La sconfitta di Roger Federer contro Stefanos Tsitsipas è finita sulle prime pagine di tanti quotidiani italiani. A noi piace evidenziare il commento di Marco Imarisio sul Corriere della Sera: «Non è la fine del mondo»Come talvolta accade, dopo un’intensa giornata di tennis in tv, scambio quattro chiacchiere con Marco Imarisio, uno dei principali inviati del Corriere della Sera. A fine telefonata mi dice: «Ho scritto un commento sulla sconfitta di Federer, domani fammi sapere cosa ne pensi». Semplicemente lo riproponiamo qui (questo il link originale del Corsera) perché finalmente non si è scritto un de profundis di Federer, né tantomeno del gioco. Che sopravviverà, anche quando RF avrà smesso. (Lorenzo Cazzaniga)
Coraggio, non è la fine del mondo. E neppure del tennis. Succede che si invecchia, il tempo passa per tutti, anche per lui. Quel che non è normale, invece, è la sensazione da fine del mondo che si avverte sui social e in certi commenti quando il Re perde un match importante.
Roger Federer è il Michael Jordan del tennis. Ha portato il suo sport in un’altra dimensione, ancora più di massa, ancora più globalizzata. E di questo bisognerà essergli sempre riconoscente. Il suo gioco all’incrocio tra classico e moderno, la sua classe, i suoi gesti ancora bianchi, hanno creato un culto che trascende la razionalità e sfocia nella paura del futuro. Come se dopo di lui non dovesse esserci più nulla. I primi a essere colpiti da questa sindrome sono quei fenomeni della Federazione internazionale, ormai pronti a trasformare questo sport in un X-Factor con racchette nel tentativo di conservare il benessere economico raggiunto grazie a lui.
Ci sono state anche esagerazioni, tollerate e taciute in nome suo. Mai si erano visti gli organizzatori dei tornei tentarle tutte per consentire a Roger di arrivare il più lontano possibile in tabellone. Pur di fargli vincere l’unico Slam che gli mancava, la terra rossa del Roland Garros venne resa ancora più veloce del cemento. Una eresia.
Gli effetti collaterali peggiori risiedono però nel fanatismo causato dalla tossina retorica del «più grande di sempre». Chi fa notare certe sue umane debolezze, chi ne sottolinea la storica cecità tattica, non sta bestemmiando. Sono semmai sacrileghi i molti adepti che negano altre grandezze. A cominciare da quella di Rafael Nadal, la sua nemesi, un campione assoluto spesso degradato a pura forza bruta e guardato con sospetto. Per tacer di Novak Djokovic, il terzo incomodo, considerato un intruso, un potenziale usurpatore dei record di Roger Federer e Rafa Nadal, perché più giovane del primo e meno logoro del secondo.
Dovremmo invece ringraziarli tutti, questi fenomeni. Ci hanno regalato una ennesima età dell’oro. Abbiamo salutato John Mc Enroe, ancora oggi il talento più puro. Abbiamo detto addio a Stefan Edberg che in quanto ad armonia non aveva rivali, e dopo di lui a Pete Sampras. La vita continua, sempre e comunque. Ne volete una prova? Domenica Roger Federer non è stato sconfitto da un robot sparapalle. Ha perso contro un ragazzo di 21 anni che gioca un tennis pulito e bello, quasi come il suo. Godiamoci gli ultimi bagliori del Re. Ma il tennis è più grande di un tennista. Anche se si chiama Roger Federer.
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