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MADE IN ITALY: ROBERTO MARCORA

Esploso tardi, è uno dei top 200 italiani che sta cercando di emergere ad alto livello, con l'obiettivo di centrare un main draw Slam. Ci ha spiegato come si gestiscono le sconfitte e i periodi difficili. «Anche se alla fine giro il mondo giocando a tennis: cosa potrei volere di più?»
L'ultima volta ti avevo visto al Challenger di Firenze nel settembre 2018 e la situazione mi sembrava molto diversa da quella attuale: cosa è cambiato?
Non tutte le sconfitte sono uguali, ho perso quell'incontro con cinque match point e per qualche giorno non ho nemmeno toccato la racchetta. La scorsa stagione è stata pazza e quando ero tornato ad avere una soluzione stabile al mio TC Milano con Uros Vico, lui ha ricevuto un’offerta dal mio ex team e mi sono trovato nuovamente spiazzato. Condividere il mio coach storico con un altro giocatore, anche se importante come Travaglia, non mi andava. Ero già stato il secondo di Cecchinato con Vagnozzi che mi poteva seguire solo via cellulare e non volevo ripetere un’esperienza del genere.

In aiuto è arrivata la famiglia Baldi.
Giocavo la Serie A con Filippo e fu suo padre a suggerirmi di unirmi al gruppo di Francesco Aldi a Palermo. Chissà che fine avrei fatto senza questa opportunità. Al TC Milano si sta troppo bene per fare il professionista, ma non è facile trovare un coach col quale si crei il feeling giusto. A me piace chi mi parla in maniera diretta, chi sa indicarmi la strada da percorrere. Aldi riesce a farlo con modi gentili perché ho 29 anni e non puoi farlo come a uno juniores.

Sono cambiati anche gli obiettivi?
Ho fatto buoni risultati ma non voglio prefissarmi un traguardo particolare. Sono maturato e mi piacerebbe arrivare al mio limite. Tutti i tennisti hanno un numero di classifica che possono raggiungere: mi piacerebbe arrivarci, per non avere rimpianti.

Fin qui ne hai avuti?
Ho capito tardi alcuni aspetti del gioco. Ci ho messo cinque, sei anni a raggiungere certi livelli ma essermi diplomato e aver frequentato un anno di Università alla Statale di Milano, è stata un’esperienza fondamentale per la mia maturazione. Sono ancora iscritto e prima o poi finirò gli undici esami che mi mancano. Non consiglierei a un ragazzino di lasciare la scuola perché adesso si gioca fino a oltre 35 anni e non è obbligatorio sfondare a 21. Invece rimpiango di non essermi dato subito un ordine tennistico. Però va detto che quando mi allenavo sotto un pallone con Dal Bò, Casanova, Mapelli, Dotto e Arnone, non avrei mai pensato di arrivare nei primi 150 del mondo. Adesso voglio alzare l’asticella perché non mi sono mai sentito così bene.

E, da Federer in giù, è dimostrato che si può essere competitivi oltre i 35 anni.
Certo, anche se lui è un fenomeno al quale non si può guardare! Però tutti adesso ci prendiamo cura del nostro corpo e così siamo diventati atleti più longevi. Una volta andavi in palestra e al massimo vedevi gente che faceva stretching al quadricipite: ora tutti hanno il loro rullo, fanno mobilità. E quindi a fare la differenza è l’esperienza: prima un ventenne ti batteva con la freschezza fisica, adesso non basta. E poi io ho solo nove anni di professionismo alle spalle e sono più fresco dei miei coetanei.

Perché la vita del circuito stanca?
Un po', anche se facciamo una vita privilegiata: i miei amici lavorano davanti a un computer per dieci ore al giorno e quando mi vedono mi dicono sempre: “Se rinasco voglio fare Marcora”! Anche se non dormo più di cinque notti nello stesso letto e quando perdi è dura. Ma, alla fine, giro il mondo giocando a tennis, cosa potrei volere di più?
Roberto Marcora impegnato nella finale del Challenger di Bergamo 2019 contro Jannik Sinner
Ci sono stati momenti in cui hai pensato di mollare?
Eccome! Nel 2015 avevo raggiunto il mio best ranking quando mi sono infortunato alla spalla: un buco di qualche millimetro che ho provato a tamponare con gli esercizi ma che l’anno dopo è diventato di un centimetro e mezzo. Dieci mesi senza giocare, tanto dolore, ma la parte più difficile è stata rientrare: perdevo anche col figlio del custode. Però sentivo di non aver dato tutto e che c’era una piccola finestrella dalla quale rientrare. Devo ringraziare la mia famiglia e la passione per il tennis di mio padre che mi ha sempre spinto a provarci. E la mia voglia di non mollare perché quando stai male, il corpo ti presenta il conto: strappo all’adduttore, distorsione alla caviglia, pensavo di andare in pezzi. E anche alla fine dell’anno scorso, quando ho interrotto il rapporto con Vagnozzi, ho di nuovo avuto dei dubbi.

