500 ANNI DI TENNIS – Ecco come lo Scriba ha raccontato nella sua opera più importante, quella magica annata in cui Adriano Panatta vinse Roma, Parigi e Coppa Davis.

A quasi ventisei anni il nostro eroe, Adriano Panatta, non aveva mai vinto i Campionati Internazionali d’Italia, centrati due volte da Pietrangeli e una da Gardini.
Aveva addirittura perduto due volte al terzo turno, due al secondo, due al primo. Una settimana più tardi, al Roland Garros, Adriano riusciva puntualmente a riscattarsi. Il suo record, sino al 1976, elencava due semifinali, un quarto e un terzo turno, e un solo secondo in un’annata-no, il 1974.

I ripetuti incidenti romani non potevano esser legati soltanto alla preparazione, che non era mai stata il suo forte. Figlio d’arte, nato e cresciuto sui campi romani, Adriano veniva a trovarsi nella disagevole posizione di profeta in Patria. Agli Internazionali romani del 1976, Adriano giunse tuttavia con un sereno match di Davis alle spalle. L’avvento sulla seggiolina di Nicola Pietrangeli, la sua capacità di sdrammatizzare, parevano aver lenito le ansie di Adriano che, fin lì, aveva fatto della Davis un vero dramma. Nel primo turno romano, Adriano trovò Kim Warwick, un australiano solido, senza debolezze, né genio.

Rosso nel volto picchiettato di efelidi, Kim prese a palleggiare con violenza. Si apriva brecce sulla sinistra di Adriano e calava a rete, quasi un lanzichenecco. Nel set decisivo, Kim ebbe i primi due match-point sul 5/2, 40-15. Glieli annullò, Panatta, e altri due riuscì a cancellargli prima di ritrovarsi 4/5, 0-40.
Sulla seconda di quelle palle-partita una deviazione del nastro aiutò Kim a sbagliare una volée. Sul 30-40, superato da un lob, Adriano riuscì miracolosamente a salvarsi in allungo dorsale.
Finì per vincere e, simile a chi esce senza graffi da uno sconquasso automobilistico, affermò di non aver avuto paura, di non aver pensato al peggio. “Ho giocato quegli undici match-point sicurissimo di vincere”.

Passò facilmente il secondo turno, Adriano, contro un avversario appena dominato in Davis, lo jugoslavo Franulovic. Nel terzo, la sportività di Tonino Zugarelli gli consentì di rigiocare una palla dubbia, e di trarsi da un tie break imbarazzante.

Una chiamata altrettanto dubbia mise in furore Harold Solomon, che se ne andò dal campo, sul 5/4, 15-0 nel terzo set.
In semifinale, Adriano anticipò l’attaccante Newcombe, per incontrare l’arrotino Guillermo Vilas in finale.
Sommerso di pallacce arruffate, si ritrovò in preoccupante ritardo. Mentre stava perdendo il secondo set, a 3/5 nel tie break, dovette assalirlo la stessa sensazione di ineluttabilità che tanto spesso l’aveva condannato. Venne quattro volte avanti, e concluse la quarta delle sue volée in tuffo, con un legno vincente.
Da quell’istante, il match fu suo.

