Da un lato l’Arabia Saudita compra a suon di dollari spazi nel tennis che conta, come dimostra il trasloco delle Next Gen Finals a Gedda, dall’altro i dubbi morali che riguardano l’abuso dei diritti umani

Il trasloco delle finali Next Gen delle Atp Finals da Milano a Gedda è il segnale finora più chiaro delle intenzioni dell’Arabia Saudita nel tennis. Il fatto che il montepremi del torneo che si giocherà a fine novembre (primo evento tennistico a livello professionistico mai disputato nel Paese) toccherà la cifra record di 2 milioni di dollari, contro 1,4 dell’anno scorso a Milano, è una prova che i sauditi fanno sul serio.

Il presidente dell’Atp, Andrea Gaudenzi, ricorda che il tour opera su scala globale e che per far crescere il tennis è necessario esplorare nuovi mercati. Lo stesso Gaudenzi aveva dato una prima avvisaglia due mesi fa, quando, in un’intervista al «Financial Times» aveva accennato a contatti con i sauditi.

Le recenti esperienze dell’Arabia in altri sport mostrano che il regno mediorientale è disposto a investire ingenti capitali, ma anche che alla fine vuole ottenere almeno una parte del controllo. Nel golf, i sauditi hanno iniziato con la creazione di un circuito alternativo ultraricco, ma minoritario, la Liv, per poi arrivare a una fusione con lo storico PGA Tour, con il quale inizialmente si erano scontrati: dopo la fusione, nella stanza dei bottoni del golf mondiale oggi si parla arabo. Forse è per evitare il bis di quella esperienza che il governo del tennis ha pensato di trovare un’altra strada. Nel calcio, l’Arabia è partita in sordina (acquisto del Newcastle, contratto a Cristiano Ronaldo) per aprire le porte quest’estate a uno tsunami di petrodollari, calcolato in circa 500 milioni di dollari, con acquisti di calciatori a destra e a manca a cifre con cui i club europei non possono competere. Prossimo obiettivo, ospitare i Mondiali del 2030.

Intanto, anche il circuito femminile, la Wta, ha avviato contatti con l’Arabia: su questi c’è un grosso punto interrogativo che riguarda il trattamento delle donne nel Paese, che solo recentemente hanno ottenuto il permesso di guidare e restano chiaramente discriminate in molti campi. Sui diritti umani, la Wta, che ha preso posizioni più «politiche» dell’Atp (vedi caso Peng Shuai in Cina), potrebbe incontrare resistenze al suo interno a un’apertura ai sauditi. Inoltre, ogni segno di discriminazione o un maggiore coinvolgimento dell’Arabia con l’Atp potrebbero mettere i bastoni fra le ruote all’auspicata fusione fra il circuito maschile e quello femminile.

Le principali obiezioni a uno sbarco su grande scala dei sauditi nel tennis sono quelle già emerse negli altri sport. La prima è che il regno usi lo «sportwashing» per ripulire l’immagine di un regime repressivo e che abusa i diritti umani. Tutto vero, ma un po’ ipocrita da parte dell’Occidente, che dopo tutto nel 2022 ha commerciato con l’Arabia per 140 miliardi di dollari. La seconda è che l’attore dominante sia uno Stato, per di più dalle risorse pressoché illimitate, e che esso possa in futuro soffocare ogni dissenso nel governo del tennis a suon di dollari.

In ogni caso, se non vi piace il tennis targato Saudi, potete sempre darvi al padel. Ah no, quello se l’è già comprato il Qatar.