E poi…
Ho deciso di cambiare tutto: città, allenatore, racchetta. Prima mi mettevo addosso tanta pressione perché avevo paura di deludere chi credeva in me, mentre la regola madre insegna che bisogna giocare per se stessi. Di colpo non avevo più niente da perdere, al massimo avrei terminato l’università e mi sarei trovato un lavoro. Perché il tennis non l’ho mai considerato tale: mai giocato per soldi perché sono stato fortunato ad avere il sostegno finanziario di mio padre che ha un’azienda di acciaio laminato e sono certamente più i soldi che ha speso lui per il mio tennis di quanti ne abbia incassati io in carriera. E poi sinceramente non sono nemmeno così appassionato di tennis, ma godo per l’agonismo che trasmette lo sport professionistico. Per dire, la Bundesliga l’ho giocata una volta sola perché senza punti e classifica in palio, e senza necessità di dover guadagnare un ingaggio, non trovavo stimoli. Però sono fiero di dove sono arrivato, anche perché da ragazzino non ero tra i migliori.

E come si arriva tra i professionisti senza aver vinto da juniores?
Con tanta pazienza, anche perché una volta la federazione teneva in considerazione solo i primi tre, quattro di ciascuna leva e io, della classe 1989, non ero nemmeno tra i primi venti. Ma di tutti gli altri, solo Fabbiano ha sfondato: c’erano Trevisan, Comporto, Volpini. Lopez mi ha fatto fare un game all’Avvenire ma poi professionista sono diventato io. Al principio facevo il semi-professionista: la mattina andavo a scuola e poi giocavo tanti Open in Italia perché non c’erano altre prospettive: sono passato seconda categoria a 16 anni.

In carriera si perde spesso: come si gestiscono le sconfitte?
Il tennista è più abituato a gestirle. L’ultimo torneo che ho vinto è stato un Futures nel marzo dello scorso anno e, da quel momento, ho perso ogni settimana che ho giocato. Il tennista deve per forza farsi gli anticorpi alla sconfitta: Agassi nel suo libro spiega che ti rimane dentro la delusione per una sconfitta più che la gioia per una vittoria. Una brutta sconfitta ti consuma ma fa parte del gioco e chi sa reagire nella maniera giusta va avanti. Perché perdere può insegnare tanto e il tennis ti offre la possibilità di rifarti la settimana dopo. In altri sport devi aspettare dei mesi.
Quanto il tennis è uno sport mentale?
Ottanta per cento? Per questo è così affascinante. Adesso tutti giocano bene, sono preparati fisicamente, hanno un coach e un preparatore atletico, quindi a fare la differenza è l’atteggiamento, la voglia di vincere. Sai quanti giocatori colpiscono benissimo la palla e non sono mai entrati nemmeno nei primi 500 giocatori al mondo? E quanti sono entrati nei top 100 anche se tecnicamente sono un po’ storti?

Chi non avresti mai pensato potesse diventare così forte?
Paolo Lorenzi. Ho un rispetto immenso per lui perché se lo vedi colpire non penseresti che è stato numero 33 al mondo. Essere un giocatore di tennis è complesso, non basta saper toccare bene la palla. Tra un gran colpitore e un ottimo giocatore c’è una differenza enorme.

Stai osservando più da vicino il mondo dorato del tennis professionistico: che effetto fa?
Bellissimo, perché in carriera ho vinto undici Futures ma non ricordo nemmeno una finale. Però ho ben presente le emozioni vissute al Foro Italico quando persi da Dolgopolov o la finale al Challenger di Bergamo con tremila persone sulle tribune. Un tennista vive per quello. Adesso sono contento di tornare a giocare le qualificazioni degli Slam perché solo il fatto di giocare dove sono presenti tutti i più forti del mondo, ti fa gonfiare il petto. Ti gasa sapere che, vincendo tre partite, potresti incontrare Federer. Ho giocato le quali in tutti i Major, adesso mi piacerebbe passarle!