Vincere, dopo Roma, Roland Garros, è vincere il Tour dopo il Giro. Adriano non era mai stato fondista, il suo gioco non si basava certo sulla corsa, ma sulla grande sensibilità digitiale unita alla potenza di battuta, diritto, volée. Il rovescio nelle buone giornate veniva a traino, nelle cattive era zavorra.
Fin dal primo turno di Parigi, Adriano si ritrovò a fronteggiare un nuovo match-point, contro un avversario rognoso e imprevedibile: il ceco Pavel Hutka, destro e bimane sui rimbalzi, serviva con la sinistra.
La palla che Adriano dovette salvare, in tuffo, fu una sorta di rigore. Nel tennis parare non basta, e il nostro eroe si superò, fece punto.
Annesse il match con Hutka e, presto, altri tre, contro il giapponese Kuki, il ceco Hrebec, il solito Franulovic.
Giocava ancor meglio che a Roma, Panatta, e lo aiutavano certo le Tretorn senza pressione, palle sulle quali poteva accanirsi a picchiare e, al contempo, smorzare.
Nei quarti, Adriano trovò Borg, che l’anno prima l’aveva battuto in un match serrato. L’imbattibilità dell’Orso, a Parigi, continuava da diciotto match: aveva perduto l’ultimo giusto con Panatta.
Adriano riuscì a tener bene dal fondo, anche col rovescio, e Bjorn parve affrettato nel concludere qualche palleggio, andando spesso fuori giri.
Due set avanti, Panatta dovette rifiatare nel terzo, ma trovò sufficienti energie per il tie break nel quarto, dopo aver mancato, a 5/4, tre match point.
Battuto Re Orso, Adriano si ritrovò negli scomodi panni del favorito, contro due arrotini minori, due maledetti infaticabili maratoneti, Eddie Dibbs lo “Gnomo”, e Solly Solomon il “Sorcio”.
“Cosa volete che siano due, per un romano?”, bluffavo con i colleghi anglosassoni. “I Curiazi erano tre, e guardate che fine!”.
Adriano smosse lo Gnomo dal suo tran-tran sulla riga di fondo, lo costrinse avanti indietro in verticale, lo attaccò e punì lasciandogli nove game.
Sorcio Solomon impiegò quattro ore a metter fuori Roul Ramirez dalla semifinale, finì incrampato, ma gli basò una notte di sonno per riacquistare splendida salute. Zampettava instancabile in quella fossa circondata da una trincea di cemento, quasi non sentisse i 41 gradi centigradi.
Parve, agli ignari, un replay del giorno precedente.
Ma Solomon stava un metro più avanti di Dibbs, e gli ruggiva dentro la rabbia del recentissimo match romano, che riteneva scippato.
Due set avanti, Adriano mancò sul 40-0 tre palle per il 4/2 nel terzo: intorno agli occhi piccini, incattiviti, si erano addensate due macchie purpuree.
Era stanco morto, e la fretta di concludere gli si torse contro, e lo rinviò al riposo.
Riuscii a infilarmi in spogliatoio, dove troppa gente gli toglieva ossigeno, lasciandomi vedere solo i piedi, gonfi e lividi come quelli del Cristo del Mantegna di Brera.
“Non dargli angoli” tentai, appena si aprì un varco. “Attacagli il centro sinistra, non l’angolo sinistro: di lì ti passa.”
Come tornò in campo, due attacchi in centro gli offrirono il break. Da 2/5, 15-30 il piccolo Solly risalì furibondo, con una serie di dodici punti. Altro che Sorcio! Pareva, Solly, una mangusta inviperita, addirittura capace di attaccarsi a rete, col suo metro e settanta.
Indietro 5/6 Adriano si salvò miracolosamente da un lob che l’aveva ricacciato in un angolo, proprio sotto la tribuna stampa.
Intuii che non aveva energie per il quinto ma, nella straziante fatica, lui stesso fu tanto lucido da capirlo. Mise tutto quel che gli restava nel tie break. Riuscì a sfondare.



Il giorno seguente la stampa internazionale, e gran parte di quella nazionale, scoprivano Adriano Panatta.
Alcuni misero l’accento su un vivace passato rosa, felicemente interrotto dall’apparire di una bellissima ragazza, che qualche santo aveva salvata dal cinema.
Si era sposato nel marzo del 1975 con Rosaria Luconi, Adriano Panatta, e il matrimonio ne confermava l’inclinazione familiare, borghese, che il successo avrebbe più volte insidiato. Niente, infatti, era stato più tradizionale dell’ambiente e dell’educazione del nostro campione.
Papà Ascenzio era il factotum del vecchio Tennis Parioli, un uomo di bonomia tipicamente romana, intriso di tennis e di bianchetti.
Buona sposa e massaia, mamma Liliana aveva desiderato disperatamente il suo Adriano, dopo aver perduto un primo figlio.
Crebbe così da figlio unico, viziato e mammoso, il nostro eroe, sinché non giunsero fratellino e sorellina, Claudio e Laura: non meno belli di lui, più scuri nei visi mediterranei, più vivaci nel corpo.
Aveva impiegato tempo nel trovare interessi fuori casa, Adriano, ed erano stati, i primi amichetti, i raccattapalle del Parioli. Li batteva regolarmente, durante le accanite battaglie, con racchettine ritagliate nel legno, e fu quello l’inizio di carriera, nonostante i suoi miti fossero calciatori e piloti.
Nel suo apprendistato due incontri sono stati importanti. Con Wally Sandonnino, ex-campionessa, insegnante di gran polso e acume. E, decisivo, il sodalizio speso litigioso con Mario Belardinelli, che ebbe il merito di intuire grande talento in quel mediocre e spesso pigro atleta. Terzo e non trascurabile incontro, per Panatta, fu quello con il predecessore, Nicola Pietrangeli.
Tanto rivali, i due narcisi, da irritarsi vivamente come io osai paragonarli: come uomini, ancor prima che tennisti.
Avessi o no ragione, non c’erano dubbi che, in una faccenda importante, i loro destini erano coincisi.

