Oltre al divario tennistico, nel paragone fra i Big Three e i giovani che puntano a sostituirli si delinea sempre più spesso una differenza dal punto di vista psicologico. Da Medvedev a Zverev, da Tsitsipas a Thiem (e non solo), la nuova generazione sembra formata da giocatori fragili, con troppi limiti in termini di tenuta mentale. Ecco perché i più forti restano sempre i vecchietti

L’occasione fallita, i più forti restano sempre i “vecchietti”

Il sorpasso di Daniil Medvedev a Novak Djokovic in vetta al ranking mondiale è stato il simbolo più evidente del rinnovamento che il tennis prova a proporre ormai da tempo, ma per parlare sul serio di futuro è ancora presto. Perché a volte i giovani sembrano pronti sul serio a scalzare i dominatori negli ultimi quindici anni abbondanti, altre decisamente meno, come in un avvio di 2022 che, con Djokovic assente per la questione vaccino, Nadal al rientro dopo lo stop e Federer ancora fermo, pareva l’occasione ideale per chiudere finalmente i Fab Three fuori dai giochi, e dare il la alla nuova era. Invece è successo che il protagonista della scena si chiama di nuovo Rafa, ancora imbattuto dopo 18 incontri, e lunedì Djokovic si riprenderà gratis il numero uno pur avendo giocato tre partite in tre mesi.

I giovani? In un tennis nel quale la componente mentale è sempre più importante, più che le loro qualità ne stanno emergendo le fragilità psicologiche, ugualmente distribuite dall’uno all’altro. Compreso Medvedev: è il più pronto di tutti, si è capito da un po’, eppure in finale a Melbourne ha fallito e dopo che si è trovato in testa alla classifica (un po’ per meriti, un po’ per le scelte di Djokovic) è riuscito a difendere il primato sole tre settimane. Con “Nole” a casa gli bastava il compitino in California per tenerselo alle spalle, invece è crollato contro Gael Monfils – che è della generazione vecchia – e dovrà ricominciare da capo. L’impressione è che lo rivedremo in testa e anche presto, ma resta il fatto che alla prima da leader ha steccato. Quando Federer è diventato numero uno per la prima volta, lo è rimasto per 237 settimane. Nadal per 42, Djokovic per 53. Medvedev per… 3. Un caso? Forse no.

La differenza fra Medvedev e gli altri giovani è che lui, sul quale non puntava nessuno, lassù in cima almeno ci è arrivato, mentre ai compagni della prima Next Gen si è inceppato Google Maps. La strada di Stefanos Tsitsipas sembra essersi bruscamente interrotta con la finale persa all’ultimo Roland Garros, da due set a zero contro Djokovic. Da lì in poi il greco non è più stato lo stesso e le certezze hanno lasciato spazio agli interrogativi, tanto che – ha confessato lui stesso – alla prima vera difficoltà fisica della sua carriera, ossia l’infortunio al gomito di fine 2021, ha addirittura pensato di smettere di giocare. Ora è guarito e le cose vanno meglio, ma certe dichiarazioni hanno messo a nudo una fragilità preoccupante.

La stessa, seppur espressa in maniera diversa (leggasi peggiore), che ha Alexander Zverev, capace nel 2022 di rendersi protagonista soltanto per il brutto episodio di Acapulco. L’ATP l’ha graziato e non è un bene, né per l’immagine del tennis né per lui stesso, visto che non è la prima volta che tiene comportamenti sopra le righe con i giudici di sedia, ed evidentemente per capire la lezione ha bisogno di una sanzione superiore ai 40.000 dollari di multa. Resta un personaggio e un giocatore discutibile, che alterna settimane di apparente maturità sportiva ad altre nelle quali pare ancora un ragazzino, anche se fra un mese saranno 25. Per diventare sul serio uno dei dominatori serve di più. Anche o soprattutto in mezzo alle orecchie.

Vincono e si perdono: ai veri campioni non succede

Un altro che pareva avere tutto per inserirsi già fra i big, e invece sembra già finito nel dimenticatoio è Dominic Thiem. Ora il suo problema è un infortunio al polso che lo tiene fermo dall’estate scorsa, obbligandolo a rimandare di continuo il ritorno sui campi (dovrebbe accadere a Monte Carlo), ma prima delle noie fisiche a frenarlo erano state quelle psicologiche, con una sorta di crisi esistenziale arrivata dopo il suo trionfo allo Us Open. L’aveva raccontato lui stesso la scorsa primavera: dall’oggi al domani, dopo aver raggiunto l’obiettivo di un titolo Slam inseguito per tutta la vita, si è sentito vuoto, privo di stimoli. E così la vittoria che doveva rappresentare la consacrazione l’ha invece mandato in tilt, e un anno e mezzo più tardi resta ancora l’ultima. Per carità: un po’ di appagamento può essere fisiologico, ma ciò che gli è successo pare un po’ esagerato, e sicuramente stride con la storia dei tre grandi campioni che si sono spartiti la gran parte dei titoli Slam prima del suo. Nel loro caso il primo successo ha aumentato la fame, mica l’ha saziata.

L’aspetto mentale non è certo il punto forte né di Felix Auger-Aliassime, che ha avuto bisogno di nove finali per vincere un titolo, né del suo gemello diverso Denis Shapovalov, che resta più bello che vincente. E, per fare un esempio, non va tanto meglio nemmeno fra le donne, con la storia di Naomi Osaka che avvalora la tesi dei giovani fragili. La giapponese sembrava la dominatrice che il tennis femminile attendeva da anni, invece si è persa in un bicchiere d’acqua. Con la salute mentale non si scherza, ma quanto accaduto a Indian Wells – dove è scoppiata in lacrime dopo che uno spettatore le ha urlato dagli spalti una frase poco piacevole – non giustifica un crollo simile. Piaccia o meno, certe cose fanno parte dello sport. Nel tennis per fortuna capitano di rado: un motivo in più per non dargli peso.

Non lo scopriamo certo oggi che con Nadal, Djokovic e Federer siamo stati abituati troppo bene, perché si tratta di tre campioni forse irraggiungibili, ma ciò che emerge a ripetizione è che al di là della differenza tecnica, i (presunti) ricambi mancano soprattutto altrove. La loro ora arriverà, ma più per questioni anagrafiche che per meriti. Una situazione nella quale potrebbero trovare spazio per fare cose sempre più importanti i nostri Berrettini e Sinner, anche se sempre più appassionati si stanno convincendo che il futuro si chiami Carlos Alcaraz. Il motivo? Pare non avere punti deboli di nessun genere, mentre tutti gli altri hanno mostrato limiti, dal punto di vista psicologico, di resistenza mentale, di continuità e chi più ne ha più ne metta. Piccole differenze che sommate formano quella superiorità che permette al Federer del 2017 di tornare dopo mesi e vincere un Major al primo colpo, al Djokovic dello scorso anno di arrivare a una sola vittoria dal Grande Slam, e a Nadal di iniziare la stagione come mai gli era successo prima, nell’anno dei 36. Sono dei giganti dello sport, e non ci piove. Ma forse ai loro meriti vanno aggiunte le colpe altrui.