La cultura dell’alibi è vecchia come lo sport. Ma va combattuta per crescere atleti mentalmente più forti, capaci di andare oltre quella che troppo spesso considerano sfortuna e che permette di giustificare una sconfitta. Tanto più in un’epoca dove il risultato conta più della prestazione come, purtroppo, insegna il dio pallone. In Italia, questa tendenza pare particolarmente spiccata. È ora di cambiare, imparando dal più forte tennista a livello mentale: Rafael Nadal.Vi racconterò un aneddoto. Correva l’anno 2006, prima stagione di serie A1 per il Tennis Club Sarnico, circolo per il quale giocavo da diverso tempo, all’esordio nella massima lega. Si giocava in casa contro il Tennis Club Bergamo e, vista la vicinanza geografica, intendetelo come un piccolo derby. Sul punteggio di uno pari, dati gli incontri precedenti, ero in campo contro Simone Vagnozzi. Una partita durissima. Dopo quasi tre ore di battaglia, vado a servire per il match sul 5 a 4 nel terzo set, 30 pari. Lo ricordo come se fosse ieri: servo la prima, fortissima, la palla sfiora il net quel tanto che basta affinché due giocatori esperti lo potessero percepire. L’arbitro però non interviene, Vagnozzi risponde come riesce e io, che avevo seguito il servizio a rete, chiudo con facilità una volée elementare. Quaranta a trenta, match point. Il mio avversario insorge, insieme al suo capitano: «Arbitro ma ha preso il net!» gridavano, insieme ad altri legittimi commenti di disapprovazione. Io mi stavo preparando per il punto successivo, ma al momento di andare a servire, con quel briciolo di teatralità nel segnare la scena, mi riporto sul lato destro della battuta e dico: «Hai ragione, Vagno: arbitro, era net, rigiochiamo il punto». Si levarono molti applausi ma, paradossalmente, anche mugugni da parte di alcuni dei miei sostenitori che non si capacitavano, visto che il grande traguardo era così vicino.
In quell’esatto momento, io ho provato la sensazione di aver già vinto la partita. Una partita decisamente più grande, quella di voler seguire un principio e una correttezza sportiva che, dato il momento così delicato dell’incontro, non fu per niente scontato abbracciare. Solo per la cronaca, sappiate che quel game lo persi e andai 5 pari, ma dopo altri dieci minuti di grande lotta, vinsi comunque 7-5. E, a distanza di molti anni, penso ancora che se anche avessi perso quell’incontro, lo ricorderei come una delle vittorie più significative. Vi ho parlato di questo non per buonismo, ma per indurre al pensiero che anche di fronte a eventuali errori di giudizio, ogni uomo non solo ha l’obbligo di rispettare i codici di buona condotta, ma addirittura la possibilità di diventare agli occhi di chi lo sta guardando, e non di meno a quelli di se stesso, un piccolo esempio di rinnovata lealtà. Prendersela con l’arbitro, così come col vento, con la sfiga, col campo scivoloso, con le righe che sono storte e i rimbalzi non perfetti, non è altro che mostrare la pochezza di cui siamo stati capaci.
Muscoli! Così non ti vengono quelle spallucce vittimiste dei tennisti italiani, che perdono sempre per colpa dell'arbitro, del vento, della sfortuna, del net… sempre per colpa di qualcuno, mai per colpa loro! (Nanni Moretti, Aprile, film del 1998)
Se sei più forte, alla fine vinci. Ma per comprenderlo bisogna estrarsi un attimo dai singoli episodi che a volte ti possono penalizzare e immaginare di volargli sopra, come a vederli un giorno lontano, tutti insieme, dall’alto. Un panorama nei suoi dettagli lo hai chiaro solo se ne intuisci la prospettiva.
Basta con le scuse, non ne posso più. Basta con gli arbitri che sono maledetti e venduti. Anzi, io amo gli arbitri! Una volta va bene a te, una volta va bene all’altro. Io vorrei solo che si ricominciasse a parlare di chi ha giocato meglio o peggio. O di chi quel giorno è stato semplicemente più bravo del suo avversario, in quel momento, in quell’incontro. Non ho più voglia di aprire i giornali e annegare in pagine destinate a pianti e lamentele, che poi ogni volta è la stessa storia, adatta soltanto al fiato maligno che agita i branchi. Basta con gli alibi, tipici della mediocrità che troppo spesso rappresentiamo.
Basta, non ne posso più.
Io amo gli arbitri e per questo devo ringraziare mio figlio, il grande Seba, che oggi ha nove anni e mezzo e che, ahimè, da buon italiano è un discreto malato di calcio. Al momento pratica il basket con mia segreta gioia, ma ammetto che si perde poche partite di pallone alla tv e, come prodotto esemplare della nostra consueta cultura italiana, è un fantastico commentatore. D’altra parte, noi siamo un popolo di fantastici commentatori. Esercitando perciò con amore immenso il ruolo di padre (e, mi si passi il termine privo di altezzosità, di educatore) gli faccio spesso compagnia in queste sue maratone calcistiche: per quanto a me, del calcio, importi poco o nulla.
