Pugliese, 44 anni, un passato agonistico da seconda categoria e una laurea in Scienze Motorie. Ha fatto esperienza nell’ex centro federale delle Tre Fontane e poi al TC Treviso, prima di creare la sua Academy. Ora vuole accompagnare Lorenzo Giustino nei top 50 ATP, seguendo un metodo ben precisoNon sempre la notorietà corrisponde ai risultati. Lo sa bene Gianluca Carbone, giovane coach pugliese che vanta già esperienze di un certo livello, tecnico e culturale, ma è un nome ancora nuovo nel mondo del coaching internazionale. Ma le qualità emergono: un paio d’anni fa ha avuto la possibilità di lavorare con Lorenzo Giustino e, una volta terminato il rapporto professionale per motivi logistici, pochi mesi dopo il tennista campano ha sentito il bisogno di ripartire proprio da lui. Maturità classica, laurea in scienze motorie, Carbone è coach e preparatore atletico e crede fermamente nelle qualità di Giustino: «Sono sicuro che valga i top 50 ATP». E sogna di arrivare in cima insieme a lui.
Quando hai capito che la tua strada sarebbe stata quella del coaching?
Come tanti giocatori, la trasformazione da tennista ad allenatore è abbastanza naturale. Tuttavia, sin da piccolo mi ero appassionato agli allenamenti proposti dai miei maestri e preparatori atletici. Già a 16, 17 anni, quando frequentavo il liceo classico, avevo le idee chiare: volevo proseguire gli studi anche se stavo giocando a tennis. Per questo ho scelto Scienze Motorie: è stato il primo passo per intraprendere la mia carriera attuale.
Qual è stato l’insegnamento più grande che hai ricevuto nel lavorare con professionisti affermati come Elena Bovina e Olivier Rochus?
Non si possono imporre idee e metodi, ma bisogna rispettare le scelte e le sensazioni del giocatore. Faccio un esempio: la Bovina giocava il dritto in closed stance e per questo aveva difficoltà nei recuperi. Ho provato a farla colpire da una posizione più frontale, in modo che potesse completarsi, ma era molto rigida. Mi disse che con quella tecnica aveva raggiunto i quarti allo US Open e voleva continuare così. L’episodio mi ha fatto capire che è molto importante rispettare esigenze e sensazioni. Anche se hai ragione, devi arrivare gradualmente alle conclusioni, senza mai importi. Questo non significa non seguire un certo percorso, ma bisogna entrare nella testa del giocatore e individuare il percorso migliore per ottenere risultati. In effetti, molti giocatori si bloccano e non migliorano perché rifiutano il cambiamento.
Com’è nata la possibilità di lavorare con Lorenzo Giustino e fin dove pensi possa realisticamente arrivare?
Il progetto è nato nel 2016 grazie a Diego Nargiso. Lorenzo si allenava nella sua accademia, ma Diego aveva bisogno di supportarlo con un coach che lo accompagnasse nei tornei. Dopo un po’ la collaborazione si è interrotta per motivi logistici, visto che lui risiede a Barcellona, ma sin dal principio si era creato un ottimo feeling. Abbiamo continuato a sentirci e quest’anno è nata l’esigenza di tornare a collaborare. Lorenzo voleva riprendere determinati lavori e da lì siamo ripartiti. Difficile dire dove possa arrivare: dal punto di vista tecnico e fisico, ritengo non abbia niente da invidiare ai top 50 ATP. Non voglio esagerare parlando di top 30, ma sui primi 50 sono sicurissimo. Ne ha affrontati diversi e il livello è simile. Stiamo lavorando su vari aspetti, se è ancora numero 200 significa che c’è tanto lavoro da fare. Tuttavia, le potenzialità sono enormi. E io ci credo tanto.
Lui vive in Spagna: quanto la scuola spagnola ha influito sul suo tennis?
Il suo stile di gioco è certamente di estrazione spagnola: è completo e abbastanza aggressivo da fondocampo ma può giocare di più a rete. È la direzione in cui stiamo andando: attaccare di più rispetto allo schema tipico degli spagnoli.
Sei pugliese: come sei finito a lavorare a Treviso?
A 18 anni mi sono trasferito a Roma per frequentare l’Università. Dopo la laurea ho lavorato un anno al Centro FIT delle Tre Fontane, chiuso nel 1999. In quel momento ho ricevuto la proposta di diventare direttore tecnico del Tennis Club Treviso e ho provato un anno per vedere come andava: mi sono trovato talmente bene che dopo 18 anni sono ancora lì. Diciamo che ho fatto un’esperienza completa: fino ai 18 anni al sud, dai 18 ai 28 al centro, poi al nord.
I coach hanno i giocatori come datori di lavoro: è un aspetto che pesa? Hai mai avuto paura di un esonero?
È il problema di tanti bravi allenatori che non si lanciano nel mondo pro perché è un’attività ad alto rischio. Ci sono mille ragioni che possono portare al termine di una collaborazione e non è facile destreggiarsi, neanche a livello economico: se non arrivano almeno tra i top 100 non sempre possono permettersi uno staff con coach, preparatore e fisioterapista. Da parte mia sono fortemente motivato, sin da quando avevo 18 anni e con Giustino abbiamo trovato il giusto compromesso tra le settimane in cui lo accompagno e quelle in cui resto in accademia, in modo da gestire tutte le mie attività.