Quanto è importante fare esperienza a livello più alto? La sensazione è che qualcuno preferisca restare nella sua comfort zone.
Bisogna trovare il giusto equilibrio, perché perdere troppo spesso non fa bene. Un ragazzo giovane deve alternare match dove parte sfavorito ad altri più facili perché la vittoria è una bella medicina. Non a caso, quando ho vinto 17 match consecutivi nei Futures, venivo da qualche bel successo in Serie A: è quella che chiamiamo fiducia. Quando sono arrivato per la prima volta a giocare Challenger e qualificazioni ATP, mi sono buttato solo in quel mondo e non è finita bene: persi con Volandri a Napoli, Istomin e Pella nelle quali di Monte-Carlo, e Wimbledon, tutti ottimi giocatori ma persi sicurezza. Ecco, anche nella programmazione, Lorenzi è stato un genio: calibrare dove giocare, vuol dire conoscersi.
Ivanisevic mi disse che il peggior infortunio per un tennista è una donna. Tu passi per essere un playboy…
Macché, è due anni che non sono fidanzato e sto bene così! Difficile trovare una ragazza che accetti la vita di un atleta professionista e infatti l’ultima era una tennista (Corinna Dentoni, n.d.r.). Per la vita che facciamo avere una compagna che non ti rompa le scatole, ti sia vicina e riesca a capirti, è una spinta in più: solo che si sono estinte! Comunque non è facile: è lei che deve subire la situazione perché è il giocatore che parte ogni settimana. Se non ci si può permettere di viaggiare insieme, meglio star soli.

Invece, com’è il rapporto con gli altri colleghi?
Ci sono giocatori con i quali non puoi fare un discorso, altri con i quali puoi parlare di politica e attualità. Personalmente cerco di tenermi sempre informato, sono malato del programma La Zanzara di Radio 24, guardo i talk show, sono abbastanza aggiornato. Certo, alla maggior parte degli under 25 non frega nulla di quello che succede nel mondo. Comunque trovi di tutto: quello fumantino, quello simpatico, la testa di c…

Gli altri giocatori sono anche avversari: come li vedi quando sono dall’altra parte della rete?
È più facile giocare contro qualcuno che ti sta antipatico. Alla fine è mors tua vita mea, lo devi far fuori. Gli amici li conti sulle dita di una mano e giocarci contro è veramente difficile. L’ultima volta con Baldi ho vinto 6-3 6-3 e mi sembrava di aver giocato cinque set solo per lo stress emotivo.

Al Challenger di Bergamo hai incontrato Jannik Sinner, in quello di Sophia Antipolis ti sei allenato con Lorenzo Musetti, le nostre due migliori speranze: come li giudichi?
Contro Sinner ero stanco ma anche fossi stato meglio sarebbe stata durissima perché gioca molto bene, con una potenza e un’intensità dei colpi che non mi ha permesso di entrare in partita. Ha un timing sul rovescio pazzesco. Anche Musetti mi piace molto, bello stile, grande eleganza. Il movimento maschile sta crescendo.

Quanto aiuta poter giocare così tanti tornei in Italia?
Molto, perché disporre di wild card permette di arrivare a certi livelli in minor tempo. Io non ne ho mai ricevute e ci ho messo cinque anni per fare un percorso simile. Però era colpa mia perché non ero un vero professionista: non mi scaldavo, mangiavo male, uscivo la sera. Però ricevere qualche aiuto non è male.

Un aiuto ti è arrivato dalla nuova racchetta: una storia un po' particolare…
Ho sempre usato una Wilson Blade 98, poi l’anno scorso avevo provato la Babolat di Cecchinato: ho anche vinto un Futures ma non ero pienamente convinto. Così ho utilizzato una Blade pittata di nero che mi ha preparato Marco Comaschi, grattando via la vernice, pur senza cambiare le caratteristiche tecniche. Mi piaceva un sacco! Poi ho conosciuto Jason D’Alessandro qui al TC Milano e quando ha cominciato a lavorare in Dunlop mi ha fatto provare un nuovo telaio. In realtà, a me serviva un contratto di abbigliamento ma per avere quello con K-Swiss mi ha chiesto quantomeno di provare la Dunlop CX 200. Mi dicevo: “Va bene, intanto metto via la roba K-Swiss e poi vediamo per la racchetta!”. La Dunlop mi è arrivata il 16 dicembre, customizzata dall’ingegner Medri secondo le mie specifiche: 310 grammi per 32,5 centimetri di bilanciamento, ma lo schema delle corde era 16x19 e io ero abituato al 18x20. Avevo dei dubbi ma, anche secondo il mio coach, la palla scorreva di più. E per conquistarmi, non c’è niente di meglio che dirmi che la palla cammina veloce.

Alla fine come è andata?
Che mi hanno fatto arrivare un secondo telaio la vigilia di Natale e sono partito per l’Australia con due racchette. All’inizio dell’anno vincevo pochino e cominciavo a mugolare per la racchetta, perché a qualcosa ti devi attaccare: adesso non la cambierei con nessun’altra. Fondamentale è stato trovare il giusto set up con le corde: con l’Alu Power 1.25 la palla mi scappava via e se non mi sento libero di tirare il rovescio, meglio che non scenda in campo. Quindi, su una racchetta più potente, ho scelto una corda di ottimo controllo e dal calibro più grosso, la Dunlop NT Max Plus 1.30, a 25-24 kg di tensione media. A volte basta poco per trovare la soluzione giusta.
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