Non è bella come Maria Sharapova e non ha la personalità di Serena Williams, ma Ashleigh Barty ha già vissuto tante vite, anche lontano dal tennis e dai riflettori. Ora, grazie a un gioco vario, piacevole e di puro talento, ha vinto il suo primo Slam e raggiunto la vetta del ranking mondiale. Ed è il meglio che il tennis femminile possa offrirePaffutella, piccolina, mascolina, talentuosa. E ora anche Slammer e top class, dopo il suo sorprendente successo a Roland Garros. Ashleigh Barty ha vissuto tante di quelle esistenze che pare assurdo constatare come, in realtà, abbia appena compiuto 23 anni. Sangue aborigeno, cresciuta come una enfant prodige, a 15 anni aveva già intascato il titolo juniores di Wimbledon. L’ascesa è stata talmente precoce da portare appresso anche una crisi d’identità: nel 2014, a soli 18 anni, Barty era stanca, perfino depressa, si sentiva inadeguata a questa vita: ha deciso di prendersi una pausa, è andata a pescare, a giocare a golf e nel frattempo è diventata una giocatrice professionista di cricket. Avete letto bene, cricket, quello sport per noi incomprensibile e che in qualche paese come l’Australia, l’Inghilterra, l’India e il Pakistan vanta milioni di fans. Due anni dopo è tornata e, dopo la cavalcata vincente a Parigi, ha strappato anche la corona di numero uno del mondo. Un risultato meritato che potrebbe lanciarla verso traguardi ancora più ambiziosi ma per nulla scontati, per una ragazza che ha già vissuto molte vite, tutte diverse, condensate in pochi anni.

JIM JOYCE. L’officina della favola-Barty comincia a Ipswich, duecentomila anime nel Sud-Est dello stato del Queensland, a una mezz’oretta da Brisbane. Una vecchia racchetta trovata in casa, un muro da maltrattare sul garage. Un canovaccio perfino inflazionato nella storia del tennis. Da piccolina, Ashleigh voleva essere inserita nella squadra di netball – sport simile al basket, praticato soprattutto a livello femminile – come già accaduto con le sorelle maggiori Sara e Ali. Peccato non avesse sviluppato un forte senso femminile e rifiutava ciò che di solito amavano le ragazzine. Così la scelta è ricaduta sul tennis, sport che in Australia vanta una tradizione importante. Barty è nata e cresciuta sulla costa est dell’Australia, la celebre Gold Coast, in un sobborgo di Ipswich, a Springfield. Ultima di tre sorelle, papà Robert lavora per il governo, mentre mamma Josie è radiografa. Quando ancora doveva compiere cinque anni, Barty è passata sotto gli occhi di Jim Joyce, che non era solito occuparsi di bambini così piccoli. «Rimandatemela tra tre o quattro anni», disse. Poi, tanto per accontentarla, le lanciò una pallina e rimase folgorato dal primo dritto sparato da questa bambina così piccola. «La coordinazione occhio-mano era eccezionale – ricorda Joyce – ma la cosa che più mi impressionò fu il suo sguardo: per tutto il tempo in cui stavo parlando con gli altri bambini, mi fissava costantemente negli occhi». Joyce ha insegnato a Barty molto, quasi tutto. Del tennis, del servizio, della vittoria e della sconfitta, della vita. Capì immediatamente potenzialità e limiti di quella bambina: conosceva la potenza che avrebbe potuto esplodere il suo tennis, ma ha subito capito che Madre Natura non le avrebbe concesso un fisico da valchiria. Si doveva, dunque, studiare un piano-B: tanto top spin, rovesci in back, servizio in kick, attaccare la rete, volée, variare il gioco. Quando Ash aveva sei anni e stava dominando con le sue coetanee un torneo, Joyce truccò una partita mettendole contro una giocatrice molto più grande di lei soltanto per vederla perdere e capire come avrebbe reagito. Barty uscì dal campo sconfitta e a testa bassa, ma col sorriso stampato sotto il berretto. A 9 anni la faceva allenare con ragazzi di 15, quando ne aveva 12 giocava con gli adulti. Una volta, dopo aver vinto un torneo, Ash portò il trofeo al circolo, Joyce lo buttò nel cestino: con disciplina e severità, aveva gettato le basi della giocatrice che poi è diventata e Barty non smette di ringraziarlo. L’ha fatto anche dopo la vittoria a Miami – la più importante della carriera, quella che l’ha imbucata tra le prime dieci del ranking. «Nonostante la mia altezza, il servizio è un colpo fondamentale del mio gioco e per questo devo ringraziare il mio storico coach Jim Joyce».