Soli italiani, avevano trionfato nella terribile corsa con racchetta intitolata a Roland Garros.
Nuovamente, la sorte li accomunava, Nicola sulla seggiolina di capitano della Davis, Adriano in campo.
Dopo la Jugoslavia, i nostri passarono un turno facilissimo contro la Polonia, e un terzo contro la Svezia priva di Borg.
Nel vincere Wimbledon, un muscolo del pancino si era sfilacciato, e l’Orso antepose l’amore per Mariana Simionescu a quella per la patria tennistica.
La finale europea ci riservava l’Inghilterra, che aveva nell’erba l’arma più subdola.
Avvertendo il dolce profumo del successo, affrontò finalmente le perigliose macchine volanti anche il Direttore tecnico Mario Belardinelli: a più di cinquant’anni, mai aveva sentito la necessità di un pellegrinaggio nel Vaticano del gioco.
Con l’avvio degli allenamenti, iniziarono le doglianze degli azzurri: il disagio nel giocar sui prati riacutizzava antiche malanni.
Panatta fu il primo a defilarsi, ma l’immediato ritiro di Barazzutti costrinse Pietrangeli a ripescarlo, e a schierarlo insieme a Zugarelli. Sorpresi per quella selezione, i colleghi inglesi chiesero lumi, e io cercai di riassumere.
Tonino Zugarelli era nato a Roma il 17 gennaio del 1950, e si era avviato al gioco seguendo la trafila degli umili, da raccattapalle a palleggiatore.
Splendido atleta, il più rapido e coordinato dei nostri, Zugarelli aveva avuto la sfortuna di perdere la falangetta del pollice.
Simile mutilazione era compensabile sul rovescio, magari anche nella battuta. Nel diritto, impugnato continentale, il pollice diventava cerniera indispensabile.
Aveva aggirata la menomazione, Tonino, inventando un movimento rapidissimo, una specie di frustata di mezzovolo, colpita richiamando le ginocchia da una posizione di squilibrio, all’indietro.
Quel maledetto pollice gli inibiva però un gioco potente, una corretta applicazione delle forze al fulcro della leva.
Nel tennis, si sa, è la paura la peggior nemica. Per le caratteristiche tecniche di quel suo colpo, Zugarelli non poteva permettersi di aver paura, trattenere i colpi, senza declassarsi a tennista indegno della sua buona classifica.
Sorteggiato contro Roger Taylor, mancinaccio e veterano di mille risse, Tonino riuscì ad anticiparlo, a dargli una lezione di lawn tennis: giocò il match della sua vita.
Fu, quella, la partita chiave di Gran Bretagna-Italia, mentre il punto decisivo della semifinale con l’Australia, a Roma, ci venne dal doppio. Paolo Bertolucci aveva preso il posto del vecchio Pietrangeli, fianco a Panatta, nel 1973, contro i due bulgari Pampulov, “due gemelli nati nella stessa città”. Secondo l’ineffabile telecronista Disguido Oddo.
I suoi splendidi rimbalzi da golfista gli avevano assicurato il posto in singolare nel 1972 e 1973, mentre si consolidava quella nostra grande squadra di Davis. Papà Gino, gran maestro, non gli aveva però trasmesso, insieme allo stile, il suo fisico di asciutto versiliese.
Per buona sorte, il giovane soprannominato Rotolo si era imbattuto nell’autentico Pigmalione del nostro tennis, Giorgio Neri, presidente della Virtus e poi della FIT. L’incontro aveva conservato all’agonismo Paolo, che una schiera di dotti medici sportivi diagnosticavano disadatto.
L’avvento del podista Barazzutti, una modesta propensione all’allenamento e una vivissima per la buona tavola, avevano finito per limitare Bertolucci al doppio, in Davis.
Sul campo diviso a metà, i suoi fenomenali colpi erano spesso serviti da trampolino a Panatta: qualche volta da salvagente.
A quella semifinale romana, contro i declinanti australiani, il nostro doppio giunse con un record di sette vittorie a una, più un regalo ai fratelli Lloyd, graziati dopo cinque match-point.
Nella prima giornata Panatta era stato inferiore a se stesso, come spesso gli era accaduto in Davis, contro avversari che non lo valevano. John Alexander l’aveva però battuto tanto secco, che c’era da temere un bis nella terza giornata, contro Barazzutti. Il doppio diventava quindi importantissimo, non meno del braccio di Paolo, malconcio.
Il dottor Giorgio Santilli gli infiltrò novocaina, ma quel liquido venne probabilmente sostituito con elisir miracoloso, a giudicare dai risultati. Paolo riuscì infatti a sbagliar qualcosa soltanto alla fine del match, quando svanirono gli effetti della magica pozione.



