È stato uno dei più grandi talenti della storia del tennis italiano, ora insegna in un piccolo circolo nella provincia di Bergamo: «Per il mio passato, qualche volta mi sento un po’ sprecato. Da giovane ero uno tsunami, ora invece voglio trasmettere valori importanti».Gian Piero Galeazzi e Gianni Clerici hanno conferito popolarità eterna a Paolo Canè, il primo con la definizione di turbo rovescio per descrivere il suo colpo migliore, il secondo per il soprannome Neuro, a definirne il carattere bizzarro. Sono passati quasi 30 anni ed è cambiato molto nella vita dell’ex numero 26 ATP che abbiamo incontrato negli studi di Eurosport, alle quattro del mattino, poco prima che entrasse in cabina per l’ennesima notte dell’Australian Open, convinto di poter ancora essere una grande risorsa per il nostro tennis.
Quando hai capito che era giunto il momento di ritirarsi?
Nel 1997, per i continui problemi fisici. Mi voglio bene come persona e quando ho provato a rientrare, anche usufruendo del ranking protetto, non riuscivo a ottenere punti. Non mancavano gli stimoli, ma non c’era più la forza. Mi rendevo conto che facevo fatica a giocare ad alti livelli perché il fisico non sopportava più i dolori. Quando sei giovane li superi con i nervi, la testa, la voglia di arrivare. Quando passa il tempo ci vuole una condizione migliore e una certa cura nella preparazione: in quel periodo, quello che facevo non era sufficiente.
Come hai vissuto questa decisione forzata di dover lasciare il tennis?
Ero dispiaciuto. Giocavo bene, ma fisicamente non ero più in grado di reggere certi ritmi. Già all’epoca dovevi essere fisicamente al top, con una preparazione che ti consentisse di giocare tutto l’anno. Da una parte ci furono gli interventi, dall’altra non mi ero aiutato: avrei dovuto curarmi meglio quando mi ero fatto male, senza farmi prendere dall’ansia di rientrare in fretta.
C’era più sofferenza per non poter più giocare da professionista o sollievo per non sottostare alla routine del tennista?
Ci soffri. Essere un protagonista nello sport ti porta a sopportare diverse pressioni, da solo. Io credo di averlo fatto bene, anche se col senno di poi avrei cambiato qualcosa. Per esempio, non avrei dovuto avere fretta di rientrare dopo le operazioni. Mi ero fatto prendere dalla voglia di giocare e quando ho capito che non ero più all’altezza, ho fatto un passo indietro. Tutto sommato è stato un ritiro sereno.
Ora insegni a Gorle: come ci finisce un ex davisman in un piccolo circolo di provincia?
Ho figli piccoli e quindi è stata una scelta di vita perché mi evita di viaggiare troppo. Rimanendo a casa, ho deciso di trasmettere la mia esperienza ai giovani che si avvicinano al tennis. Mi spiace però non essere stato preso in considerazione dalla federazione perché penso di conoscere questo sport e sapere come allenare, sia i ragazzi sia i giocatori affermati.
Se ora ti dovessero cercare, saresti pronto a una collaborazione?
Sto bene così, ma non si può mai dire, nella vita può succedere di tutto. Sono rimasto nell’ambiente, mi aggiorno, seguo molto il circuito e mi piace tantissimo il tennis. Quest’ultimo aspetto mi aiuta a stare in campo con i ragazzi. Chissà.
Come è nata l’idea di aprire una scuola tennis a Gorle?
Vivo lì, quindi è una soluzione molto comoda. Per intenderci, vado al club a piedi. C’è un centro che migliora anno dopo anno: per scelta, non seguo più di 25-30 bambini. Non ho mai cercato grandi club, con i relativi problemi di disponibilità dei campi e discussioni con i soci. Sono già al sesto anno di attività e spero di andare avanti ancora a lungo. I ragazzi sono piccoli: si parte dai principianti di 5-6 anni fino agli agonisti di 15-16, qualcuno di 18. Per il mio passato, mi sento un po’ sprecato. Ho un bagaglio tecnico che potrebbe consentirmi di trasmettere molto. Allo stesso tempo, è una sfida che mi piace: prendere un ragazzo che non ha mai toccato una racchetta e apprezzarne i progressi a distanza di anni, è una grande soddisfazione. Sono impostati piuttosto bene, per me è una grande sfida.Tanti campioni dicono che per diventare forti è necessario avere di fianco le persone giuste nel momento della crescita: per te è stato così?
