Il papà-coach racconta il rapporto con il figlio Stefanos: «Non è facile: hai la possibilità di amare tuo figlio e dargli ciò di cui ha bisogno quando è piccolo, cioè amore. È bello essere parte della sua vita al 100%, ma è anche difficile soffrire con lui. E in campo sono il coach, non esiste il papà».Apostolos Tsitsipas è la proiezione del figlio, l’esatta immagine di come sarà Stefanos tra una trentina d’anni. Uguali i lineamenti marcati, il naso austero, il modo di muovere le mani, la sterzata dura della lingua che si sforza a ciancicare l’inglese, riuscendoci peraltro piuttosto bene. Apostolos penetra la figura di padre-coach, interpretandola a seconda della crescita del pargolo. «Non è facile, ma credo che ci sono cose positive e negative nell’essere il coach di tuo figlio. Hai la possibilità di amare tuo figlio e dargli ciò di cui ha bisogno quando è piccolo, cioè amore. È bello essere parte della sua vita al 100%, ma è anche difficile soffrire con lui, supportare e sopportare tutte le sue emozioni. Quando un figlio cresce ci sono sempre cose positive e negative e nel mio caso la figura di padre e coach si deve scindere. In campo sono il coach, non esiste il papà».

Come per ogni papà che si rispetti, anche lo sguardo di Apostolos brilla quando parla del primogenito, al punto che anche i duri lineamenti del volto si fanno un po’ più dolci: «Stefanos è un ragazzo molto facile da gestire. In 27 anni che lavoro come coach, il suo è il miglior carattere che abbia mai visto e non lo dico perché è mio figlio. Ogni coach che lo ha visto allenarsi mi ha detto la stessa cosa – sentenzia sicuro, prima di aggiungere -. Pensa, il primo allenatore che ha avuto al tennis club e che lo ha seguito dai 9 ai 13 anni, adesso si è trasferito in un altro club e quando ci sentiamo mi ripete sempre di non aver mai conosciuto un ragazzo con un atteggiamento migliore».

Stefanos ha deciso che avrebbe puntato al professionismo in maniera un po’ casuale: «Prese questa decisione quando aveva dieci anni. Dovevamo raggiungere un mio amico in Francia per uno stage estivo e Stefanos venne con me. Fu lui a chiedermi di partecipare al torneo, dove si qualificò per il Masters tra i migliori otto ragazzi presenti. E lo vinse. L’emozione fu così forte che quel giorno mi svegliò in piena notte: ‘Papà devo assolutamente dirtelo: voglio diventare un giocatore di tennis, mi piace la competizione, mi piace la sfida’. Sono sensazioni che non si riescono troppo a insegnare: una persona se le porta dentro». Quando gli si chiede del secondo figlio, Petros, già davisman della nazionale greca, Apostolos toglie la carota e tifa fuori il bastone: «È un ragazzo molto più difficile di Stefanos. È molto critico con se stesso e non riesce a concentrarsi al 100% sul tennis».

È anche abbastanza paradossale il fatto che Apostolos non sia nemmeno il genitore più illustre, tennisticamente parlando, della famiglia: «La mamma ha seguito molto Stefanos, specie nei primi anni. Ha fatto un eccellente lavoro: viaggiava con lui quando aveva otto, nove anni e lo ha accompagnato nella sua decisione di voler competere a un certo livello». Apostolos non dà colpe alla Next Gen, ma meriti alla Old Gen se ancora i nomi in cima alla graduatoria sono sempre gli stessi: «Premesso che per me parliamo non solo di due campioni assoluti, quando citiamo Roger Federer e Rafael Nadal, ma dei due giocatori più forti della storia che, per fortuna o meno, sono anche pressoché contemporanei. Quindi il fatto che siano così forti, e con loro al vertice ci siano stati anche Novak Djokovic e Andy Murray, ha sbarrato la strada ai giovani. L’esempio più evidente è Sascha Zverev che ancora non è riuscito a fare bene negli Slam. Per quanto riguarda il lavoro, non si possono fare troppi paragoni. Federer si allena in modo diverso da Nadal perché, per lui, è meglio così».

L’espressione di Apostolos diventa immediatamente seria quando gli ricordiamo l’episodio (già raccontato da suo figlio nell’intervista delle pagine precedenti), in cui Stefanos ha rischiato di annegare, una tragedia solo sfiorata e che ha rappresentato una sorta di nuovo day-one per tutti: «È stata una giornata difficilissima. Dopo una sessione piuttosto dura di allenamento, Stefanos decise di fare una nuotata in mare con un amico. Il mare era molto mosso e, non vedendoli più, mi sono tuffato in acqua e mi sono accorto che stavano annegando. Stefanos cercava di lottare perché è un fighter anche fuori dal campo da tennis, mentre l’altro ragazzo era molto più spaventato e si stava arrendendo. Fortunatamente sono riusciti ad aggrapparsi a dei coralli e poi a una roccia in modo da poter respirare un po’. Io chiaramente faticavo di più, essendo meno giovane, ma sono riuscito ad aiutarli e portarli in salvo. Quel giorno è stato molto importante perché ci ha unito ancora di più e ci ha fatto capire che davvero ogni giorno potrebbe essere l’ultimo e quindi bisogna godere di tutto ciò che la vita ci regala». Che per adesso è una finale al Masters 1000 di Toronto e un tennis che fa innamorare gli esteti. Con la ferma convinzione che il meglio debba ancora venire.