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RICCARDO PIATTI, IL MECCANICO DEI CAMPIONI / PARTE I

Figlio di un imprenditore tessile comasco, ha sempre preferito il tennis. Buon seconda categoria, è diventato il miglior coach italiano di sempre. Ha allenato Furlan, Caratti, Camporese, Ljubicic, Djokovic, Gasquet, Raonic, adesso Coric. Senza considerare le decine di coach che ha formato. Un’avventura cominciata quando il maestro di Villa d’este si è rotto un femore
1/7 Piatti mentre corregge Borna Coric
Una massima francese dice: «Faire, savoir faire, savoir faire faire, faire savoir». Per avere successo, anzitutto, occorre darsi da fare. Poi, imparare a lavorare bene; poi, ancora, saper delegare. Infine, farsi conoscere. Riccardo Piatti di Rovenna, lago di Como, figlio di imprenditùr con la fabbrichetta, ha tanto insistito sui primi due tasti che, il resto della musica, è quasi venuto da sé. Ha compiuto sessant’anni lo scorso novembre, quaranta dei quali spesi a raccogliere e far sbocciare fior di campioni oppure a scovare piccole stelle alpine, nascoste dove nessuno vedeva altro se non pietre o erbacce. Quasi mai ha fatto morire la pianta, forse perché non si è mai accontentato; difatti, continua a ragionare come farebbe chi ha aperto bottega da poche settimane. Solo adesso, inizia a prendersi il lusso di coniugare verbi stanziali («Qui ho trovato casa») e a riconoscersi, in un certo senso, arrivato: «La mia felicità di adesso è che sono consapevole di quello che dico. Da giovane era una roba fittizia, non sapevo niente, lavoravo senza un metodo». Oddio: il sospetto è che già prima, di tennis, ci capisse qualcosa: l’Italia deve a lui l’introduzione del team privato, ossia la condizione standard del 95% dei professionisti di oggi. Un’organizzazione, allora, simile a un oggetto volante non identificato. Dopo l’alba degli anni Novanta con i Piatti Boys, il coach dagli occhi color del lago ha letteralmente tirato su dalla strada Ivan Ljubicic e l’ha sparato in orbita, da ennecì a numero 3 del mondo. Ha accompagnato per tratti di strada uno tra i migliori italiani dell’era contemporanea, Bolelli, ha rifiutato un impegno a tempo pieno con Djokovic dopo averlo seguito per un anno, ha fatto fare passi avanti sostanziali a Richard Gasquet, ha reso Milos Raonic un campione. Adesso, è in piena lavorazione di Borna Coric, ammesso un annetto fa nel suo laboratorio da numero 50 ATP e già condotto all’ingresso del Giardino delle delizie, i top ten.

Casa Piatti è seminascosta nel primo entroterra di Bordighera, dove già si era accomodato anni fa nello storico Lawn Club, fondato dagli inglesi a fine Ottocento e guidato da Maurizio Massaccesi, con cui rimane la collaborazione per il lavoro sui campi in terra battuta. Club house di pietra chiara e vetri, quattro campi di cui due coperti, palestra, sale per la fisioterapia e la videoanalisi (i campi sono connessi con le telecamere Hd di Playsight), sauna e vasca di recupero. Tanta tecnologia raccolta in spazi concentrati, animati da quaranta professionisti tra fissi ed esterni. Il centro fa gli orari che piacciono a Piatti: non chiude mai. Tra campi e uffici, vedi correre Max Sartori, oramai celebre ma nato come adepto della prima ora del piattismo. Passa e ridacchia davanti al planning di fine stagione: Natale? In campo. Santo Stefano? In campo. «Mai laòrato così tanto, sai?», gli scappa in veneto, e non lo dice uno abituato al monte ore da ufficio ma alle sgobbate con Seppi. Per arrivare a mettere radici in riviera, Piatti è partito da una frazione di Cernobbio. Papà Renato amministrava la sua azienda tessile a Fino Mornasco. Mamma Giuliana, insegnava inglese. Tre figli: Carolina, due volte campionessa di serie B, Roberto, diventato commercialista a Milano, e lui, cui piaceva il tennis e basta. «Il tennis è una mia forma mentale. Mi sono appassionato perché volevo scoprire come funzionava ma, mentre lo scoprivo, in realtà cercavo me. Come tutti, quando hai vent’anni e ti chiedi chi sei e cerchi la risposta dappertutto, anche in quello che fai. Non pensavo al tennis come a un lavoro, era una ricerca: pian piano, ha iniziato a darmi le prime risposte». Dopo lo scientifico, i genitori avevano spinto perché si iscrivesse a giurisprudenza. «Prima alla Cattolica, dove avevo trovato lungo, poi alla Statale. Faticavo, ero svogliato. Storia del diritto italiano la preparai studiando cinquanta pagine del manuale ogni cento». Come tirare la moneta: quella volta, prese ventuno. Ma non ci furono altre righe scritte sul libretto e la carriera si interruppe a otto esami dalla fine.
Piatti padre era campione di sci nautico e portava i figli sui campi di Villa d’Este, un circolo superesclusivo: soci vip, tanti americani. «Ho fatto una semifinale ai campionati italiani di B: ricordo partite contro Ricevuti, Calautti... Tiravo il dritto, servivo bene, andavo a rete. Rovescio solo in back. Non mi piaceva correre. Pur di giocare, alle cinque e mezza del mattino prendevo il treno delle ferrovie Nord e scendevo a Fino, per lavorare in azienda. Intanto studiacchiavo. Facevo lezioni e mi allenavo. Ai miei andava bene, finché davo una mano: quando mio padre mi accompagnava ai tornei, non diceva mai niente. A lui bastava che mi mantenessi». Per arrotondare e far sì che la pratica sportiva rimanesse tollerata, il giovane Riccardo aveva poi trovato una collaborazione con una piccola e gloriosa fabbrica di racchette ormai defunta, la Scaglia dell’ingegner Mario, altro industriale tessile col pallino del tennis. Dalla sede di corso San Gottardo a Milano, chiamava in giro per fare i contratti e si tratteneva una percentuale. Fatturava: tanto bastava per non trovarsi la guerra in casa.

