Smessi i panni da giocatore, Sergio Tacchini si inventò un marchio, che porta il suo nome, vestì i giocatori più forti e carismatici e divenne un’icona per il mondo del tennis e non solo. A settembre ha compiuto 85 anni e ha voluto condividere con noi aneddoti, racconti e opinioni di una vita spesa sul campo
La prima finale Davis dell’Italia
La villa sul Lago Maggiore ha una vista da urlo, che rinfresca lo sguardo nell’afa estiva. E ovviamente ospita un campo da tennis. «Gioco tutte le settimane, un’oretta con il mio amico Giorgio Alemanni. Ma solo in singolare: in doppio, o trovi quattro allo stesso livello, o ti annoi». E nel tennis è molto difficile trovare qualcuno al livello di Sergio Tacchini: 85 anni compiuti a settembre, fisico in grande forma, sguardo penetrante come ai tempi in cui metteva sotto contratto McEnroe e Sampras e vestiva mezzo mondo. Un nome, un marchio, una storia di successo passata dai campi da tennis all’imprenditoria.
Partiamo dal Tacchini tennista, che i giovani conoscono meno…
«La fermo subito. Quando Matteo Berrettini è arrivato in finale a Wimbledon gli ho mandato un messaggio di congratulazioni, e lui mi ha risposto che, dette da me, certe cose lo rendevano orgoglioso».
Comprensibile: in Davis nel 1960 lei ha fatto parte con Sirola e Pietrangeli della prima squadra azzurra che arrivò alla finale di Coppa Davis.
«Nel ’60 per il Challenge Round a Perth ci trovammo di fronte Laver, Fraser, Emerson e Stolle: non male. Pancho Gonzalez, che odiava gli australiani, giocava un torneo laggiù. Ci disse: «sono a vostra disposizione per allenarvi». Ma gli avversari di Nicola e Orlando erano mancini, e l’offerta fu declinata. ‘Allora – disse Gonzalez – mi allenerò con Tacchini’».
Gonzalez, un mito del tennis.
«Un tennista completo, e un vero duro. Un anno a Los Angeles mentre era fermo a un semaforo un tipo gli puntò un coltello alla gola. ‘Conto fino a tre – gli disse Pancho – se al tre non lo hai tolto, ti ammazzo’. Lo tolse».
Anche lei non scherzava: nel 1961 a Napoli durante un doppio mise ko Pato Alvarez.
«Ma avevo ragione. Eravamo io e il francese Barclay contro Pato e McMillan. Lui servì quando Barclay non era pronto, ma pretendeva il punto: ‘Siete tutti dei ladroni!’. Sbagliando, gli dissi che ci saremo visti dopo la partita. Mi voleva colpire con la racchetta, gli tirai un cazzottone e andò giù come una pera. Mi scontrai anche con Hewitt, a Monaco di Baviera. Oggi per fortuna c’è l’Atp che gestisce tutto».
Pietrangeli, Sirola, Gardini, Merlo e lei: una grande generazione.
«Non ero un campionissimo come Nicola, ma nel 1966 una classifica di World Tennis mi piazzò al quindicesimo posto mondiale. Un buon giocatore medio…».
Anche qualcosa di più. Come erano i rapporti fra di voi?
«Con Nicola di grande rispetto. Anche con Merlo, che veniva bullizzato da Gardini, il rapporto era ottimo. Non andavo invece d’accordo con Sirola»
La nuova Davis le piace?
«E’ una schifezza. Non è più la Davis. Se hai due buoni singolaristi ma nessun doppista non vai da nessuna parte».
E’ ora di giocare al meglio dei tre set anche negli Slam?
«Il tennis vero è tre su cinque, perchè consente di recuperare ai più forti. Ma persino io, che non mi perdo una partita, mi trovo a pensare ‘che noia se si va al quinto’… A Forest Hills col brasiliano Barnes giocammo oltre sei ore, un record, iniziammo alle due con un caldo atroce e finimmo alle otto con il pullover: non è logico. E cinque ore davanti alla tv sono troppe».
Il rifiuto di Panatta. Poi Navratilova, Sabatini e Sampras
Passiamo al Tacchini imprenditore: è vero che Panatta rifiutò una sua offerta da 100 milioni? Adriano ha ammesso di non aver mai avuto feeling con lei.
«E’ una balla. Io trattavo con il suo agente della Img, probabilmente fu lui a dirgli così per alzare il prezzo con la Fila. Che infatti gli propose una cifra che io non ero disposto a sborsare. Sul feeling non so. E’ vero però che mi trovavo meglio con Barazzutti».
Ora tocca a Sinner, Berrettini & Co…
«Come gruppo ha un potenziale superiore agli altri. E’ compatto. Le rivalità ci sono sempre, è normale, ma ai tempi di Panatta la squadra era spaccata in due, questo è più omogeneo».
Chi metterebbe sotto contratto tra Berrettini e Sinner?
«Sotto il profilo personale preferisco Berrettini. Sinner è un altoatesino, con le caratteristiche dei montanari: ed è positivo, specie nel tennis. La scelta di cambiare allenatore ad esempio è stata coraggiosa, e sta funzionando. E’ destinato a diventare un grande giocatore».
