Cinquant’anni fa, si compiva la più straordinaria impresa nella storia del tennis: Rod Laver completava il secondo Grand Slam, dopo quello realizzato nel 1962. Giocatore senza reali debolezze, chissà quanti slam avrebbe vinto non fosse passato professionista…L’ultimo uomo del tennis sulla Luna fu, come potrebbe essere altrimenti, un razzo. «Rocket» era uno dei suoi nomignoli, come «Red», per richiamare il fulvo del capello liscio con scriminatura d’ordinanza. Sul passaporto figuravano un nome da cadetto, Rodney George Laver, e una pelle lentigginosa da giornate passate sotto il sole. Però, per tutti e grazie a quella sua maniera genuina di essere grande e accessibile, facendoti sentire a tuo agio come con il ragazzo della porta accanto – anche da più forte tennista del mondo – era semplicemente Rod. L’unico atleta, maschio o femmina, riuscito nello sforzo fisico e mentale ai limiti del verosimile di completare non già una, ma due volte il giro del globo della racchetta passando per i quattro capisaldi del nostro sport: Australia, Francia, Gran Bretagna, Stati Uniti d’America.
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Un’impresa mirabolante, proprio perché già riuscita nel 1962; e chissà, non avesse ceduto alle lusinghe del denaro offerto dal circuito pro, quanti altri tornei dello Slam quel Rod Laver di Rockhampton, terzo di quatto figli di un bovaro del Queensland, avrebbe vinto, prima che il tennis abbattesse il muro della ipocrita divisione tra (falsi) dilettanti e professionisti, facendosi finalmente Open. (Laver non poté partecipare a ventuno tornei dello Slam disputati tra il 1963 e il 1968).

Era il 1969. Il mondo si stava muovendo verso la modernità. I primi computer – meno potenti di un orologio al quarzo – avevano spedito Armstrong e compagnia nello spazio, aprendo la mente del pianeta verso un futuro che oggi ritroviamo, ahinoi, tecnologicamente avvitato su se stesso e ammorbato da revisionismi medievali. Rod Laver, per conto suo, era un tennista proiettato nel futuro: brandiva sì una vecchia Dunlop Maxply, perché i primi telai in metallo non promettevano granché e il legno manteneva ancora la sua maggioranza di favori, ma la muoveva con gesti ampiamente moderni: un dritto mancino con presa eastern e una bella dose di top spin; e quel rovescio, indifferentemente colpito nelle tre varianti piatto-slice-coperto che, per i tempi, era una chicca. Con un avambraccio da muratore appeso a un corpo esile, un polso da campionato del mondo di braccio di ferro e un tocco di palla eccezionale, era perfetto per dominare il gioco di quegli anni: compatto e potente, veloce e resistente, compassato eppure fortissimo di carattere. Singole eccellenze planetarie potevano superarlo, i rovesci di Ashe e Rosewall valevano dieci, il servizio di Newcombe schioccava più svelto del suo (ma non era mancino), la volata di rovescio di Roche non aveva probabilmente pari, Lew Hoad contava su un serve&volley da Paradiso – salvo quando esagerava col gin – ed Emmo Emerson nacque con un fisico pressoché sovrumano: ma lui, Rod Laver, aveva tutti nove in pagella. Ashe lo raccontava così: «Non è quello che tira più forte, forse non ha un colpo migliore di quelli di tutti gli altri. Ma come trova gli angoli lui, come si muove in campo, beh, nessuno». Vederlo giocare pareva una perenne dimostrazione della perfetta messa in pratica del tennis, nonostante la tensione e le paure: pur senza gli zeri dei bonifici contemporanei, ci si giocavano comunque montepremi, carriera e immortalità sportiva, ma lui sembrava sempre al parco per l’amichevole della domenica. Con la sua varietà unica, sapeva essere così freddo da giocare il colpo giusto al momento giusto e, fatto rarissimo per l’epoca, non aveva una sola debolezza.
La cavalcata del 1969 iniziò con i primi Open australiani della storia. Si giocavano sull’erba (sostituita dal cemento solo nel 1988) e il pubblico non abbondava, stanti gli anni di doppio tour pro-am che avevano levato interesse agli Slam. Al primo turno, Rod batté facilmente Mimì Di Domenico; passato indenne per Emerson e Fred Stolle, il momento Laver (più che un attimo fu un veglione) arrivò nella semifinale contro Roche. Il punteggio, così anacronistico – 7-5 22-20 9-11 1-6 6-3 – restituisce una vaga idea di una partita di più di quattro ore, giocata in una sorta di boiler, tale era quel giorno il centrale di Milton Courts, Brisbane. A lato del campo, per dare ristoro ai due che lottavano a quaranta gradi all’ombra, era stato sistemato un freezer con maxicubi di ghiaccio. Bud Collins riportò che entrambi avevano fatto ricorso a un espediente noto tra i contadini aussie: farsi degli impacchi di foglie di cavolo in testa e fasciare tutto con un berretto. A foglie bollite, cambio vegetazione. Era un altro mondo. Come il punto che fece girare irrimediabilmente la partita, fermando la rimonta di Roche: nel quinto set, un giudice di sedia giudicò buona una risposta sghemba (e soprattutto out, si nota pure adesso senza ricorso all’HD) di Laver, che valse il 15-40 sul 4-3. Decenni dopo, a Gianni Clerici, Rod avrebbe detto che quel punto l’avrebbe restituito ben volentieri, avesse visto con sicurezza il suo colpo atterrare fuori. Hawk-eye aveva da venire e qualcuno volle bene a Rod. Fine delle emozioni, comunque: la finale, mai in discussione contro Andres Gimeno, si risolse in tre set agili e cangurosi.