Poi, la botta di fortuna. Per il povero maestro del Villa d’Este, una botta e basta: «Si spaccò il femore. Non poteva più insegnare e noi, io e mio fratello con altri, prendemmo a fare i maestri ai figli dei miei amici. Ho iniziato così. Facevo lo sparring a Claudio e Stefano Mezzadri a Campione, ero sempre indaffarato». Lui non lo sapeva ancora, ma era il faire del proverbio francese, anche senza il savoir faire: «In quei primi anni, mi sono reso conto che non sapevo insegnare. Proprio non conoscevo il gioco. Allora, senza che i miei lo sapessero, mi iscrissi alla Scuola Nazionale Maestri. Quando mi presero, fui costretto a comunicare la cosa in famiglia, perché a fare il corso ci volevo andare». Non la presero benissimo: la madre gli disse che, a suo modo di vedere, il maestro di tennis valeva un operaio coi turni. Ma Riccardo era già a Roma, ancor prima che finissero le obiezioni. Diventò l’incubo del direttore Tonino Rasicci: tempestava tutti di domande, arrivava un’ora prima dell’inizio delle lezioni e se ne andava via un’ora dopo la fine, non ti si staccava dai polpacci. Per capire, per trovare la soluzione a un problema.

Dal più famoso dei vicini di casa, Gianni Clerici, si era fatto prestare Match Play and the Spin of the Ball. Lo aveva scritto, nel 1925, un signore di nome Tilden, vincitore di dieci Slam e precursore della tecnica tennistica canonizzata in regole. «Non leggevo più di tanto i testi. Sono uno che, per capire come funziona una cosa, deve farla e rifarla». Un credo mai abbandonato: difatti la bibliografia piattiana, nelle librerie sportive, non si trova perché non c’è. E il coach rivendica il rovesciamento dei canoni dell’insegnamento tennistico, che ha praticato con successo: «Secondo me è un grosso limite, la formazione al contrario. Tu parti dalla teoria per arrivare a chissà quale pratica… Io dico l’opposto: partire da una visione pratica, di problematiche vere: infatti, dove ci sono federazioni meno organizzate, gli allenatori sviluppano prima questa attitudine, come nei Paesi dell’Est Europa, la Serbia, la Croazia». Dove sono nati alcuni dei fenomeni passati da casa Piatti, i cui maestri difficilmente hanno sentito parlare di propriocettività. Sia chiaro: non è il trionfo dei praticoni sgrammaticati sui professorini. La teoria, sempre che sia corretta, serve per uniformare le conoscenze e offrire una base a chi, di Piatti, magari non ha il talento. È che, per tirare su un pilota da Formula Uno, non è essenziale mandare a memoria tutte le lezioni su sterzo e semiasse. Quelle vanno bene per prendere la patente, non per vincere i Gran Premi. Uno dei collaboratori di Piatti, Luigi Bertino, maestro dalla lunghissima esperienza e dall’eloquio composto, gli fa eco: «Quasi tutti partono dalla teoria per arrivare alla pratica. Riccardo fa l’opposto: prima prova sul campo una cosa, la sperimenta, poi determina una teoria. Che, però, arriva dalla pratica. Certo, non è un percorso per tutti». Come dire, bisogna essere capaci. C’era un signore di Pisa che partiva dall’osservazione di un fenomeno, provava a sperimentarlo riproducendolo in laboratorio, poi tentava l’elaborazione di un modello, infine la formulazione di una teoria. Guardava la Luna col cannocchiale e inventò il metodo scientifico.
Il dilemma, per il ventenne Piatti, era che l’Italia del 1982 non era pronta per uno come lui. Preso il diploma federale, a Como gli diedero i ragazzi dell’agonistica. Non era ciò che aveva in mente. Tornò a consultare Clerici, facendogli intendere che fare il maestro nel circolo somigliava a passare la vita a scrivere di incidenti stradali sul settimanale locale. «Lui mi disse che l’unica via era andare dove c’erano i coach: in Francia, o in America. Telefonò a Bud Collins, che mi consigliò due stage: uno da Nick Bollettieri, l’altro da John Newcombe. Rimasi due mesi da Bollettieri e imparai un sacco di cose». Racchiuse sotto un unico termine: sgobbare. «Mi facevano stare lì gratis, ma in cambio… Il primo giorno mangiai e poi chiesi cosa dovessi fare per sdebitarmi. Mi diedero la scopa per pulire il cesso. Finii in camera coi ragazzi che portavano le colazioni. Mi sentivo un crumiro: tennis fino al venerdì, i week-end passati a tagliare l’erba o pulire il pullman». Ma era ora di tornare: da Roma, Rasicci lo allettò, affidandogli Pistolesi, La Fratta, Baldoni, Castrichella e altri, tra i migliori giovanissimi della federazione. Soprattutto, Piatti aveva carta bianca sul da farsi e, in quei primi mesi, elaborò il suo schema di produzione giocatori. Dopo più di trent’anni lo ricorda a memoria: «Facile: c’erano sei campi, dodici ragazzi, due turni di due ore. Alle 13 facevo il programma: su ogni campo tre maestri, due sparring e uno che dava la palla. Muti. Non dovevano parlare mai, solo lavorare. Alle 13 e 45 arrivavano i ragazzi: prima di entrare, spiegavo cosa dovevano fare, poi si partiva. E io giravo per i campi. Alle 15 e 45 arrivava il secondo turno. Così, dal lunedì al sabato. La domenica, match. Ero l’uomo più felice del mondo».

