Il dilemma, per il ventenne Piatti, era che l’Italia del 1982 non era pronta per uno come lui. Preso il diploma federale, a Como gli diedero i ragazzi dell’agonistica. Non era ciò che aveva in mente. Tornò a consultare Clerici, facendogli intendere che fare il maestro nel circolo somigliava a passare la vita a scrivere di incidenti stradali sul settimanale locale. «Lui mi disse che l’unica via era andare dove c’erano i coach: in Francia, o in America. Telefonò a Bud Collins, che mi consigliò due stage: uno da Nick Bollettieri, l’altro da John Newcombe. Rimasi due mesi da Bollettieri e imparai un sacco di cose». Racchiuse sotto un unico termine: sgobbare. «Mi facevano stare lì gratis, ma in cambio… Il primo giorno mangiai e poi chiesi cosa dovessi fare per sdebitarmi. Mi diedero la scopa per pulire il cesso. Finii in camera coi ragazzi che portavano le colazioni. Mi sentivo un crumiro: tennis fino al venerdì, i week-end passati a tagliare l’erba o pulire il pullman». Ma era ora di tornare: da Roma, Rasicci lo allettò, affidandogli Pistolesi, La Fratta, Baldoni, Castrichella e altri, tra i migliori giovanissimi della federazione. Soprattutto, Piatti aveva carta bianca sul da farsi e, in quei primi mesi, elaborò il suo schema di produzione giocatori. Dopo più di trent’anni lo ricorda a memoria: «Facile: c’erano sei campi, dodici ragazzi, due turni di due ore. Alle 13 facevo il programma: su ogni campo tre maestri, due sparring e uno che dava la palla. Muti. Non dovevano parlare mai, solo lavorare. Alle 13 e 45 arrivavano i ragazzi: prima di entrare, spiegavo cosa dovevano fare, poi si partiva. E io giravo per i campi. Alle 15 e 45 arrivava il secondo turno. Così, dal lunedì al sabato. La domenica, match. Ero l’uomo più felice del mondo».
Già si delineava il movente che avrebbe portato l’imprenditore Piatti a cozzare con le logiche di un ente dalla genetica parastatale. La inefficienza dell’organizzazione centralizzata gli stava stretta, la struttura piramidale faceva attrito con chi era cresciuto vedendo prendere decisioni solitarie e assumersene il carico. «Ci sono i pro e i contro. Anche il movimento federale francese, organizzatissimo e finanziato, è un bel sistema socialista». Dove
bel non è un complimento: per chi è abituato a rendere conto a sé stesso, anche i gradi e la disciplina della struttura di Parigi, i compiti definiti, gli stipendi fissi somigliano all’incarnazione del male. «Il preparatore atletico, quando lavoravo con loro, era uno che alle diciotto staccava e tornava a casa». Avesse potuto, lo avrebbe licenziato. Ma non era il padrone. «Stando con Gasquet, ho notato che la federazione gli dava ancora 150.000 euro per pagarsi le spese. A Monfils, 300.000». E non ne avevano esattamente bisogno, per pagarsi le trasferte.
La scintilla che ha reso Piatti quello che è, il miglior coach italiano di sempre, fu la decisione di metterlo a guardia dei ragazzi under 16, con Roberto Lombardi. «Nel 1984 mi diedero Cristiano Caratti, Renzo Furlan, Federico Mordegan, Cristian Brandi e, per un certo periodo, anche Pietro Pennisi. Lì iniziò il dramma: dovevo aiutarli a diventare giocatori. Ricordo tanto lavoro, non li mollavo mai, neanche nei week-end. Secondo me, potevamo farcela. Ma, nel 1988, la federazione non li confermò. Mi dissero che io ero salvo ma i miei giocatori no, e che dovevo abbandonarli». A raccontare la rottura, una cronaca su Repubblica di Gianni Clerici, datata 1997: “[…] Roberto Lombardi, laureato in fisica, discuteva dei massimi sistemi. E Riccardo tirava la sua carretta da operaio dei campi. Non solo lavorava Piatti, ma si identificava talmente ai problemi dei suoi allievi da perderci il sonno, e da trattarli anche male, quando venivano meno alle sue aspettative: che erano sempre alte, spesso al di sopra delle possibilità dei tapini. Un giorno, sui campi di allenamento del Roland Garros, mi portò a dargli un’occhiata, alla sua truppa. Era composta da tre piccolini, e il quarto, quello di statura dignitosa, era più magro di un fachiro. Riccardo lesse uno smarrimento totale nei miei occhi. “Ce ne andiamo dalla federazione” mi informò. “Panatta e compagni hanno deciso che questi quattro non valgono niente. Gliela faremo vedere noi”. Fui costretto a pensare che, per una volta, la federazione avesse visto bene. Ma, dopo un paio d’anni, di fronte a Caratti nei quarti di finale dell’Australian Open, mi dissi che Riccardo era un visionario di grande intuito, e io un conformista miope”.
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