Le parole del più grande tennista italiano, che l’11 settembre compirà 88 anni, tra ricordi del passato e pensieri sul futuro dei campioni azzurri
Nicola Pietrangeli, nato a Tunisi sotto il protettorato francese, gioca il suo primo torneo di tennis in doppio con il padre in un campo di prigionia al confine con la Libia. Poi l’arrivo a Roma, la scelta della cittadinanza italiana, un’esperienza nelle giovanili della Lazio e nella Viterbese e infine il passaggio definitivo al tennis. Pietrangeli compirà 88 anni l’11 settembre ed è ancora oggi considerato il più grande tennista italiano di tutti i tempi. Durante la sua carriera ha vinto due Roland Garros in singolare (1959, 1960), uno in doppio (1959) e uno in doppio misto nel 1958 e oltre 40 titoli. Fu anche protagonista della storica Coppa Davis del 1976.
In un’intervista al Corriere della Sera ha avuto modo di ricordare i successi del passato, ma anche di riflettere sui nuovi campioni del tennis italiano, Matteo Berrettini e Jannik Sinner su tutti.
Sulla differenza tra i montepremi di una volta e quelli di oggi, Pietrangeli ha parlato così: “Quest’anno chi ha vinto a Parigi ha preso 1.400.000 euro. A me nel ‘59 e nel ‘60 diedero 150 dollari e una coppetta grande come un bicchiere. Sono nato nell’epoca sbagliata. Però ai miei tempi bisognava anche saper giocare a tennis“. Sul più grande di tutti i tempi non ha dubbi: “Sicuramente Roger Federer, Djokovic non lo supererà mai, neanche se dovesse realizzare il Grande Slam. Diciamo che è un grande che non sarà mai il più grande“. Un pensiero alla sua carriera, con un occhio agli eredi Berrettini e Sinner: “Ho vinto 44 tornei e quattro titoli del Grande Slam su sette finali, tra singolare, doppio e misto. Matteo in finale a Wimbledon ha battuto il mio record dopo 61 anni: forse non era così facile arrivarci. Berrettini e Sinner hanno servizi mostruosi e violenza inaudita. Bravissimi, per carità. Ma noi giocavamo anche per il pubblico, ai campioni moderni non gliene frega niente. Ogni palla vale 50 mila dollari, pensano solo a se stessi“.
Poi, il ricordo di quella fantastica cavalcata che nel 1976 portò l’Italia a vincere la Coppa Davis nel Cile di Pinochet: “La difesa del viaggio a Santiago per giocare la finale è la cosa di cui vado più fiero, l’unica che non sono disposto a dividere con nessuno, perché di quel trionfo hanno cercato di impossessarsi in troppi. Il merito sportivo è solo dei tennisti, ma a giocare laggiù li portai io. Contro tutto e tutti. Mi rifiutai di regalare la coppa a Pinochet. Con Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli partimmo scortati dalla polizia, le minacce di morte non le scordo“. Su Adriano Panatta: “Quando Ascenzio Panatta, custode del TC Parioli, venne a dirmi che era nato il figlio Adriano, lo ribattezzai Ascenzietto. Lo conosco da quando era in culla. Nel 1968, ai campionati italiani, mi trovo di fronte questo giovinastro che mi ammazza di smorzate. A regazzì, gli dico al cambio di campo, le palle corte le ho inventate io. Vinco. A rete il ragazzino mi fa: la saluta tanto papà Ascenzio. Era Adriano“.
Infine, su quello che sarà “l’ultimo game della sua strepitosa partita”. “Il mio funerale si terrà sul campo Pietrangeli, al Foro Italico. Sa perché? Perché si trova facilmente posteggio. Due preti, cristiano e ortodosso, musica di Barry White e Frank Sinatra, che conobbi al torneo di Indian Wells. E se piove, si rimanda tutto al giorno dopo. Non vorrei che le signore si bagnassero le scarpe“.