Naomi Osaka annuncia il silenzio stampa e chiede l’abolizione dell’obbligo di parlare dopo gli incontri, perché da parte dei giornalisti non ci sarebbe rispetto per la salute mentale dei tennisti. Ma la colpa del rapporto complesso è anche loro, delle frasi fatte e di un clima che non favorisce la creatività. Naomi dimentica che se oggi è un’icona globale è anche grazie alla spinta della stampa

“Non c’è rispetto della nostra salute mentale”

Per la prima volta nella storia Novak Djokovic, Rafael Nadal e Roger Federer sono stati sorteggiati nella stessa metà di tabellone in un torneo del Grande Slam, ma a tenere banco alla vigilia del Roland Garros 2021 è soprattutto la presa di posizione di Naomi Osaka, che durante il torneo parigino non parlerà con la stampa. La giapponese, numero 2 del ranking WTA, ha deciso di puntare il dito contro la regola che impone ai top player (ma anche agli altri, se richiesti) di parlare in conferenza stampa dopo ogni partita, pena una sanzione pecuniaria in caso di mancata presenza. A detta di Naomi, spesso i giornalisti non hanno rispetto per la salute mentale di giocatori, i quali si trovano costretti a rispondere sempre alle stesse domande o a dover parlare quando ne farebbero volentieri a meno. Pertanto, data la volontà di evitare che certe domande possano instillare dei dubbi nella sua mente, ha optato per un silenzio stampa senza precedenti nel mondo della racchetta. Lo utilizzerà anche a fin di bene, visto che ha chiesto che i soldi delle sue multe vengano devoluti in beneficienza (ma questo spetterà a WTA e ITF), ma la decisione fa rumore e accende i riflettori su un rapporto fra giocatori e giornalisti diventato sempre più delicato.

È comprensibile che i protagonisti non siano più facilmente avvicinabili come un tempo, ma la struttura delle conferenze stampa non agevola la qualità, perché sono esageratamente sbilanciate a favore dei giocatori. Scelgono loro l’orario, fregandosene – col benestare dei responsabili della comunicazione di ATP e WTA – delle esigenze di chi sta dall’altra parte, raramente rispettano gli appuntamenti (come se il mondo intero dovesse stare ai loro comodi) e buona parte di loro si presenta davanti ai giornalisti con l’aria di chi sta varcando il cancello del carcere, e andrebbe volentieri da tutt’altra parte. Come se non bastasse, nel nome di quel politically correct che ha inquinato il mondo più della plastica, i giocatori parlano per frasi fatte e dribblano gli argomenti più delicati, finendo (loro sì) per ripetere sempre le stesse cose. A qualsiasi domanda un tantino più pensata, o che prova a spostare l’attenzione su qualche tema diverso da una palla-break, un avversario battuto o uno da battere, la risposta è sistematicamente banale per tranciare il discorso. Inevitabile che alla lunga la qualità delle domande si appiattisca, fino a scomparire.

I perché delle multe e delle domande ripetute

I giocatori ricevono un’istruzione su come comportarsi nei confronti dei media, ma evidentemente non vengono educati sulle potenziali esigenze della platea che si trovano di fronte, per buona parte diversa da torneo a torneo, e molto più variegata di quanto (evidentemente) credano. I bisogni di chi scrive per un quotidiano generalista sono diversi da quelli di chi lo fa per un quotidiano sportivo, di chi lo fa per un’agenzia di stampa, un sito specializzato, il quotidiano locale di turno e via dicendo. E ciò che ieri per una testata non aveva alcuna importanza, oggi può averne eccome, ragion per cui può capitare che la stessa domanda venga posta prima a Indian Wells, poi a Roma e poi ancora a Shanghai. O anche a distanza di sole 24 ore. Potrà dare fastidio a chi risponde, ma – come hanno precisato da Parigi sia la numero uno del mondo Ashleigh Barty sia la campionessa in carica Iga Swiatek – fa parte del gioco. “Senza la stampa – ha detto invece Rafael Nadal – non saremmo gli atleti che siamo”. Per carità, i giornalisti non sono dei santi e talvolta potrebbero stare più attenti, ma le conferenze stampa esistono perché chi guarda possa porre delle domande, e (grazie a Dio) non spetta ai giocatori decidere quali. A loro è solo chiesto di spendere dieci minuti della loro giornata, possibilmente con rispetto e professionalità.

