Il segreto che ha reso Daniil Medvedev un big è l’enorme lavoro svolto su se stesso. Si è fatto aiutare, è cresciuto e può puntare a sottrarre il numero uno a Djokovic: sfidandolo negli Slam e migliorando il rendimento sul rosso. E pazienza se ogni tanto ha ancora qualche atteggiamento sopra le righe
Da giocatore normale a fenomeno
Il risultato è di quelli che fanno rumore, a maggior ragione perché solo un paio di stagioni fa nessuno poteva pensare che il primo a scippare (dopo 16 anni!) il numero 2 del mondo ai soliti Fab Four sarebbe stato Daniil Medvedev. Era facile puntare su Thiem, Zverev, Tsitsipas o Shapovalov, molto più difficile andare all-in sul 25enne russo, saltato fuori un po’ dal nulla. Certo, è sempre stato nell’elenco delle promesse, ma il suo nome arrivava dopo Rublev e Khachanov in patria, e dopo tanti altri nel mondo. Invece oggi l’unico Next Gen che ce l’ha fatta è lui, diventato il modello da seguire grazie a un lunghissimo percorso di maturazione. Giusto esaltarne un gioco tutt’altro che fedele ai canoni tecnici, e per questo ancora più interessante (in barba a chi storce il naso: conta l’efficacia, non l’estetica), ma a tennis giocano bene in tanti, a certi livelli quasi tutti. Eppure serve a pochi. Dunque, il segreto che ha trasformato un giocatore normale – o così pareva – in un campione non è tecnico, ma è il grande lavoro svolto su sé stesso.
Prima di comprendere di avere qualcosa in più degli altri, Daniil non era affatto un maestro di professionalità, né in campo né fuori. Non badava troppo alla condizione atletica, non prestava attenzione all’alimentazione e se ne sbatteva di streaching, recupero, vasche di ghiaccio e altre abitudini dei colleghi. Fra i primi 100 ci è entrato più o meno così, fra i primi 50 anche, ma poi si è finalmente reso conto che intorno a lui lavoravano tutti in maniera diversa. Dopo una lunga serie di battaglie si è lasciato convincere da coach Gilles Cervara a impegnarsi sul serio anche dal punto di vista fisico, a rispettare la dieta e gli orari, e così facendo ha iniziato a sfruttare a pieno le qualità di un fisico fra i più resistenti del Tour. In più, ha trovato la chiave per tenere a freno quel carattere fumantino che oggi emerge solo di tanto in tanto, mentre una volta saltava fuori un match sì e l’altro pure, e gli è spesso costato tantissimo. Sia in termini prettamente economici (leggi multe), sia nel senso di partite gettate al vento e critiche ricevute.
Le “bravate” di Daniil
La lista degli episodi controversi è lunghissima: nel 2016, in un Challenger negli Stati Uniti, Medvedev venne squalificato per aver messo in dubbio per ragioni razziali l’imparzialità della giudice di sedia di colore, ipotizzandone dei favoritismi al suo avversario Donald Young. L’anno dopo, invece, lasciò Wimbledon lanciando delle monetine alla giudice di sedia Mariana Alves, dopo la sconfitta con Ruben Bemelmans. “Perché l’ho fatto? Boh. A volte non riesco a controllarmi. Stavo mettendo via le mie cose, ho visto il portafoglio e ho agito così”, disse a sua parziale discolpa, e fortuna che nessuno ci vide (o decise di non vederci) qualcosa di più grave, così se la cavò con soli 15.000 dollari di multa. Quell’episodio l’ha convinto a farsi seguire da uno psicologo, che l’ha aiutato a iniziare il percorso di maturazione, e da allora è andata un pochino meglio. Ma talvolta l’istinto continua a prevalere sulla ragione, come quando la scorsa estate gli ha suggerito che in fondo andare a 160 all’ora sull’autostrada francese non fosse un’idea poi così sbagliata, malgrado il limite di velocità fissato a 110. Risultato? Pizzicato dall’autovelox e patente ritirata.
“Medvedev? Non lo saluto più e non mi ci alleno più insieme”, ha detto invece di lui Diego Schwartzman, a causa di qualche parola di troppo volata durante un confronto molto acceso all’ATP Cup dello scorso anno. Qualcosa di simile era successo anche due anni prima a Miami, quando il russo arrivò quasi alle mani con Stefanos Tsitsipas dopo una sfida di toilet break tattici, dicendogli di smetterla di fingersi un bravo ragazzo. Impossibile dimenticare, poi, la querelle del 2019 col pubblico di New York: hanno iniziato a fischiarlo al terzo turno per aver strappato con violenza l’asciugamano dalle mani di un raccattapalle, e lui si è calato alla perfezione nel ruolo del cattivo, trasformando l’ostilità del pubblico in energia positiva fino a rischiare il colpaccio in finale con Nadal. Più recenti le discussioni campo-tribuna col coach: all’ultimo Australian Open, nel nervosismo di un match faticoso contro Krajinovic, l’ha cacciato via lui, chiedendogli di essere lasciato solo; mentre dodici mesi prima a Marsiglia era stato Cervara ad andarsene di sua spontanea volontà, stanco dell’atteggiamento del suo assistito. Episodi via via sempre meno gravi, ma che fanno comunque notizia perché il pubblico del tennis non ci è più abituato.
Un genio che può puntare al numero 1
Secondo coach Cervara, Medvedev è “una sorta di genio, di quelli che a volte non riesci proprio a capire”. Un po’ come certi artisti: vanno accettati come sono, senza farsi troppe domande. Non tutto ha una spiegazione, come non ce l’hanno tanti dei comportamenti di Medvedev: uno che vince le ATP Finals, si prende i complimenti di mezzo mondo (Putin compreso) ma non esulta. O meglio, esulta non esultando, per essere diverso dagli altri in tutto e per tutto, non solo per il suo tennis non convenzionale. “Non ho proprio idea del perché quando gioco a tennis si manifestino certi demoni”, ha detto il diretto interessato, ma va bene così. Dopo una generazione di tennisti chierichetti, mai mezza volta sopra le righe e tanto rispettosi da diventare noiosi, ecco finalmente un po’ di pepe, che promette di agitare un tennis di vertice diventato eccessivamente schiavo del politicamente corretto. Giusto rispettare l’avversario e i valori dello sport, ma oggi l’unico obiettivo dei big sembra quello di non scontentare mai nessuno, e ha un po’ stancato.
Medvedev è la persona giusta per provare a rompere le regole: tecnicamente, ma soprattutto coi suoi atteggiamenti e quell’aria un po’ menefreghista alla Safin, non a caso suo modello d’infanzia. Ora, completata la rincorsa alla seconda piazza del ranking, lo step successivo si chiama numero uno, quello che da anni chiunque non si chiami Djokovic, Nadal, Federer o Murray non osa nemmeno nominare. Può e deve farlo lui, perché i poco più di 2.000 punti che lo separano da “Nole” sono tanti ma non tantissimi, e oltre al livello di gioco Medvedev ha la continuità per provare l’assalto alla vetta. Le strade per farcela sembrano due: la prima e più immediata, anche se più difficile, è quella di vincere almeno uno Slam, che per Daniil deve diventare il prossimo obiettivo a breve termine, magari a New York. La seconda, invece, è quella di migliorare sulla terra, vero limite di Medvedev. Dei suoi 9.940 punti ATP, solo 690 sono arrivati sul rosso, contro i 3.400 di Djokovic. Volendo ridurre la questione ai soli numeri, oggi la differenza è tutta lì.