Già si delineava il movente che avrebbe portato l’imprenditore Piatti a cozzare con le logiche di un ente dalla genetica parastatale. La inefficienza dell’organizzazione centralizzata gli stava stretta, la struttura piramidale faceva attrito con chi era cresciuto vedendo prendere decisioni solitarie e assumersene il carico. «Ci sono i pro e i contro. Anche il movimento federale francese, organizzatissimo e finanziato, è un bel sistema socialista». Dove bel non è un complimento: per chi è abituato a rendere conto a sé stesso, anche i gradi e la disciplina della struttura di Parigi, i compiti definiti, gli stipendi fissi somigliano all’incarnazione del male. «Il preparatore atletico, quando lavoravo con loro, era uno che alle diciotto staccava e tornava a casa». Avesse potuto, lo avrebbe licenziato. Ma non era il padrone. «Stando con Gasquet, ho notato che la federazione gli dava ancora 150.000 euro per pagarsi le spese. A Monfils, 300.000». E non ne avevano esattamente bisogno, per pagarsi le trasferte.

La scintilla che ha reso Piatti quello che è, il miglior coach italiano di sempre, fu la decisione di metterlo a guardia dei ragazzi under 16, con Roberto Lombardi. «Nel 1984 mi diedero Cristiano Caratti, Renzo Furlan, Federico Mordegan, Cristian Brandi e, per un certo periodo, anche Pietro Pennisi. Lì iniziò il dramma: dovevo aiutarli a diventare giocatori. Ricordo tanto lavoro, non li mollavo mai, neanche nei week-end. Secondo me, potevamo farcela. Ma, nel 1988, la federazione non li confermò. Mi dissero che io ero salvo ma i miei giocatori no, e che dovevo abbandonarli». A raccontare la rottura, una cronaca su Repubblica di Gianni Clerici, datata 1997: “[…] Roberto Lombardi, laureato in fisica, discuteva dei massimi sistemi. E Riccardo tirava la sua carretta da operaio dei campi. Non solo lavorava Piatti, ma si identificava talmente ai problemi dei suoi allievi da perderci il sonno, e da trattarli anche male, quando venivano meno alle sue aspettative: che erano sempre alte, spesso al di sopra delle possibilità dei tapini. Un giorno, sui campi di allenamento del Roland Garros, mi portò a dargli un’occhiata, alla sua truppa. Era composta da tre piccolini, e il quarto, quello di statura dignitosa, era più magro di un fachiro. Riccardo lesse uno smarrimento totale nei miei occhi. “Ce ne andiamo dalla federazione” mi informò. “Panatta e compagni hanno deciso che questi quattro non valgono niente. Gliela faremo vedere noi”. Fui costretto a pensare che, per una volta, la federazione avesse visto bene. Ma, dopo un paio d’anni, di fronte a Caratti nei quarti di finale dell’Australian Open, mi dissi che Riccardo era un visionario di grande intuito, e io un conformista miope”.

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Riccardo Piatti è nato a Como l’8 novembre 1958. In carriera ha allenato i Piatti Boys (Renzo Furlan, Cristiano Caratti, Cristian Brandi e Federico Mordegan), Omar Camporese, Ivan Ljubicic, Novak Djokovic, Milos Raonic, Richard Gasquet e ora Borna Coric. Ha poi aiutato tanti altri giovani giocatori e coach a emergere. Il suo fiore all’occhiello è il Piatti Tennis Center di Bordighera, accademia di alta specializzazione, base di allenamento fissa o temporanea di tanti ottimi giocatori professionisti, o aspiranti tali.
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