L’obbligo vaccinale imposto dallo stato del Victoria è una tegola per molti giocatori, visto che un tennista su due non è vaccinato, compresi vari big. Tennis Australia prova a negoziare col governo temendo tanti forfait, ma può fare poco. E mentre la federtennis russa chiede il riconoscimento del siero Sputnik, Melbourne festeggia il record di giorni in lockdown
Tennisti a un bivio: vaccinarsi o saltare il primo Slam
L’Australian Open 2021 è stato lo Slam più caotico di sempre, fra qualificazioni negli Emirati Arabi, tennisti reclusi negli hotel-quarantena, lamentele di ogni genere e tante altre situazioni mai viste prima. Ma l’edizione del prossimo anno rischia di diventare ancora più intricata perché il problema si è spostato sul fronte vaccini, parola che non va troppo d’accordo con i circuiti ATP e WTA. Qualche giorno fa lo stato del Victoria (dove si trova Melbourne) ha infatti imposto la vaccinazione obbligatoria ad alcune categorie di lavoratori, fra le quali figurano gli sportivi professionisti. Al momento l’obbligo vale solo per i residenti in Australia, ma per il semplice fatto che il paese non ha ancora fissato una data per la riapertura dei suoi confini agli stranieri. Tuttavia, presto verrà esteso anche a chi arriva da fuori, ed è qui che nasce il problema. Secondo i dati forniti durante lo Us Open da ATP e WTA, il tasso di vaccinazione dei tennisti è intorno al 50%: fosse così (ma si dice che le stime siano addirittura state gonfiate) vorrebbe dire che al momento un giocatore su due si trova nella situazione di dover decidere – e piuttosto in fretta – se vaccinarsi oppure rinunciare al prossimo torneo del Grande Slam, in programma dal 17 al 30 gennaio.
Parlando con i media, il premier del Victoria Daniel Andrews ha detto che “le possibilità che un non residente possa entrare nel paese senza la certificazione di avvenuta vaccinazione sono davvero basse”. Lo stesso Andrews, che lo scorso gennaio aveva “respinto” la lettera con cui Novak Djokovic chiedeva l’allentamento di alcune restrizioni, ha poi tirato una stilettata direttamente al numero uno del mondo, capo ideologico dei no vax della racchetta a causa del suo storico scetticismo nei confronti dei vaccini. “Nole” non li vedeva di buon occhio già prima dell’avvento del Covid-19, ma la sua posizione è diventata ancora più famosa in tempi recenti, anche perché ha detto apertamente di essere contrario all’inoculazione come requisito per poter partecipare ai tornei, e non ha rivelato (ma questo è un suo sacrosanto diritto) se si è sottoposto o meno al vaccino. “I titoli del Grande Slam – ha detto con sarcasmo il governatore – non proteggono dal virus, mentre i vaccini sì. E i tennisti non sono diversi dagli altri membri della popolazione”.
Visto l’attuale clima di preoccupazione dovuto alla diffusione in Australia della variante Delta, e le politiche da sempre molto severe del governo australiano e in particolare dello stato del Victoria, è improbabile che le posizioni governative possano cambiare da qui al via dell’Australian Open. E questo per il primo Slam della nuova stagione rischia di diventare un grosso problema. Il timore di Tennis Australia è che la necessità del vaccino possa portare all’assenza di parecchi giocatori, anche di vertice, a maggior ragione se nonostante l’obbligo i tennisti si dovessero comunque trovare di fronte a numerose restrizioni. Per questo, il CEO Craig Tiley ha già iniziato a negoziare con le autorità per ottenere una deroga all’imposizione, anche se le chance di successo della mediazione appaiono scarse.
Il controsenso Sputnik e i lockdown da record di Melbourne
Prima dell’introduzione dell’obbligo vaccinale, l’ipotesi più probabile pareva quella di due settimane di quarantena in una bolla di sicurezza, ma con i giocatori liberi di muoversi fra i rispettivi hotel e l’impianto di Melbourne Park. Voci di corridoio ipotizzavano numerose agevolazioni per i giocatori vaccinati, ma le notizie delle ultime ora hanno rimesso tutto in discussione, creando ulteriore caos. A puntare il dito contro il governo australiano anche Ashleigh Barty, che al ritorno dallo Us Open ha dovuto trascorrere due settimane di isolamento in hotel, pur essendo vaccinata e anche risultata negativa al test effettuato al rientro in patria (così come agli altri 67 tamponi ai quali si è dovuta sottoporre nel 2021). Tanto che per lo stesso motivo la numero uno del mondo ha già fatto capire che rinuncerà alle WTA Finals in Messico, per evitare altre due settimane di isolamento forzato che sa tanto di controsenso.
Fra gli altri possibili impicci della questione Australian Open e vaccini c’è il fatto che al momento non tutti i sieri presenti sul mercato mondiale sono riconosciuti dal governo del Paese. Oltre ai noti Pfizer, Johnson & Johnson, Moderna e AstraZeneca, studi sull’efficacia pubblicati dal Dipartimento australiano della Salute hanno ufficializzato il 1° ottobre l’approvazione del vaccino cinese Coronavac e di quello indiano Covishield, mentre per il momento non sono stati ancora riconosciuti gli altri due vaccini cinesi (BBIBP-CoV e Convidecia), quello indiano Covaxin e soprattutto il russo Sputnik V. Dato l’obbligo di doppia dose per i tennisti provenienti da tutto il mondo, questo potrebbe diventare un problema per i cittadini dei paesi in questione, i quali – russi in primis – potrebbero trovarsi nell’assurda situazione di essere vaccinati ma comunque non ammessi in Australia a causa del tipo di siero ricevuto. Per correre ai ripari in anticipo, la Russian Tennis Federation ha fatto sapere di aver già avviato delle trattative col governo del Victoria, per chiedere il riconoscimento del vaccino russo per i suoi giocatori che arriveranno a Melbourne.
Nel frattempo, per le qualificazioni si ipotizza di nuovo una soluzione a metà fra Dubai e Adu Dhabi, con l’inizio intorno al 20 dicembre in modo che i qualificati possano poi volare a Melbourne subito dopo Natale, per rispettare le due settimane di quarantena. Non si sa ancora nulla invece sul pubblico, anche se la vaccinazione sarà sicuramente richiesta. In questo senso, il potenziale obbligo per i giocatori permetterebbe almeno di evitare la situazione capitata a New York, dove il vaccino era necessario per il pubblico ma non per i protagonisti del torneo e i relativi staff. Tuttavia, al momento la presenza degli spettatori non è affatto da dare per scontata, visto che in Australia le chiusure sono sempre dietro l’angolo. Melbourne ha appena strappato a Buenos Aires il record di giorni di lockdown, e sta attraversando il suo sesto periodo di confinamento, iniziato il 5 agosto. La chiusura è prevista fino al 26 ottobre: quando (e se) terminerà la città avrà trascorso 267 giorni di lockdown dal 20 marzo del 2020. Il loro solo obiettivo è la positività zero, quindi non si pongono alcun problema a fermare tutto, anche con pochissimi contagi. Facile intuire che in uno scenario simile l’Australian Open sia l’ultima delle loro preoccupazioni.