Spietato in campo, ma anche molto ironico, Lendl ha dominato gli anni ’80, anticipando tante delle tendenze del tennis di oggi. I suoi ricordi della finale di Davis con l’Italia a Praga, i suoi giudizi sul gioco e i campioni del Terzo Millennio. E il racconto di come si è sempre dovuto arrendere al suo avversario più pericoloso. Che non era né McEnroe né Becker….
«Odio perdere, anche nel golf»
«Il golf», ha ammesso a fine 2019 Ivan Lendl, «mi dà quello che il tennis non mi può più dare. Sono stato addestrato a gareggiare per tutta la mia vita: non riuscirò mai a smettere». E pazienza se si tratta dei «torneini over 50, frequentati da vecchietti come me. Il giorno che accetterò di perdere sarò morto». Morale: se sei nato per sbranare, alla fine ti accontenti anche di un bocconcino.
il sette di marzo Ivan il Terribile, l’incubo di Connors e Borg, di McEnroe e Becker, ha compiuto 60 anni, e sentirlo ammettere che «quello che non mi fa dormire la notte sono i dolori all’anca», fa un po’ tenerezza. Perché di Lendl, il vero dominatore del tennis negli anni ’80 – per tornei vinti, confronti diretti, settimane da numero 1 – conserviamo l’immagine feroce dei tempi gloriosi, quando solo a nominarlo nei circoli si spostavano i quadri e si crepavano i cristalli.
«Ma io sono uno che la vita se l’è sempre goduta, e mi è sempre piaciuto un sacco scherzare», dice. Magari si tratta di un umorismo sottozero, un po’ stralunato – anzi «malato», secondo il suo ultimo pupillo Sascha Zverev – ma Ivan è sempre stato un battutista, oltre che un grande battitore. «Qualche anno fa organizzai una esibizione fra Federer e Sampras», racconta. «John commentava in tv e quando l’ho incontrato nei corridoi gli ho detto: ‘ho sempre saputo che avresti finito per lavorare per me’…».
«La mia bestia nera? Cristophe Freyss»
Anni fa in una intervista per La Stampa gli chiesi se considerava davvero McEnroe il suo più grande rivale.
«La mia vera bestia nera è stato un francese: Cristophe Freyss – mi rispose serio – Nel ’78 mi battè nelle qualificazioni a Firenze. Due settimane più tardi a Roma mi battè di nuovo. Lo ritrovai nel 1980 di Indianapolis, quando ero già n.6 del mondo. Giurai che mi sarei vendicato. Il match finì 6-3 6-0. Per lui».
Di Lendl, otto Slam vinti e due buchi dolorosi nella memoria in corrispondenza delle finali perse contro Cash e Becker a Wimbledon – la balena verde che lo ossessionava come un Achab con la racchetta al posto del rampone – curiosamente ci ricordiamo soprattutto le sconfitte. Quella leggendaria contro Chang, al Roland Garros del 1989, quando il diabolico Michelino lo fece uscire di cotenna servendogli da sotto – Nick Kyrgios non ha inventato nulla… – o quella jellatissima del Masters del 1988, cinque set di botte da orbi con Becker, decisi da un nastro beffardo. L’unica vittoria che tutti i fan ricordano è quella che nel 1984 impedì al suo rivale più classico, SuperMac, di prendersi almeno una volta il Roland Garros. Ma di solito se ne parla per recriminare sulle occasioni scialate dall’americano, mica per ricordare la sua tigna da fuoriclasse. «La verità è che neppure io mi ricordo molto di quella partita. John era avanti due set, ma dopo il secondo mi resi conto che vincere il terzo set avrebbe significato vincere il match. Sapevo che il fattore fisico avrebbe giocato a mio favore».
«Nadal fa tutto meglio di me, tranne….»
All’Italia contribuì invece scippare una finale di Davis a Praga, nel 1981, anche se i furti veri avvennero nel match fra Panatta e Smid. «Ero negli spogliatoi, non ho visto neppure il match…», svicola oggi quando provate a ricordarglielo. «Quello fra me e Barazzutti fu normale, nel doppio il pubblico fece un baccano d’inferno: in Italia sarebbe stato lo stesso. Adriano però fece una cosa che non dimenticherò mai: venne negli spogliatoi a complimentarsi per la vittoria. Un grande gesto. Dell’Italia ho tanti bei ricordi, purtroppo sono allergico ai pollini e giocare al Foro Italico a maggio era un incubo».
E’ stato tante cose, Lendl. Il primo a studiare una dieta rigorosa, in collaborazione con l’allora famoso dottor Haas – pasta, verdure, frutta e acqua – che lo aiutava a mantenere le energie (Djokovic, in fondo, non ha inventato nulla…), uno dei primi a investire sull’arte pensando al dopo-tennis. Un pioniere del tennis di oggi, impostato sulla potenza del diritto e del servizio, uno dei Cannibali pre-Nadal sulla terra. «Rafa fa tutto quello che facevo io, meglio di me. Tranne il servizio», ammette. E contro Federer cosa si sarebbe inventato? «Cosa farebbe uno sprinter degli anni ’80 contro Bolt? O Mark Spitz contro Michael Phelps? Prenderebbero quattro metri di distacco. Lo stesso vale per il tennis. Sono cambiati troppo condizioni e materiali. La mia preparazione di allora non sarebbe bastata». Su chi sa il Più Grande ha raggiunto una conclusone salomonica: «Ci ho rimuginato per due anni e alla fine ho concluso che non si può comparare il tennis Open a quello che c’era prima. Laver è il migliore dell’era pre-open, Federer quello dal 1968 a oggi. Cambierò idea se Federer farà il Grande Slam».
L’ossessione dell’Amerikano
Anche da allenatore, quando ha deciso di dare una mano a Murray a vincere i suoi tre Slam, lo ha fatto da guru, assiso in tribuna con la maschera da sfinge che sotto sotto ama prendere in giro il mondo. Il ragazzino spigoloso, che mamma Olga, buona tennista e sua prima maestra, nella grigissima Ostrava post Dubcek legava al paletto della rete, trasformatosi da grande nel più amerikano (con la k) degli americani dopo aver scelto l’Occidente nel 1981: «Sono nato in Cecoslovacchia, passavo per il cattivone comunista. Invece nessuno odia i comunisti più di me».
L’America e il tennis gli hanno dato tanto. Le case nel Connecticut e in Florida, la bellissima moglie Samantha. Quattro figlie di cui una più brava di lui a golf, la passione per i cani e i milioni in banca. Rimpianti, Ivan? «Ogni singola sconfitta». Ci sono ossessioni da cui davvero non si guarisce mai.