Io avevo come coach Fabio Avogadri, praticamente un coetaneo. Mi ha seguito negli anni in cui ho giocato meglio, ma in realtà aveva una buona esperienza perché aveva passato tre, quattro anni da Bollettieri. A livello tecnico era abbastanza preparato, gli piaceva molto il gioco ed era soprattutto una spalla per non viaggiare da solo. Tornando indietro, probabilmente avrei dovuto fare scelte diverse. Mi sarebbe servito qualcuno che mi desse una mano a livello mentale. Già all'epoca c'erano grandi coach, ma a me andava bene così. Si era creato un team di giocatori e giravamo il mondo senza sosta: mi capitava spesso di fermarmi ai tornei e confrontarmi con altri giocatori, anziché tornare a casa.
Da giocatore hai spesso mostrato un carattere difficile: ti chiamavano Neuro…
Avrei avuto bisogno di qualcuno che mi consigliasse meglio, evidenziando le mie pecche a livello mentale e facendomi maturare. Ero uno tsunami, non ascoltavo molto e facevo di testa mia, nel bene e nel male. Come Kyrgios, anche se, a differenza sua, io amavo il tennis. Diciamo che avrei dovuto cambiare qualcosa: per esempio, curare di più il fisico. Non avevo grossi problemi tecnici, ma – come diceva Belardinelli ai tempi di Formia – non dovevo spremermi troppo. Spendendo molto a livello mentale, dovevo arrivare bello carico e preparato. Tuttavia, non sempre il fisico mi ha supportato.
Uno degli obiettivi di un tennista pro è terminare la carriera con sufficiente denaro da poter decidere di fare quello che si vuole: è successo anche a te?
Non ho guadagnato abbastanza da non dover lavorare perché negli anni 90 non giravano le cifre di oggi, nemmeno in proporzione ai tempi. E poi si spendeva un sacco: oggi con Ryanair voli in Europa a prezzi stracciati; io un Milano-Parigi lo pagavo due milioni di vecchie lire. Normale che adesso i giocatori ci provino a tutte le età: tre anni ben fatti e sei a posto per la vita. Ma noi amavamo di più il gioco.
Quanto sono importanti i soldi?
Servono a migliorare la qualità della vita. Ai miei tempi, aiutavano a gestire la programmazione, migliorare gli allenamenti e la qualità complessiva della mia attività. Non mi interessava andare a mangiare in un ristorante stellato o comprare una fuoriserie, ma crearmi la possibilità di fare sacrifici in un ambiente bello e confortevole. Non condivido il messaggio di Rocky Balboa: alzarsi presto la mattina e lavorare in pessime condizioni. Puoi anche svegliarti tardi, ma l'importante è farsi il mazzo. Stare in un hotel confortevole, giocare in un bel campo, con il clima giusto, avere un ottimo sparring, sono tutte cose positive, che stimolano al sacrificio. Però il denaro è sempre maledetto.
Perché maledetto?
Nei rapporti con le persone, anche nella vita quotidiana, le discussioni che nascono sono quasi sempre legate ai soldi.Qual è il consiglio che non ti è mai stato dato e che cerchi di trasmettere ai tuoi allievi?
Non bisogna mettere troppa pressione: capita spesso di vedere genitori o allenatori che, appena si accorgono che un ragazzo è più bravo degli altri, si montano la testa e pensano di avere un campione tra le mani. Io non ho fretta: bisogna rispettare gli step della crescita mentale e fisica. Ci sono passato, so come si soffre e i danni che si possono creare a un ragazzo, illudendolo di essere un campione in tenera età. Se uno è buono, ci sarà tempo per provare a fare il professionista. Ma non sopporto l'idea di bruciare le tappe. Nella mia scuola soltanto un paio di allievi fanno i tornei: gli altri, anche se i genitori spingono, li tengo ancora a distanza dall'agonismo. È inutile tuffarsi nella gabbia del leone: prima devi avere le armi per combattere.