In vent’anni di carriera, quante volte sarà capitato a Roger Federer di rispondere alle medesime domande? Centinaia. Eppure l’ha fatto sempre con la stessa identica attenzione, argomentando ogni volta come se fosse la prima. Qualche volta avrebbe voluto farne a meno? Senza dubbio, ma ha provato comunque a fare la sua parte per aiutare il lavoro (sì, è pur sempre lavoro) di chi si trovava di fronte in quel momento. Dopotutto, per un giornalista fare bene il proprio mestiere significa anche – o soprattutto – fare la domanda scomoda quando necessario, a costo di beccarsi un’occhiataccia o anche peggio. Magari l’obbligo delle conferenze stampa potrebbe essere allentato un po’, ma l’imposizione e la conseguente multa esistono perché altrimenti i giocatori davanti ai giornalisti non si presenterebbero mai. O forse giusto qualche volta in caso di vittoria, perché far parlare bene di sé piace a tutti, ma di certo non in caso di sconfitta. Come se la cronaca dovesse limitarsi a celebrarne i successi, nascondendo gli insuccessi.

I giornalisti hanno aiutato la popolarità della Osaka

Se oggi Naomi Osaka è una delle sportive più popolari al mondo, lo deve certamente ai suoi risultati con la racchetta, ma anche a tutti quei media che sposando il suo impegno sociale l’hanno aiutata a costruire una fama che oggi le permette di veicolare dei messaggi con la sola presenza, o con le sette mascherine diverse indossate nella cavalcata vincendo dello scorso Us Open, con stampati i nomi di altrettanti neri americani vittime della violenza della polizia. Quei giornalisti che a volte le ripetono le stesse domande sono esattamente gli stessi che nelle ultime stagioni hanno dato risonanza alle sue battaglie, parlando (e facendo parlare) dei temi a lei più cari. Come? Anche grazie alle domande che le sono state poste durante le conferenze stampa, agganci per fare le sue preziosissime considerazioni su razzismo, violenze, diritti umani e tanti altri temi. Pertanto, non è elegante ricordarsi dei giornalisti solo quando fa comodo.

Volendo, una soluzione per evitare che vengano ripetute sempre le stesse domande, e anche che vengano poste con meno rischi di turbare la salute mentale dei giocatori, sarebbe quella di ridurre le conferenze stampa a favore di un maggior numero di interviste one to one. Così che il giornalista, seppur in un tempo limitatissimo e sempre con qualche orecchio in più rispetto ai due di chi ha di fronte, possa avere un approccio più soft, parlando a quattr’occhi col giocatore, ascoltandolo, confrontandosi con lui e ricevendo (forse) delle risposte un tantino più esaustive. Non c’è un solo giornalista al mondo che sarebbe contrario, ma lo sarebbero i giocatori. Sono i primi a rifiutare le one to one, non concedendole praticamente mai (la richiesta deve passare tramite ATP o WTA, quindi dai manager e da chissà quante altre teste) a meno che non vengano loro imposte da obblighi commerciali, nei confronti di quegli sponsor che li riempiono di soldi. Oggi, il solo modo per parlare con loro in un clima più disteso è quello, ma che debbano essere i soldi a regolare la possibilità di fare un’intervista non è il massimo della vita. Per tutto il resto ci sono le conferenze stampa: noiose, ripetitive, ma inevitabili. E da svolgere con professionalità da entrambe le parti.