Il tennis è uno sport ormai globalizzato anche nell’insegnamento, paesi di poca tradizione possono contare su aspiranti numeri 1. E con alcune novità regolamentari all’orizzonte, una nuova era potrebbe essere alle porte
Lotta serratissima per il vertice
Il futuro sottrae all’occhio certezze appurate restituendo incognite con le quali solo fattucchiere imbellettate e astrologi mattacchioni osano millantare calda familiarità. Più facile, per noi normali, è volgere lo sguardo al passato, meglio se recente, che i dubbi li ha già dipanati tutti e si schiera senza trucchi.
Così, stringendo a gelatina il brodo di un anno ormai agli sgoccioli, affiora che la Davis riformata è andata al Canada di Aliassime e Shapovalov, che Nadal ha firmato il suo 22simo slam in terra d’Australia e che Djokovic ha fatto centro a Parigi, Londra e Torino lanciando interrogativi su come sarebbe finita a New York se la storiaccia del vaccino non l’avesse tenuto fuori dai giochi. Un’occasione ghiotta per Carlos Alcaraz che, cogliendo lo slam al balzo, ha così compiuto il rito nella Grande Mela dopo che a Miami e Madrid aveva spazzato il campo confermandosi, malanni permettendo, uomo da battere del tennis che sarà. Tutta questa roba a 19 anni compiuti, due in meno dei 21 necessari all’americano Brandon Nakashima per imporsi alle Next Gen di Milano con un tennis di tutto riguardo e in via di consolidamento.
E per una bella gioventù in cerca di gloria, la legge del contrappeso ha opposto un pezzo di storia che invece ha deposto le armi. Roger Federer ha detto basta lasciando a un popolo sterminato di appassionati la convinzione di aver colto nelle sue gesta quanto di meglio potesse offrire questo sport e che d’ora in poi nulla sarà più come prima.
Un anno ormai alle spalle, che ci rimanda a una sfilza lunghissima di logaritmi guadagnati sul campo, valori asettici che in modo neutrale hanno espresso graduatorie di fine corsa con qualche riflessione al seguito. La Emirates dà notizia di un Carletto Alcaraz elevato a capoclasse ma soprattutto racconta di una top ten infarcita di giocatori al di sotto dei 25 anni, la stessa percentuale colta ampliando la visuale ai primi cinquanta del mondo. Dati inconfutabili che tradiscono un cambio generazionale in atto, forse maturo a compiersi del tutto. C’è di più! La scala dei migliori, già in Oceania potrebbe andare in frantumi giacché Alcaraz, Nadal, Ruud e Tsitsipas sono compresi in un range di 1.300 punti, non pochissimi ma neanche impossibili da colmare. Stesso discorso che avvolge Djokovic, Aliassime, Medvedev e Rublev, divisi da una manciata di numeretti che poco o nulla contano ai fini dei confronti. A Fritz e Hurkacz l’onere di chiudere la gabbia dei primi dieci con differenze anche qui irrilevanti.
25 nazioni diverse fra i top 50
Le riflessione più interessanti, tuttavia, arrivano dalla rappresentanza. Per dire che i giocatori della prima decade sono frutto di otto paesi differenti così come nei primi cinquanta ne figurano 25 di diversa nazionalità. Tutto a riprova che il tennis è sempre più uno sport globale e che i protagonisti non sono necessariamente frutto di un movimento nazionale ma godono bensì di allenamenti sofisticati conosciuti in tutto il pianeta, fenomeno che ha fatto lievitare il livello medio e acuito quello dl vertice. Paesi come la Grecia di Tsitsipas, la Norvegia di Ruud, la Finlandia di Ruusuvuori o la Danimarca di Rune non hanno alle spalle maree immense di tennisti da cui selezionare futuri campioni, ma godono di modelli formativi ormai alla portata, condotti il più delle volte con buona professionalità. Ogni giocatore può trovare la soluzione alla sua crescita affidandosi a qualche coach che sappia il fatto suo e a un management che ne curi gli interessi.
Chiudo dicendo che a riprova del movimento transitorio in atto, il potenziale di vertice è attualmente spalmato su più soggetti tant’è che i circa 10.000 punti di cui Djokovic godeva negli anni precovid equivalgono oggi ai 6.820 di Alcaraz di questo epilogo 2022. Aggiungo che gli otto Master 1000 disputati hanno avuto ben 7 vincitori
in arrivo gli short game
Stando così le cose possiamo aspettarci di tutto già dal primo semestre e anche la classifica Race acquisterà più importanza in quanto rimettendo tutti ai blocchi di partenza, potrebbe raccontare un’altra storia di valori interessanti per non dire sorprendenti.
Con l’anno che verrà, dunque, le uniche certezze riguardano un calendario fissato in 66 tornei divisi tra 38 sul cemento, 20 sulla terra, 8 sull’erba. Per il resto, pare che il campo avrà ancora forma rettangolare, limitato da quelle maledette righe che tanti dispiaceri hanno dato ai tennisti d’ogni tempo. Nel tennis che sarà, inoltre, ritroveremo certamente lo short game che, insieme ad altre diavolerie, continueranno ad essere additate dai puristi come esperimenti degni del Dottor Mabuse. Insomma la nebbia sul 2023 si dirada soltanto di fronte all’evidenza che il tennis, mai come in questo momento, sia sport in forte evoluzione e che l’età incalzante potrebbe mettere i veterani del circuito di fronte a un risolutivo giro di boa.