Può un ragazzo di 19 anni sbagliare? Rientra fra i suoi diritti?
Può darsi che, come dicono tutti, Jannik Sinner abbia sbagliato a rinunciare alle Olimpiadi. Forse non ha riflettuto abbastanza, forse è stato consigliato male. Forse è stato un momento di debolezza. O forse no.
Se io fossi investito del ruolo di difensore del ragazzo davanti all’immensa platea del “common sense”, del senso comune, qualche carta da giocare ce l’avrei. Nella memorabile sequenza finale de “Il verdetto”, Paul Newman nel ruolo di un avvocato ormai disilluso chiamato a difendere un suo cliente su cui si riversano molti, troppi indizi di colpevolezza, davanti alla giuria popolare attacca così. “Noi per lo più nella vita ci sentiamo smarriti. Siamo insicuri. Siamo deboli. Ci appigliamo a qualcosa, a qualcuno, per vincere le nostre incertezze, per risolvere i nostri dubbi. Diciamo: ti prego Dio, dimmi che cosa è giusto, dimmi che cosa è vero. E scopriamo che non esiste l’assoluta giustizia, ma solo il nostro timido tentativo di afferrarla. Per questo ci sentiamo poveri e impotenti. Ci sentiamo abbattuti, stanchi di chi ci dice “fai questo, anzi no fai quello”, stanchi di sentire le menzogne della gente, le accuse gratuite, i giudizi affrettati… E allora, se dobbiamo avere fiducia nel giusto, dobbiamo prima di tutto credere in noi stessi. Perché solo in noi, nel nostro intimo, c’è tutto. E lì vive la nostra libertà di decidere”.
Sarebbe un buon attacco? La domanda è: può un ragazzo di 19 anni sbagliare? Rientra fra i suoi diritti? E, se la responsabilità è tutta sua, non è stata forse aiutata da un sistema sbagliato, gonfiato, quello stesso sistema che fino a un mese fa parlava di Sinner come di un campione, di un “nuovo fenomeno” e oggi, dopo tre sconfitte, titola a quattro colonne “delusione Sinner”. Bisogna essere forti per sopportare tutto questo, si chiama pressione ma nel caso di Jannik è molto di più. Io lo difendo. E’ un problema essere fragili alla sua età? La fama fa diversi. Crea una voragine fra la gloria e tutti gli altri, i “normali”.
Chissà se Jannik conosce un racconto di Melville, l’autore di Moby Dick. S’intitola Bartleby lo scrivano. Uno strano personaggio, uno scritturale, pronuncia una frase che nel corso del romanzo diventa proverbiale : “Preferirei di no”.
Ecco cosa può aver pensato sotto il cielo di Bordighera, o di San Candido, il nostro campione in pectore : preferisco di no. Viene il momento della scelta. Ma per farla bisogna pensare solo a se stessi. Essere egoisti. Perché è difficile essere campioni fuori dalle gare. Dovremmo capirlo e accettarlo. Noi, “normali”.