A Parigi, dove il tennis degli australiani si impantanava un po’, poteva bastare una giornata di campo pesante per avere guai. Rod Laver la incontrò presto, perché giocò al secondo turno contro Dick Crealy, un omone che sparava cannonate di servizio sgraziate e conosceva solo una maniera per giocare a tennis: tirare più forte dell’altro. Se però la palla stava dentro, c’era solo da scansarsi. Crealy scappò: 6-3, 9-7. Nel pantano, la sua palla viaggiava e quella di Laver si incagliava. Prima della pioggia strappò il terzo set, 6-2. Il giorno dopo si svegliò poco dopo l’alba, si fece scaldare dal compagno di doppio Roy Emerson e tornò in campo «davanti a quattro spettatori», disse, perché i parigini nei primi giorni di torneo si facevano aspettare. Tirava un vento bestiale, Laver pareggiò i conti 6-2, andò 3-1 al quinto ma l’altro recuperò. Sul 4-3 40-30, quando c’è da far vedere chi dei due era il fuoriclasse e chi lo scolaro forzuto, l’avversario di Laver si autodenunciò: volée di dritto a campo spalancato, Crealy tirò una vangata fuori e perse 6-4. E siccome i capi del torneo desideravano allineare il tabellone ai quarti di finale entro fine settimana, poco dopo pranzo gli toccò giocare anche il terzo turno, contro il nostro Pietro Marzano, ripassato in tre set. Il resto lo fecero lui e la sorte perché, come suole ripetere tuttora, «per vincere i tornei dello Slam non devi battere 127 giocatori ogni volta, ma vincere solo le tue sette partite». Quando seppe che Ken Rosewall aveva eliminato Roche nell’altra semifinale (la sua, contro l’olandese Tom Okker, si era risolta in quattro set) fece i salti di gioia: non perché Muro di rose fosse scarso sulla terra, anzi, ne era stato vittima l’anno prima, in finale, proprio qui. Ma i campi erano pesanti e Ken molto leggero, sicché Rod ebbe buon gioco a cambiare tattica: stavolta poco tennis brillante, poche sortite a rete, caricare di spin i colpi da fondo e tenere l’avversario, un peso ultraleggero, lontano dalla volée. «Sulla terra bisogna imparare a giocarci, la potenza del servizio conta meno, servono la forza delle gambe e la pazienza; vale più la precisione, della potenza. Ed è un terreno che ti permette di rimontare. Noialtri australiani lo conosciamo poco, ma per vincere qui devi avere l’atteggiamento giusto». Si chiama rispetto per lo sport. Quella domenica, tuttavia, non ci fu nulla da recuperare: 6-4 6-3 6-4 per quella che Rod definì, giustamente, la sua partita più bella di sempre sul rosso.
