha messo la costruzione del giocatore al primo posto, relegando il presente in un angolino e pensando solo al futuro. Una scelta controcorrente, in un mondo del tennis che guarda solo alla ricerca esasperata del risultato, come se l’unico fine fosse diventato la vittoria, sempre e comunque, a qualsiasi età e in qualsiasi torneo. Basta vedere l’attenzione che viene data ai torneini under 10 o 12, dove dei bambini vengono trattati come dei piccoli professionisti, senza la possibilità di agire, pensare, anche sbagliare, e dove anche il risultato più banale diventa un motivo per farsi pubblicità, spesso da parte degli stessi maestri, desiderosi di accontentare genitori invadenti o di gonfiare ego e portafoglio. La formazione del giocatore ormai pare diventata un dettaglio, sacrificata nel nome del tutto e subito, ed è per questo che il percorso della coppia Berrettini-Santopadre dovrebbe far riflettere, a maggior ragione adesso che si è rivelato vincente senza più un se o un ma. Loro non hanno badato a ciò che suggerisce l’ambiente, non hanno seguito i coetanei, ma hanno pensato solo a ciò che serviva a loro, rispettando la crescita fisica e mentale della persona.
IL TENNIS NON È UNA GARA
Non è mica facile trasmettere a un ragazzino il messaggio che non deve lavorare per vincere ma per migliorarsi, e per risultati che si vedranno in futuro, specie quando i coetanei finiscono già sui quotidiani a 17 anni. Lo può fare solo chi ha cervello, chi ha l’intelligenza di capire che il tennis non è una gara, che ognuno ha il suo percorso e i suoi tempi, e quindi arrivare prima non significa affatto arrivare meglio. Le vittorie nelle categorie giovanili valgono nelle categorie giovanili, punto e stop. Quindi, piuttosto che perdere tempo per qualcosa che non offre garanzie, è meglio lavorare per creare le basi per il futuro: fisiche, tecniche e mentali. Passaggi che servono dopo, ma che vanno costruiti prima. Se oggi Berrettini bussa alla porta dei primi 50 del mondo, in quella che è solo la sua prima vera stagione nel tennis che conta, è perché Matteo e Santopadre (e i suoi collaboratori, non va dimenticato) hanno fatto tutte le scelte giuste, dando tempo al tempo, e anni fa si sono posti due grandi priorità: correggere il modo di stare in campo del ragazzone romano, che non era dei migliori mentre oggi è uno dei suoi punti di forza, e lavorare sulla prevenzione degli infortuni, vizio di un fisico massiccio e quindi più soggetto a certi problemi. Hanno capito che era fondamentale eliminare la componente “punto debole” per rendere i 196 centimetri un punto di forza a tutti gli effetti, e poi hanno continuato a lavorare senza dare troppo peso ai risultati. Significa non sedersi sugli allori quando tutto va bene e non abbattersi quando invece arriva qualche batosta, perché il fine è crescere, non vincere. Cose che tutti dicono, ma in pochi fanno sul serio.
QUESTIONE DI LIVELLO, NON DI CLASSIFICA
La più grande prova del valore del loro progetto, che ha trovato manforte in Umberto Rianna (intergrato al team come tecnico FIT del settore over 18), è la rapidità con cui Matteo è passato in fretta da ultimo della classe a leader della nostra Next Gen. “Se anche avessi le qualità tecniche per stare fra i primi 100, ora fisicamente non sarei in grado di reggere quel ritmo”, ci diceva a fine 2016, con la serenità di chi sapeva che era solo questione di tempo. Infatti, appena il fisico ha raggiunto i livelli desiderati Matteo ha bruciato le tappe, sfruttando i tornei Challenger esattamente per come sono stati concepiti, ovvero come fase di passaggio verso il tennis dei grandi. I migliori coetanei li frequentavano già quando lui è entrato per la prima volta nella classifica ATP, a 19 anni compiuti, ma malgrado ci sia arrivato dopo ci è rimasto meno, perché grazie alle basi costruite nei mesi precedenti era più formato, più maturo, più pronto per emergere. Così, mentre gli altri sono ancora lì, a lui è bastata una sola stagione di Challenger, il 2017: ha raccolto i punti per entrare fra i primi 100 e appena ha messo piede nel circuito maggiore ha dimostrato di poterci stare con agio, ancora prima della settimana da sogno sulle Alpi svizzere. Perché non aveva solo la classifica, ma anche il livello, che si costruisce indipendentemente dai risultati, mattoncino dopo mattoncino. Con pazienza, le scelte giuste e il coraggio di essere diversi, scegliendo all’occorrenza anche la strada più lunga e complicata. È superficiale pensare che con un progetto come il loro tutti sarebbero in grado di arrivare a certi livelli, ma forse qualcuno in più sì. In molti dovrebbero rifletterci.