SANGUE ABORIGENO. Adolescente, Barty ha preso conoscenza delle sue origini indigene derivanti dalla bisnonna, un membro dei Ngaragu, tribù che stazionava tra il sud del New South Wales e il nord-est del Victoria. Il linguaggio tribale è sostanzialmente estinto, ma Barty avverte comunque l’importanza del legame con le sue origini: «La mia eredità è molto importante: ho sempre avuto la carnagione olivastra e il naso schiacciato, e penso che sia importante essere un buon modello di vita e di comportamento». Tanto basta per essere affiancata a Evonne Goolagong, una delle più grandi giocatrici australiane, e prima aborigena a trionfare in uno Slam. Nel 2017 la stessa Goolagong – undici Slam in bacheca negli anni Settanta – la designò come erede: «C’è una ragazzina che diventerà molto forte: si chiama Ashleigh Barty».
ENFANT PRODIGE. A 15 anni, allenata da Jason Stoltenberg, Barty è diventata la Next Big Thing del tennis femminile. Nel 2011 ha vinto il torneo juniores di Wimbledon e la Fed Cup juniores. L’anno seguente viene già data in pasto al circuito maggiore, passa le qualificazioni nello Slam di casa, vince quattro ITF, scala le classifiche, viaggia, gioca ovunque, va a vivere da sola in un appartamento a Melbourne, anche se il tempo trascorso a casa è davvero misero. Il benessere tennistico, tuttavia, è inversamente proporzionale a quello interiore: da una parte ci sono i risultati, clamorosamente positivi e precoci, dall’altra un perpetuo stato di inadeguatezza a una vita che non sente propria. Da lì a poco Barty implode, non ce la fa più. La depressione è qualcosa da maneggiare con estrema cautela, specie in casa Barty, visto che papà Robert ne soffre e – a detta sua – sempre ne soffrirà: «Sono un ossessivo compulsivo, maniaco depressivo e bipolare: starò in cura per tutta la vita».

LA DEPRESSIONE, IL RITIRO E IL CRICKET. Nel settembre del 2014, a 18 anni, Barty capisce che non ce la fa più. Va in cura, assume farmaci anti-depressivi e decide di prendersi una pausa. Torna ad abitare a Ipswich, a cinque minuti dalla casa dei genitori. Pesca, gioca a golf e si dedica al cricket. La passione per il nuovo gioco, decisamente diverso dal tennis, diventa praticamente un nuovo lavoro, tanto che Ashleigh difenderà i colori dei Brisbane Heat nella Big Bash League, il massimo campionato australiano di cricket. A un’età in cui solitamente si terminano gli studi liceali e si decide di provare a pensare a cosa fare da grandi, Barty ha già fatto la professionista in due sport differenti: un record assoluto. Quello di fermarsi, di prendersi del tempo per se stessi mettendo tutto in stand-by – pure fosse una carriera in rampa di lancio – può apparire una follia, per gli australiani è invece piuttosto comune. Lo chiamano gap year, l’anno sabbatico che, solitamente, ci si prende dopo la fine degli studi, per decidere cosa fare del proprio futuro. Si ha il terrore di perdere un anno, ma è probabilmente perdendo quell’anno che si ritrova se stessi. Così è successo a Barty (e, per esempio, al suo connazionale Alex Bolt che, nel 2016, stava faticando a riprendersi da un infortunio e decise di mettere in pausa la sua carriera andando a tirare di scherma con suo fratello e giocando a football. Per tirare avanti, fece anche il muratore. Nove mesi dopo è tornato e quest’anno ha raggiunto all’Australian Open un terzo turno che sa di miracolo.

IL RITORNO. Tornare a maneggiare una racchetta da tennis non era nemmeno contemplato. Barty stava bene così, calzava perfettamente la sua nuova vita, tanto che papà Robert era sicuro: «Non credevo sarebbe mai tornata a giocare a tennis». La (nuova) scintilla è scoccata per caso: Barty va ad assistere al torneo di Sydney perché gioca la sua amica ed ex compagna di doppio Casey Dellacqua, con cui aveva giocato (e perso) tre finali del Grand Slam prima del ritiro. Ash torna a impugnare la racchetta, fa qualche scambio e si rende conto di averne ancora. E parecchio pure. È qui che il seme dell’idea inizia a concimare ma, per vederlo sbocciare, occorre attendere qualche mese. Barty è tornata a competere solo sull’erba di Eastbourne, in un piccolo torneo dal montepremi modesto, 50mila dollari, ventuno mesi dopo quel primo turno allo US Open 2014 col quale si era congedata. L’australiana non godeva di alcun ranking, avrebbe potuto chiedere – e le sarebbe stato concesso – la classifica protetta, ma decise di non farlo perché, anche simbolicamente, voleva ripartire da zero. Paradossalmente, giocò anche poco nel resto del 2016, e infatti chiuse la stagione solo al numero 325 WTA ma con la certezza di essere tornata in pista.
LA (RI)CONSACRAZIONE. Nonostante il successo alla Porte d’Auteuil sia il risultato più prestigioso fin qui raggiunto da Ash, è da rintracciare nel 2017 la stagione più importante. È lì che l’australiana ha seminato quello che poi ha raccolto in seguito. Parte da numero 325, arriva al numero 17: un balzo mostruoso. Gioca tre finali, ne perde due, vince il primo titolo della carriera a Kuala Lumpur, batte gente come Muguruza, Kerber, Pliskova, Venus e Radwanska. Il resto è una discesa, quasi inevitabile: Barty si infila tra le pieghe di un tennis di vertice monotematico, diventa una realtà del circuito e, coi quarti di finale all’Australian Open e il successo a Miami, prende casa tra le top ten, fino al numero due conquistato dopo il trionfo parigino, con la vetta a un passo, un obiettivo che potrebbe raggiungere di pura inerzia. C’è evidentemente qualcosa di strano in Ashleigh Barty. Nel modo di essere e in quello di giocare a tennis: sembra un’entità differente rispetto all’isteria diffusa nel tennis femminile; lei è calma senza essere fredda, impassibile mantenendo una certa dolcezza. La sua storia è un disegno complesso in cui il tennis è parte integrante ma, vivaddio, non protagonista assoluto. In un contesto mediocre, è qualcosa a cui vale la pena aggrapparsi.