Un giocatore deve essere sempre seguito nei tornei o talvolta vale la pena farlo viaggiare da solo?
La situazione ideale è che venga sempre seguito, perché la vita nel tour è massacrante sul piano fisico, psicologico e organizzativo. Avere qualcuno vicino, in grado di dare un supporto morale, è importante. Possono esserci delle eccezioni quando si gioca in ambienti familiari, però la presenza del coach può essere fondamentale.
Hai pubblicato uno studio sul Metodo Spagnolo: quali sono le chiavi che lo hanno reso così efficace?
Gli stessi spagnoli sono rimasti sorpresi dal fatto che un italiano abbia effettuato uno studio su di loro. A ben vedere, loro sostengono di non avere un metodo ma io ho pubblicato i sistemi utilizzati da Lluis Bruguera e analizzato a 360 gradi quello che diceva sull’apprendimento negli sport individuali. Gli spagnoli hanno una caratteristica: fanno raggiungere al giocatore la massima espressione del suo tennis senza volerlo completare a tutti i costi, ma specializzandolo il più possibile. Questo avviene intorno ai 14, 15 anni. Se il ragazzo non ha grandi capacità coordinative, lo fanno sviluppare in quello che gli riesce meglio, privilegiando il gioco da fondocampo, il meno rischioso. È il concetto di difesa aggressiva. Gli spagnoli hanno un tennis ripetitivo, adottano sempre le stesse soluzioni, anche se adesso stanno passando a un sistema più aperto. Prendiamo il dritto inside out: fino a qualche tempo fa lo insegnavano a scatola chiusa, passando la palla con la mano, poi con la racchetta, quindi in palleggio. Adesso lo inseriscono in una situazione di gioco reale. Più in generale, ripetere sempre le stesse azioni aumenta fiducia e sicurezza. Lo spagnolo sa quello che può dare, toccherà all’avversario essere più bravo di lui e batterlo. È il contrario di chi si deve adattare alle situazioni e, se non gli riesce un colpo, questo può condizionare l’esito della partita. Penso ai francesi, che sono l’esatto opposto: hanno un tennis spettacolare, sanno fare tutto, ma il loro gioco è più dispendioso. E infatti uno dei motivi per cui non vincono grandi tornei è che arrivano stanchi alle fasi finali.
Hai una preparazione culturale di un certo livello, mentre di solito i tennisti non sono troppo colti: come ci si relaziona con loro?
Va detto che svolgono un’attività impegnativa e stressante, per questo è comprensibile che nei momenti liberi preferiscano attività rilassanti. Io sono stato fortunato perché Lorenzo, a differenza di altri, è culturalmente di alto livello. Legge tanto e si informa ancora di più, forse questa è una delle ragioni che ci ha avvicinato. Vuole che gli spieghi dettagliatamente ogni cosa e, su argomenti importanti, mi chiede se ci siano ricerche scientifiche oppure se mi baso soltanto sulla mia esperienza. Più in generale, cerco di avere un approccio umile: se è vero che i giocatori non hanno grandi competenze, se scavi nelle loro sensazioni puoi scoprire cose incredibili. Frequentando i tornei Challenger ne sto conoscendo molti ed è un aggiornamento continuo. Se hai la giusta apertura mentale, ti aiutano a migliorare. Magari non sono consapevoli di quello che fanno, eppure svolgono un’attività che non è alla portata di tutti.
Introdurresti il coaching in campo?
Sì. Allo US Open l’ho vissuto in prima persona ed è stata un’esperienza bellissima, il giocatore si sente molto più tranquillo, non dico che sembri una competizione di squadra, ma in questo modo c’è grande vicinanza tra un giocatore e il suo team. Il coaching aiuta di più i giocatori in ascesa rispetto a quelli già affermati, perché l’occhio dell’allenatore è in grado di individuare i difetti tipici di chi è ancora immaturo.
Chi è il miglior coach al mondo?
Ce ne sono tanti di alto livello: ho molta stima di Marian Vajda che ha saputo riportare Djokovic ai massimi livelli dopo la crisi, ma è difficile individuare il più bravo perché ognuno ha le sue caratteristiche. E poi spesso è il giocatore a creare il coach: se hai la fortuna di allenare un cavallo di razza, è più facile costruirsi un nome di prestigio.
Perché il Centro FIT di Tirrenia fatica a sfornare buoni giocatori?
Io cerco di imitare quello che accade in Spagna, dove i coach collaborano tantissimo, mentre in Italia c’è meno collaborazione tra accademie e coach di alto livello. Forse ci vorrebbe un maggior scambio di informazioni.
Stai svolgendo un ottimo lavoro, ma non sei ancora particolarmente famoso: la notorietà ti attira?
Chi intraprende questo mestiere ha grande ambizione, ma sono un cultore del lavoro e non mi interessa la fama dovuta a incarichi che piovono dall’alto: credo in ciò che nasce dal basso e arriva in alto. Per esempio, se Giustino dovesse crescere, spero che il mio contributo venga riconosciuto.
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