Per la terza volta nella storia, eravamo in finale di Davis. Dopo i difficilissimi match del 1960 e 1961 vissuti da atleta contro gli australiani, lo stratega Pietrangeli aveva la rivincita a portata di mano: i cileni erano decisamente one man’s team, Jaime Fillol avrebbe dovuto strapparci tre punti, per batterci.
Rischiammo invece di non giocare e perdere per ritiro, grazie al Partito Comunista e ai socialisti che, in quei tempi, si facevano spesso concorrenza tirando ancor più a sinistra. Con tutta la loro autorevolezza politica e la ancor più grande ignoranza di sport, gli onorevoli Lombardi (PSI) e Pajetta (PCI) dichiararono: “Vogliamo dare un giudizio sui generali, e far sapere al popolo cileno che siamo solidali con lui”.
Mi sembrava strano che si esportassero auto in Cile, e si importasse rame da quei cattivi generali, ma un solerte funzionario RAI mi impedì di accennare “ad un fatto anomalo, per un dibattito sportivo”. Furono giorni grotteschi, ancor prima che osceni. I nemici della trasferta aizzavano i balilla rossi che, guidati da un mio giovane collega, giunsero a occupare la Federtennis, sporco covo di reazionari. “Non si giocano volée/contro il boia Pinochet”, scandivano gli sciuocchini, mentre Modugno rovinava la fama di “Volare” con una ballata engagée, immaginando la Coppa sommersa di sangue.
La Federtennis, che avrebbe dovuto difendere i tennisti, latitava. In crisi depressiva il Presidente Neri, si manteneva prudentissimo il futuro Presidente Galgani.
Fu Pietrangeli che uscì allo scoperto, in difesa dei suoi e dello sport. La campagna demagogica serviva soprattutto interessi elettorali, ebbe il coraggio di affermare: “Forse che la nazionale di calcio avrebbe boicottato i cattivi generali argentini, l’anno seguente, in occasione dei mondiali?”.
I tifosi del calcio erano, in realtà, troppo numerosi, perché osassero contrariarli. Non meno coraggioso di Pietrangeli si dimostrò Panatta: affermò che avrebbero dovuto strappargli il passaporto, per evitare che volasse in Cile.
Si andò, alla fine, e i cileni, dall’uomo della strada ai tennisti, ci dimostrarono di aver capito, con una commovente simpatia.
Soltanto l’emozione, all’idea di una simile vittoria, avrebbe potuto privarcene.
Per nostra fortuna, a emozionarsi, nel primo e più difficile match contro Fillol, fu Corrado Barazzutti.
La miglior qualità di questo udinese di Alessandria è sempre stata il coraggio, tanto da indurmi a soprannominarlo “Soldatino”: nomignolo che gli è rimasto appiccicato, nonostante Corrado lo detesti.
Soldatino non si curò quindi della tromba che ritmava i sonori incitamenti a Jaime Fillol, accettò serenamente di aver paura.
“Chi/chi/chi Le/le/le Vi-va Chi-le” scandivano cinquemila aficionados bruni in bianche maniche di camicia.
L’emozione impedì a Corrado di chiudere in tre soli set, come avrebbe potuto. Lo fece giocare spesso a rovescio, servire di peste, mancare ghiottissima aperture.
Per nostra fortuna, Nicola si mantenne estremamente lucido, e ricondusse il suo uomo alla ragione, nei momenti di sbando.
Vinto quel punto, la squadra dilagò, e sarebbe stato certo 5-0, se non si fosse schierato, controcuore, Tonino Zugarelli nell’ultimo match.
Il successo di Santiago fu il trampolino di lancio per Barazzutti: l’anno seguente avrebbe raggiunto la semifinale dei Campionati USA, primo italiano nella storia.
Qui lo bloccò Jimmy Connors con uno sporco machiavello. Giunse, Jimmy, a invadere il campo di Corrado, per cancellare il segno di una sua palla nettamente out, che l’arbitro gli aveva dato buona. Sconvolto, Corrado perse la calma e, come si raccattò, Jimmy era ormai lontano.
Insieme alle buone qualità di Bertolucci e Zugarelli, il digrignare di Corrado fu determinante per le nostre fortune in Davis, e servì a tener ben sveglio Adriano Panatta.
I record individuali di Panatta, così come il talento, sono migliori, ma in Davis il Soldatino fece meglio del suo nemico-amico. Vinse, infatti, trentanove incontri su sessanta, mentre Adriano, su sessantatré ne perse ventisei, addirittura quindici contro tennisti peggio classificati.