Questo vuol dire che alla loro età, tu hai ricevuto tante pressioni.
Nel 1983 lasciai il centro tecnico di Formia, anche perché dovevo prendere il diploma. Poi feci la finale agli Assoluti contro Francesco Cancellotti e iniziai la carriera da professionista. Fu una scelta dettata da mio padre: vedeva che giocavo bene, dunque in famiglia si decise così. L'anno dopo ho vinto la medaglia di bronzo alle Olimpiadi di Los Angeles. Tornando indietro, avrei potuto aspettare qualche anno.
Perché un genitore dovrebbe mandare suo figlio ad allenarsi nella tua scuola?
Da me non si scherza. Il tennis è un divertimento, ma non si viene per perdere tempo, ma per imparare a giocare a tennis. E io credo di saperlo insegnare bene.
L'hai definita una scuola all'americana: cosa intendi?
Quando ho provato a rientrare nel circuito, sono andato da Bollettieri e da Hopman. Appena arrivi ti chiedono cosa vuoi fare e ti danno un programma. Io faccio esattamente lo stesso. I ragazzi che vengono da me, a parte i piccolini, mi chiedono quale sia il mio programma. Io rispondo così: “No, dimmi cosa vuoi fare tu”. Li voglio responsabilizzare. Una volta deciso, preparo il programma in base alle loro esigenze. Faccio presente cosa hanno a disposizione nella mia scuola, tra tennis e preparazione atletica, e sono loro a decidere quanto tempo dedicarci. Il mio compito è metterli nella condizione di esprimersi al meglio. Scuola americana significa non perdere tempo. E non prendo gli allievi solo per fare numero o incasso. Il mio obiettivo e farli appassionare al tennis e formarli anche a livello umano: non devi illuderli di diventare campioni, ma trasmettere valori importanti che torneranno utili anche nella vita.
Tra le tue attività post-carriera c'è stata anche la partecipazione al reality show di Mediaset, La Talpa.
Erano gli albori dei reality: cercavano uno sportivo,. Il colloquio l'ho fatto qui di fianco, nei loro uffici di Cologno Monzese. Poteva essere un'esperienza nuova, ma non avevo l'ambizione di trovare un lavoro nel mondo dello spettacolo. Chi partecipa a un reality, di solito lo fa sperando di trovare una visibilità che gli possa cambiare la vita. Poteva servirmi per prendere qualche soldo e far girare, ma non è finita bene: mi sono fatto male, ho dovuto abbandonare. Non è stata una gran bella esperienza.
Ripeti spesso che ora fai principalmente il padre: qual è l'aspetto più difficile di questo ruolo?
Ho scoperto che il tennis, a confronto, è facilissimo. In fondo, devi solo allenarti e giocare. Fare il padre è molto più dura. Ho tre figli: Lorenzo ha 14 anni e vive a Torino, poi cinque anni fa mi sono sposato con una donna stupenda che ha messo al mondo Achille, 4 anni, e Samuele, 3 anni. Mi ero abituato a stare da solo e mettere di nuovo su famiglia ha completamente cambiato la mia vita. Non è stato semplice, ma allo stesso tempo mi hanno fatto vivere una seconda giovinezza. Ancora oggi, mi danno la carica per andare avanti.
Come ti giudichi come padre?
Faccio il massimo. Tutto quello che faccio è per loro, non ho altri stimoli, è la missione che mi rimane per il futuro. Non vorrei fare troppa retorica, ma mi piacerebbe vedere il più piccolo diventare maggiorenne e garantirgli il miglior futuro possibile.
I tuoi figli giocano a tennis?
Il più grande, Lorenzo, ci ha provato, poi è passato al calcio, ora al… niente! Invece i ragazzi devono fare sport. Ora c'è Achille, 4 anni: ha cominciato la scorsa estate, da solo, racchettina in mano contro il muro. Ora viene ogni lunedì a giocare con me, insieme ad altri due bambini. Gli piace e se avrà voglia di continuare, lo aiuterò. Qualche volta gli faccio vedere dei video sulle mie partite: mi riconosce subito, anche con i capelli lunghi e scuri. Gli dico che, una volta, andava di moda così!Insieme a Claudio Panatta gestisci anche un camp estivo a Sestola?