Faccio un passo indietro. Sono stato ragazzo anch’io. E anch’io sono stato adolescente, ribelle e indisciplinato. Anzi, per onestà, non posso proprio eludere dal carattere fumantino che per molto tempo ha caratterizzato, e anche probabilmente limitato, i miei stessi traguardi professionali. Non sono un santo, né un moralista ma mi reputo una persona intelligente. Riflessiva. E se volete, per questo, giudicatemi pure presuntuoso. Ma accadde che, dopo aver mandato a cagare arbitri, istituzioni, ingiustizie e tutti quelli che ce l’avevano con me, un momento chiaro e netto me lo ricordo: quando giochi nel circuito tutto l’anno, inevitabilmente stai negli alberghi, vivi i contesti, condividi gli spazi comuni sia con gli altri giocatori e allenatori, sia con gli arbitri. Coi quali, essendo bene o male sempre gli stessi, dopo un po’ arrivi, a seconda della simpatia o della confidenza che hai instaurato, a diventarne perfino amico, o quantomeno un discreto conoscente. E con quello con cui evidentemente s’era creata una speciale sintonia, sarà per amore dei riff di Keith Richards o per la passione delle trattorie nostrane, una sera ci andai a cena. Parlammo molto quella sera. E un passaggio mi rimase ben scolpito nella mente. «Io mi piglio solo insulti. Sempre». Nella sua franchezza, volendo anche banale e qui sicuramente fin troppo riassunta, si nascondeva un’immensa e triste verità. Ci riflettei molto, quella notte.
Rimanendo nel campo del mio sport, e tenendo conto del fatto che i livelli delle competizioni che disputavo non erano tali da prevedere sempre l’aiuto dei giudici di linea e men che meno della tecnologia moderna (occhio di falco, paragonabile al VAR in campo calcistico), immaginatevi quanto fosse tremendo dover giudicare minuscole palle da tennis che viaggiano oltre i 200 km/h e che cascano a pochi millimetri dalle righe, magari quelle più lontane dalla seggiolina arbitrale, col sole negli occhi e i riflessi di quel pino maledetto che fa il suo bel gioco d’ombre proprio in quell’esatto filo di spazio. E in quella frazione di secondo tu, comune mortale, devi chiamare.
Out!
E proprio quella chiamata, a seconda del punteggio, a volte può andare a definire l’esito finale dell’intera partita, con la consapevolezza che qualsiasi decisione prenderai, sarai sempre e comunque insultato a squarciagola da colui che il punto l’ha perso. E, successivamente, additato come unica causa di sconfitta da parte del presunto danneggiato.
L’arbitro. Che mestiere di merda. Ci puoi mettere tutto l’impegno di questo mondo, ma per qualcuno rimarrai il solo motivo della sua sconfitta. A vita. Provateci voi. Io ci ho provato, amatorialmente, e vi posso assicurare che è veramente un gran casino.
Ecco: poco per volta, ho deciso di perseguire un’altra strada, quella della relatività, del senso di giustizia e di superiorità sportiva, nell’essenza esatta del termine. Gli arbitri sono uomini e come tali sbagliano. E, come tali, sono i primi a subirne le proprie pene intime e personali quando poi, ad esempio tramite un replay, si renderanno conto dell’errore commesso. Ma solo dopo averlo commesso. Ho deciso di iniziare a pensare che, se fossi stato più forte, avrei semplicemente vinto prima. Non ci arrivavo nemmeno, al punto in cui una singola chiamata poteva decidere l’intera sorte della partita. Se gli dai 6-2 6-2, non stai a recriminare sulla chiamata dubbia sul 6-5 al terzo, 30 pari. Perché neanche ci arrivi, a quel punteggio. Se hai preso un break per una svista, avrai tutti i punti e i game successivi per mostrare con chiarezza la tua eventuale superiorità. Se meritavi di stare fra i primi giocatori del mondo, a quarant’anni non dai la colpa a tutti gli arbitri della tua carriera che, secondo te, ti hanno impedito di vincere qualche partitella in più. Chiamatela teoria della verità assoluta o della filosofia vincente. Chiamatela come vi pare.
Massimo Ocera, torinese, classe 1982, è stato una promessa del tennis italiano. Ex numero 380 del mondo, tra le sue vittime c'è un giovane Juan Martin del Potro, in una bella storia che ha raccontato alla nostra rivista.
NESSUN ALIBI
di Massimo Ocera | 05-Dic-18 | Notizie, Tutti gli articoli