L’ano seguente alla vittoria cilena, i nostri eroi raggiunsero di nuovo la finale, contro l’Australia a Sydney.
La preparazione, appesantita di vani esercizi atletici, privi di riscontri agonistici, si avvelenò in seguito a un serio problema familiare di Pietrangeli.
Entrarono nel clima del match sullo 0/2, i nostri tanto male allenati, e Adriano fu a due punti dal due pari, e fallì una volée che ancor mi offende. Perduta quella straordinaria occasione, la squadra perse Pietrangeli, per ingratitudine, colpe reciproche, e per le mene sotterranee di Belardinelli.
Un vero talento, il Direttore Tecnico, nell’eliminare tutti i collaboratori di qualità: da Robert Haillet a Mike Davies, da Martin Mulligan a Nicola Pietrangeli.
Una delle ragioni dello stato fallimentare dei tardi anni Ottanta fu proprio da ricercarsi nella sistematica sovversione di uomini e strutture, attuata dal Direttore Tecnico con la miope connivenza di dirigenti inetti, avvinghiati alle loro seggioline.
Per ritornare alla Davis, vanno ricordate le altre due finali seguite all’avventura australiana.
Furono sconfitte onorevoli ma secche, contro squadre giovani e decisamente superiori. Gli USA di McEnroe e, ultima, la Cecoslovacchia del giovanissimo Ivan Lendl.
Non si ebbe certo fortuna, nel giocar sempre lontani da casa. A danneggiarci, giunse anche la perdita di Bitti Bergamo, che aveva sostituito il suo amico Nicola, mostrando qualità non inferiori. Ma la squadra era passata, e fu penoso assistere alla inumazione di un bolso Panatta, trascinato in campo sino al 1983 da necessità economiche. Barazzutti tenne ancora duro l’anno seguente, insieme a Gianni Ocleppo, per essere poi sostituito da gente che, ahinoi, non lo valeva.
Per non dilungarmi su quelle non esaltanti annate, risponderò ad una domanda che mi viene tanto spesso rivolta da doverla ritenere interessante.
E’ stato più forte Adriano, o Nicola?
Sono contrario a ritenere seri ipotetici match tra Immortali di Ere diverse: funzionano solo come divertimento accademico.
Tra Nicola e Adriano ci sono però soltanto diciassette anni, e Pietrangeli è stato tanto longevo da affrontare l’erede in due memorabili finali dei Nazionali, a Bologna 1970, e Firenze 1971.
Nel 1970 Nicola aveva trentasette anni, Adriano venti. Se Panatta, dunque, non era ancora al meglio, Nicola avrebbe potuto felicemente competere tra i veterani, over trentacinque. A Bologna Pietrangeli giunse a due punti dal match nel quarto, e ritornò a condurre nel quinto per 4/1, prima di crollare. L’anno seguente riuscì di nuovo a raggiungere il set decisivo. Ciò farebbe propendere per il vecchio, così come la lettura e i rispettivi risultati internazionali, e quelli in Davis. Nei tornei individuali, Nicola prevale infatti con due vittorie al Roland Garros contro una, e due finali perdute contro nessuna. Anche negli Internazionali d’Italia Pietrangeli conduce con due vittorie a una, e due finali perdute a una, mentre a Wimbledon ha una semi (sfortunata, contro Laver) di fronte a un quarto di Adriano (mediocre, contro Dupre). In Davis Pietrangeli è addirittura recordman mondiale con centosessantaquattro match, di cui centodieci in singolare. Smettendo sei anni prima del trentanovenne rivale, Panatta ha raggiunto cento partite, sessantatré singolari. Quel che conta, per il nostro confronto, sono però le percentuali tra partite giocate e vinte. Nicola ha 70,9% in singolo e 77,8% in doppio, con una media di 73,2%. Adriano ha vinto il 58,7% dei suoi singolari, e il 73% dei doppi, media 64%.
La supremazia di Nic parrebbe assodata, ma va ricordato che, ai tempi suoi, il tennis era diviso tra dilettanti di professione e professionisti, banditi dai tornei federali. Nicola evitò quindi Rosewall, Hoad, Sedgman, Trabert, Gonzalez, Emerson, Gimeno e altri ottimi tennisti. Panatta affrontò il nemico al completo.
Chi fu più forte, dunque?

500 Anni di Tennis, di Gianni Clerici, il libro più importante mai scritto sulla storia del tennis. 512 pagine, edizioni Mondadori. Imperdibile.