Alcaraz le piace?
«A volte lo guardi e pensi: questo ammazza il tennis. Ma non è così. Perde partite che Nadal non avrebbe perso. Ha la fortuna di avere al suo fianco Ferrero, uno solido, tosto, per me di gran lunga il miglior coach in circolazione. Lo dico perché è stato un mio giocatore e lo conosco bene».
A proposito: c’è stato un periodo in cui tutti i primi dieci tennisti del mondo vestivano italiano, e lei ne ‘griffava’ ben quattro. Quale fu il segreto di quel boom?
«Tutti hanno seguito quello che facevamo noi. Abbiamo portato il colore nel tennis e inventato le sponsorizzazioni. Sceglievamo i giocatori in base a certe caratteristiche: dovevano essere forti ma anche capaci di catturare la fantasia del pubblico. Nastase, McEnroe, talento e insieme carattere».
L’eccezione è stata Sampras.
«A lui bastava la classe. Anche fuori dal campo: una sera a Milano per un nostro evento mi fece telefonare per sapere se doveva vestirsi in maniera formale o informale. Un ragazzo d’oro».
E’ vero che a consigliarglielo fu Gianni Clerici?
«Sì, a Parigi mi disse di andarlo a vedere, perché sarebbe diventato un fenomeno».
E poi Navratilova, Ivanisevic, Sabatini…
«La Navratilova una grande campionessa, Gabriela meno vincente ma più personaggio».
Non solo tennisti: Reutemann e Senna in F.1, Girardelli nello sci, la nazionale italiana di basket campione d’Europa.
«Lo sci mi è sempre piaciuto, come Sinner anch’io da giovane ero classificato. Ho fatto sci estremo, credo di aver girato tutte le piste possibili della Val D’Aosta. Il nostro riferimento era il tennis, ma volevamo ampliare il mercato quindi servivano sponsorizzazioni diverse. Girardelli ancora mi manda gli auguri, di Senna invece Reuteman mi disse: ‘quando ce l’ho dietro mi agito, perché non so mai da che parte mi attaccherà».
L’amicizia con John McEnroe
Poi nel tennis sono sbarcati gli americani…
«Venivano da un mercato molto ampio, erano fortissimi nell’atletica, i migliori nelle calzature. Avevano mezzi che noi neanche ci sognavamo, in più puntavano su un mercato di massa, mentre noi in fondo producevamo qualità per una elite».
Anche Djokovic ha vestito Tacchini.
«Come giocatore, non si discute, giù il cappello. Non mi piace però il suo carattere, lo trovo esagerato quando dopo una vittoria mima di buttare il cuore verso il pubblico».
L’atleta che ha amato di più?
«McEnroe. Anche perché ci faceva vendere un sacco di magliette. Ti aiutava anche nella pianificazione: sapevamo che la sua linea vendeva da 800 mila a un milione di pezzi, e quale dei colori andava di più. Ma anche con Nastase eravamo amiconi, una risata continua. Quando dovevamo discutere il contratto Tiriac diceva: ‘a trattare con Tacchini ci vado io, perché è più furbo di te».
Con McEnroe come andò?
«Suo padre era un ottimo avvocato. A Parigi mi ero fatto promettere che quando John fosse passato professionista gli avrei fatto la prima offerta, poi avrebbe deciso lui. Ci trovammo a cena a Londra, discutemmo a lungo, trovammo l’accordo. John doveva arrivare la mattina dopo da New York molto presto, il padre mi disse ‘inutile dormire poche ore, ci facciamo un altro whisky?’ Alla fine furono quattro o cinque. Uscito dal terminal John mi interrogò con lo sguardo, quando gli feci cenno che era okay sorrise. Per anni con la mia famiglia ho passato il Capodanno da loro».
Chi è stato il più grande di sempre?
«E’ vietato dire: ‘ai miei tempi si giocava meglio’. Però Laver ha fatto due volte il Grand Slam e ha dominato la sua epoca. Poteva giocare su un campo di ping pong, erba, terra o cemento per lui non faceva differenza. Ad Amburgo ci persi 7-5 al quinto. Sul 5 pari del quinto fece un gesto con la racchetta: era il segnale di quando si concentrava al massimo. Poi mi tirò una mina di rovescio. Cinque minuti ed ero negli spogliatoi».
E’ vero che avrebbe potuto fare il presidente della Fit?
«Me lo propose una sera all’Harbour Giorgio Messina. Ma avrebbero detto che lo facevo per interesse, così lasciai perdere. Poi è arrivato Binaghi che secondo me ha fatto bene, ha risanato i conti e sviluppato l’attività».
Chi è stata la persona più importante della sua vita?
«Senza dubbio mia moglie (Pierrette Seghers, ex tennista, ndr). Mi ha fatto da guida, ha sempre partecipato alla mia attività. E mi ha tenuto calmo quando volavo troppo alto».
Il tennis che cosa è stato per lei?
«La mia vita, e lo è ancora».
Se potesse esprimere un desiderio?
«Rifarei tutto quello che ho fatto».