Il ko di Federer contro Andujar a Ginevra ha rievocato alcun sconfitte storiche del passato: Sampras contro Bastl a Wimbledon, Borg contro Arrese a Monte Carlo, Agassi contro Benjamin Becker allo Us Open. Episodi che hanno sbattuto l’evidenza in faccia ai campioni, obbligandoli ad accettare le difficoltà figlie dell’età che avanza
Bastl, il rimorso di Sampras
Contro Roger Federer, il buon Pablo Andujar si sarebbe accontentato anche di una sconfitta. L’importante – parole sue – era completare la sua raccolta di sfide coi big three, così da poterle un giorno raccontare a figli e nipoti. È finita che, complice il Federer del momento, il 35enne castigliano potrà addirittura parlare di una vittoria con l’atleta simbolo della storia del suo sport. Per lui è stato – di gran lunga – il successo più prezioso di un’onestissima carriera da quattro titoli ATP e sei milioni di prize money; per Federer un nuovo campanello di allarme in ottica futura, tanto che il match di Ginevra ha rievocato alcuni dei successi simbolici del passato, quando i campioni sono andati al tappeto contro avversari che un tempo avrebbero divorato, sbattendo contro un’evidenza sempre più difficile da ignorare.
Uno degli episodi più famosi tocca la Svizzera, non di Federer ma di George Bastl, l’ultimo ad aver battuto Pete Sampras sui prati di Wimbledon, dove lo statunitense aveva collezionato sette titoli nelle nove edizioni precedenti. Nel 2001 perse con Federer, e il futuro ha detto che ci poteva stare eccome, mentre l’anno dopo cadde al secondo turno per mano dell’allora 27enne svizzero del Canton Vaud, numero 145 del mondo e lucky loser, dopo la sconfitta nelle qualificazioni. Era stato al massimo n.71 ATP, e negli Slam aveva alle spalle giusto partite vinte in carriera, ma il 26 giugno del 2002 diede un importante contributo alla fama di “Cimitero dei Campioni” del vecchio Campo 2 dell’All England Club. In precedenza aveva portato sfortuna a una lunga serie di giganti, su tutti come McEnroe, Connors e Agassi, e quel giorno fu Sampras a toccare con mano le difficoltà degli anni che passano, fino a decidere di dire basta di lì a poco, col titolo allo Us Open come modo perfetto per dire addio da signore.
Nell’unico match di cinque set giocato in carriera, Bastl la spuntò per 6-3 6-2 4-6 3-6 6-4, dopo 3 ore e 13 minuti, mostrando un’incredibile tranquillità quando Sampras gli recuperò due set di svantaggio, obbligandolo a fare tutto da capo. Ci riuscì, arrivò a match-point e si buttò a rete su uno slice traballante, vedendo il suo coraggio (misto a scelleratezza) ripagato dal dritto steccato di Pistol Pete che gli regalò il suo quarto d’ora di celebrità. Durato il giusto, visto che al turno successivo fu piallato 6-2 6-2 6-2 da David Nalbandian, ma che gli ha consegnato una fama che non l’ha mai abbandonato, nemmeno quando a fine carriera si aggirava per i tornei minori con un look alla Chuck Noland, il naufrago protagonista del film Cast Away. Quella sconfitta se la ricorda più che bene pure Sampras, che nel 2017, in un’intervista con L’Equipe lasciò intendere di non averla ancora digerita, definendola il punto più basso della sua intera carriera.
Addii alla svedese
Un’altra sconfitta passata alla storia ha come protagonisti Bjorn Borg e Jordi Arrese, oggi ricordato soprattutto per la medaglia d’argento vinta a sorpresa ai Giochi Olimpici di Barcellona ’92. Prima, era invece noto ai più per essere stato il giustiziere del campione svedese nel ’91 a Monte Carlo, dove Borg tentò un improbabile ritorno nel Tour a quasi sette anni dal ritiro del 1984. L’idea di rivederlo sui campi più importanti del mondo generò un enorme attesa, anche perché l’ex numero uno del mondo si convinse di provare a competere con la sua vecchia Donnay in legno, molto pesante e con un piatto corde piccolissimo. Il problema (anzi, uno dei problemi) era che nel frattempo quel circuito che aveva abbandonato ad appena 28 anni si era evoluto un sacco anche nei materiali, con l’arrivo di racchette in grafite e dagli ovali molto più ampi. Un dettaglio che diede un’ulteriore aiuto ad Arrese, che quel giorno vinse 6-2 6-3 senza particolari difficoltà. Borg si accorse di non essere più all’altezza, ma non si diede per vinto. Si allenò un anno intero (con una racchetta al passo coi tempi) e tornò giocando alcuni tornei fra ’92 e ’93, ma dopo aver raccolto una dozzina di sconfitte al primo turno capì – finalmente – che non era più il caso di provarci.