Esatto, era un vecchio Centro FIT, abbandonato. Sindaco, vicesindaco e assessore allo sport ci hanno aperto le porte per ridargli vita. Nel 2019 sarà il quinto anno. Organizziamo attività multidisciplinari, in cui i ragazzi possono dedicarsi al tennis, ma anche ad altri sport.
Hai pure ricominciato a fare il telecronista per Eurosport: cosa ti piace di questo mestiere?
Io adoro parlare di tennis. Ho una certa esperienza e credo di poter spiegare cosa succede nella testa dei giocatori in alcuni momenti della partita perché li ho vissuti in maniera diretta.
Sei molto attivo sui social: se fossero esistiti quando giocavi, che reputazione avresti avuto?
Quando giocavo, vivevo nel mio mondo ma poi devi cambiare, non puoi permetterti di vivere in una campana di vetro. Mostrarmi sui social è divertente, anche perché molti mi fanno domande sul tennis e mi piace rispondere. Da giocatore, non credo che avrei avuto tempo per queste cose. Ero già mezzo esaurito di mio, quindi non mi sarei dedicato a un'attività del genere. Forse sarei stato ancora più famoso, ma il mio compito era di preservare le energie. Avevo un carattere che molti non capivano, perché mi potevano osservare solo durante le partite. La gente non poteva sapere quello che passavo, le emozioni che vivevo. L'attesa, in particolare, mi massacrava. Giocare non era un problema, ma prima di scendere in campo consumavo troppe energie.
È importante il giudizio della gente?
Non mi è mai importato granché, ma capita di pensarci. A volte l'opinione altrui può servire da stimolo per migliorarsi. Io mi metto sempre in gioco, ascolto tutti e non credo di essere infallibile. Quando sei un giocatore affermato, vai incontro ai giudizi: devi saperli accettare. Ma sono sempre andato avanti per la mia strada senza farmi condizionare. Non mi turbava nemmeno quello che scrivevano i giornali, perché dentro di me sapevo se avevo fatto bene o male. Non puoi permetterti di farti condizionare da fattori esterni.
Non tutti ci riescono.
Peggio per loro! Nella mia carriera ho avuto punti deboli, ma non questo.
Qual è il tuo sogno?
Stare bene fisicamente. Il 16 gennaio dell'anno scorso ho subìto un intervento abbastanza pesante all'intestino. Tornare nuovamente in sala operatoria, dopo i problemi che avevo avuto a schiena e ginocchia, mi ha dato fastidio. E poi vorrei proseguire nella mia attività, veder crescere i figli e stare bene con la mia famiglia. Non ho troppe ambizioni. Cerco la serenità, anche se per uno come me è difficile: di natura sono piuttosto agitato.
Avevi iniziato a scrivere la tua biografia: il progetto è ancora vivo?
Ci sto pensando, perché avrei tantissimi argomenti da affrontare e lascerei un segno per i giovani. Credo che per loro potrebbe essere interessante: la mia vita, quello che provavo in campo, dove ho sbagliato, capire cosa avrei potuto fare meglio, cosa non ho fatto e avrei dovuto fare, e viceversa. E poi tanti aneddoti, anche divertenti. Ci sarebbe molto da raccontare.
Paolo Canè è nato a Bologna il 9 aprile 1965. In carriera ha vinto tre titoli ATP (Bordeaux nel 1986, Bastad nel 1989 e Bologna nel 1991) e raggiunto la miglior classifica al numero 26 (1989). Vanta successi contro Jimmy Connors, Mats Wilander, Stefan Edberg, Goran Ivanisevic e Pat Cash. Le sue migliori partite le ha giocate contro Wilander in Coppa Davis a Cagliari nel 1990 (vittoria in cinque set) e contro Ivan Lendl a Wimbledon nel 1987 (sconfitta in cinque set). Dotato di un talento straordinario, grande tocco di palla e ottime accelerazioni (soprattutto col rovescio), era soprannominato Neuro per il carattere piuttosto complicato. Per anni legato sentimentalmente alla celebre cantante Paola Turci, ha tre figli avuti da due compagne diverse: Lorenzo (14 anni) dalla prima, Achille (4 anni) e Samuele (3 anni) da quella attuale.
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