Wimbledon 1969 immortalò una partita ora superata dalla saga Isner-Mahut ma, per i tempi, pantagruelica: a 41 anni e in due giorni, Pancho Gonzales batté Charlie Pasarell giocando 112 game e salvando 7 match point. Rod Laver era tornato a casa, sui suoi prati, eppure anche quella volta dovette sfangarla nei turni preliminari: dopo il 6-1 6-2 6-2 a Pietrangeli, l’indiano Premjit Lall vinse il primo e il secondo set del loro match «e io mi sentivo come se stessi stringendo una padella arrugginita in mano, non una racchetta», avrebbe raccontato in una sua biografia curata da Collins. «Lall era un gentiluomo, universitario di Calcutta; giocava come un maestro ma non ci avevo mai perso, perché solitamente succedeva qualcosa durante le sue partite e non riusciva a sostenere a lungo un livello di gioco così alto. Quel giorno stavo aspettando che iniziasse a sbagliare, ma non capitava». Poi successe: 3 pari, 30 pari nel terzo, Lall spedì fuori – di pura fifa – uno smash comodo, forse per la prima volta pensò di poter battere il grande Rod Laver e chissà, di fare la storia ai Championships. Pagò quella suggestione nella maniera più atroce: da 6-3 6-4 3-3 Lall a 3-6 4-6 6-3 6-0 6-0 Laver. I guai non erano finiti, ma Wimbledon era davvero il giardino di casa per l’australiano, già campione nelle ultime tre edizioni disputate (1961, 1962, 1968): Stan Smith lo costrinse al quinto set nonostante un vantaggio di due set a zero e di un break; Arthur Ashe fece uno show dei suoi, 5-0 con una collezione di vincenti («Il miglior tennis mai visto», commentò Jack Kramer), poi 6-2 ma Laver resistette alla buriana, l’americano si incartò e cedette 6-0 al quarto set. Il momento Laver del torneo arrivò in finale, contro John Newcombe, che aveva tutto per metterlo in ambasce sull’erba: servizio, risposte molate dalla pratica del doppio con Roche (una delle coppie più forti della storia), volée, atletismo, coraggio. Però gli faceva difetto la magia di Laver, un sortilegio che si concentrò in un punto immortale. Nel pieno della lotta, un set pari e 4-2 Newcombe, 0-15, Rod arrivò in corsa su una volée bassa di dritto giocata splendidamente dall’avversario. Riuscì a tirare un passante stretto di rovescio su una palla così bassa che l’altro rimase a bocca aperta, immobile per cinque secondi, a tentare di farsi una ragione di quanto fosse appena accaduto. Nel cercare di spiegare quel colpo che distrusse l’ego di Newcombe e lanciò Laver verso il successo, Gianni Clerici avrebbe raccontato di gente che provava a calcolare la traiettoria del passante armata di bindella e goniometro, senza riuscire a darsene ragione.
Il nove settembre del 1969, di lunedì per via della pioggia, venne giocata la finale dello Us Open di Forest Hills (sull’erba, anche qui: tre delle quattro prove Slam si disputavano sul terreno che vide nascere questo sport, oggi lo immaginereste?). Neanche 4.000 persone assistettero alla partita più affannosa della carriera di Rod Laver: il film ufficiale del torneo, montato approssimativamente, non riesce a evitare che si notino carrellate sul pubblico usurpate dai giorni precedenti, perché il West Side Tennis era semivuoto. Le rare immagini della premiazione sono desolanti. Non esistevano Internet e i social, telecamere e giornalisti non soffocavano i campioni come oggi, eppure non crediate che mancasse l’angoscia per il risultato. Di quel possibile Grand Slam parlavano tutti: tranne la moglie di Laver, Mary Bensen, più vecchia di nove anni – Rod ne aveva 31 – e incinta al nono mese, che gli telefonò qualche giorno prima dell’inizio del torneo dalla sua casa californiana per dirgli che, se non fosse tornato a casa entro un giorno, poteva anche evitare di scomodarsi e restare lì dove era, a finire di giocarsi le finali di singolare e doppio. Laver riuscì a fare una visitina alla moglie prima di ripartire per New York ricacciando giù i sensi di colpa, dove Dennis Ralston – uno yankee forte ma sopraffatto dalle aspettative – lo costrinse a riprenderlo da un vantaggio di due set a uno negli ottavi di finale. L’umidità era soffocante, Rod superò Emerson nei quarti per un pelo, e poi in tre set il solito bello e perdente, Arthur Ashe, che si lamentò per il campo lento, le palle umide che diventavano gonfie e ingiocabili. Era tutto vero, solo che Laver giocava con ciò che c’era, e lo faceva quasi sempre meglio degli altri. Il giorno della finale, il centrale era disastroso: pieno di buche, scivoloso, giocare a tennis era un esercizio di equilibrio. Dopo un set, Laver chiese e ottenne di poter calzare le scarpe da atletica coi tacchetti, perché l’erba umida pareva la superficie di un palaghiaccio. Il suo avversario era ancora Tony Roche, uscito vincitore dallo scontro fratricida con Newcombe, 8-6 al quinto set. Roccia, alle prese con qualche contrattura muscolare, preferì tenere le scarpette da tennis; peraltro era l’unico uomo che potesse vantare un bilancio positivo contro Rocket nel 1969, tra match ufficiali ed esibizioni. Vinse anche il primo set 9-7, ebbe una palla break all’inizio del secondo, poi rastrellò la miseria di cinque game nei successivi tre set. «Non lo so, oggi Tony non ci ha provato fino in fondo, sembrava non riuscisse a concentrarsi». Rod aveva appena compiuto un’impresa tuttora ineguagliata nello sport, aveva toccato la Luna con la racchetta e parlava con la modestia dell’ultimo arrivato.
«No weaknesses», nessuna debolezza. Il giorno dopo il secondo Grand Slam di Laver, qualcuno cercò al telefono Don Budge, l’uomo che lo aveva completato per primo nel 1938, e spiegò così come Rod fosse diventato certamente il più forte di tutti; senza essere, forse, il migliore in nulla.