Se quello di Borg del biennio 92-93 era un ritorno, quello di Stefan Edberg nel 1996 era un Tour d’addio, programmato in anticipo e con la data di scadenza fissata a fine stagione. Di partite che un tempo avrebbe vinto a mani basse ne perse tante, e l’ultima nel Tour – prima dell’addio col veloce ko contro Cedric Pioline nella finale di Davis persa contro la Francia – fu a Stoccolma contro il connazionale Niklas Kulti, al tempo numero 71 del mondo. Uno che da ragazzino strappava contratti ricchissimi e gi godeva la nomea di futuro Borg, ma poi ha avuto una carriera ben diversa (best ranking al numero 32, tre titoli ATP) e quelli come Edberg li vedeva col binocolo. Eppure, quel giorno alla mitica Royal Tennis Hall, dove Edberg aveva giocando quattro finali vincendone un paio, fra i due il campione sembrò lui, che vinse per 7-6 6-3 e rovinò l’addio al pubblico di casa del suo più illustre connazionale, legittimandone la scelta di dire basta.
Benjamin, il tennista che uccise Bambi
Impossibile, infine, non citare la più famosa di tutte, la vittoria di Benjamin Becker su Andre Agassi allo Us Open del 2006, nell’ultimo incontro del Kid di Las Vegas. Era già previsto da settimane che Agassi avrebbe detto basta dopo la passerella a Flushing Meadows, ma diventò simbolico il nome di chi lo sconfisse, sia per quel B. Becker stampato sui tabelloni (praticamente l’unico accenno al match fatto da Agassi nella sua autobiografia-capolavoro Open), sia perché il tedesco era praticamente sconosciuto e giocava soltanto il suo secondo Slam in carriera. Aveva iniziato a fare il professionista solo nell’estate del 2005, dopo 4 anni di college in Texas, e dodici mesi dopo, da qualificato numero 112 del mondo, si trovò catapultato sul Centrale dello Us Open davanti a 20.000 persone, protagonista di uno dei match passati alla storia.
Agassi si trascinava in campo dopo il miracolo di due giorni prima contro Marcos Baghdatis, al tempo numero 8 del mondo, battuto 7-5 a quinto set in un match illogico, con entrambi in preda ai crampi. Aveva praticamente la schiena bloccata, ma a ogni palla corta Becker si beccava i fischi di uno stadio pieno, così decise di non inferire troppo e venne fuori una partita, che il tedesco vinse per 7-5 6-7 6-4 7-5. Chiuse con un ace, poi diventò anche lui spettatore dell’infinita standing ovation tributata ad Agassi in lacrime, in un’atmosfera da brividi, trovandosi in un ruolo del quale avrebbe fatto volentieri a meno. Qualcuno gli ha affibbiato il soprannome di “becchino” (anche perché quattro anni dopo a Madrid ha chiuso anche la carriera di Carlos Moya), il sempre brillante Andy Roddick – che lo eliminò agli ottavi – lo definì “il ragazzo che ha ucciso Bambi”, e a distanza di 15 anni Becker è ricordato solo e soltanto per quello.
“Dopo la vittoria – disse il tedesco – volevo soltanto allontanarmi e lasciargli il palcoscenico: mi sentivo uno spettatore come gli altri, ma allo stesso tempo era come se fossi fuori luogo”. Un episodio che l’ha segnato a tal punto che, dopo aver vissuto un’ottima carriera col best ranking al numero 35, Becker il suo ritiro l’ha voluto in silenzio, senza dire nulla a nessuno. Non avrebbe trovato uno stadio pieno ad attenderlo, ma l’addio non si sarebbe nemmeno scoperto se nel 2017 a Wimbledon, dopo la sconfitta al secondo turno contro Illya Marchenko, un cronista non gli avesse chiesto quali fossero i suoi programmi per le settimane successive. “Nessun programma, questo è stato il mio ultimo torneo”, rispose, salutando in sordina a undici anni dal suo momento di gloria. Pablo Andujar non sarà il Becker di Federer, visto che Roger andrà avanti un altro po’, ma può essere uno dei Bastl. A meno di un improbabile addio alla Sampras, prima o poi toccherà pure al campione svizzero stringere la mano al suo ultimo giustiziere.