Ogni maledetto lunedì, Marco Imarisio, stimato giornalista del Corriere della Sera, si alza trafelato per spulciare il ranking ATP. No, non gli interessa chi sia il numero uno del mondo. Semplicemente controlla dove sono finiti Patrick Brydolf, Markus Eriksson e Stefan Ryderstedt. Ed è così ogni giorno, pronto a gioire per la vittoria di Christian Lindell in un torneo Future o a disperarsi per l’ennesimo infortunio di Daniel Berta. Succede quando un paese, in questo caso la Svezia, diventa una fede assoluta.*L’autore giura di non fare abuso di sostanze alcoliche, né di aver scritto questo articolo sotto stato di coercizione
SUCCEDE CHE CI SI INNAMORA. E poi si soffre per una vita intera, nei secoli fedele a un’idea, a un’immagine, a una sensazione che ti ricorda quando eri più giovane, quando eri bambino. Oppure deve essere la refrattarietà al cambiamento, in un mondo dove tutti si spostano la coerenza deve essere necessariamente una virtù, anche se forse sarebbe opportuno destinarla a una causa migliore di questa.
Me lo ripeto anche oggi, dopo aver patito la mia umiliazione quotidiana. È mattino presto. La casa è ancora silenziosa. Nella stanza in fondo al corridoio dormono i miei bambini. Accendo il computer, con la stessa apprensione che si prova al cospetto di un oracolo. Digito il sito dell’Atp, non guardo nemmeno i risultati del giorno, i tornei dei grandi. Vado in basso, ancora più in basso dei challenger. E poi guardo. Al primo turno del future di Antalya, Patrick Brydolf ha preso 6-2 6-2 da tale Marcin Gawron, polacco numero 398 del mondo. E non posso neppure lamentarmi, perché ci sono trecento e passa posizioni di differenza nel ranking Atp, quindi non dovrebbe trattarsi di una grande sorpresa. Andiamo oltre. Daniel Berta si è iscritto a un future in Germania. “Tournament information not yet available”. Perfetto, l’efficienza tedesca dov’è finita? Comunque, niente risultato significa speranza ancora in vita. Digito il nome nel blog dei tennisti svedesi. Ah. Si è infortunato di nuovo. Dopo aver vinto nel 2009 il Roland Garros juniores ha fatto la fortuna degli ortopedici. Il consueto trionfo. Appena diciott’anni e ha più rogne di mio zio, che è nato quando il Duce parlava dal balcone di piazza Venezia. Mi resta solo Ervin Eleskovic, allora. È del 1987 e non ha mai superato la trecentesima posizione del ranking, una volta l’ho visto perdere al challenger di Orbetello da uno che forse gli facevo tre game anch’io. Ma gli atti di fede prevedono anche la maturazione ritardata, hai visto mai… No, non ho visto niente invece. Questa ignobile pippa ha varcato la Manica per andare fino a Sheffield, passare un turno contro l’irresistibile Alexandre Penaud, numero 916 del mondo, e beccare 6-4 6-2 da Stefano Galvani, che – con tutto il rispetto – non è la reincarnazione di Ken Rosewall. Mai una soddisfazione, mai.
A questo ci si riduce. A compulsare ogni lunedì mattina il ranking dell’Atp per vedere se Markus Eriksson è finalmente riuscito a entrare nei primi 700, a seguire i progressi di Stefan Borg (omonimo, purtroppo) che a soli 29 anni è già nei primi mille, e la sua ascesa sembra davvero irresistibile. Rafa e Nole stanno tremando, anche perché devono guardarsi le spalle dai progressi di Jonathan Grezcula, di Carl Bergman (l’autunno scorso ha fatto due semifinali consecutive in altrettanti challenger ucraini, mica bruscolini), di Milos Sekulic, di Michael Ryderstedt. Un’armata gialloazzurra che avanza spietata come un sol uomo, quando saranno tutti in età pensionabile forse riusciranno a passare i quarti al torneo over 50 del circolo di Malmoe. Fatico a prendere sonno, in questi giorni. C’è un chiodo piantato nel mio cervello, un assillo dal quale non riesco a liberarmi. Christian Lindell, unico possibile decente giocatore di questa banda di degenerati, ha dichiarato di essere incerto tra la gloriosa nazionalità svedese (da parte di padre) e quella brasiliana (la mamma). Non aiuta il fatto che parli in portoghese stretto e su YouTube non riesco a decrittare il suo verbo, posso solo aiutarmi leggendo la mimica facciale. Mi sa che va in Brasile, del resto gioca soltanto lì, tra Ipanema e Bahia, a pensarci bene non è che puoi dargli torto.
Forse è il caso che mi presenti, prima che qualcuno chiami il 118. Tutto sommato credo di essere una persona normale, neppure un cattivo soggetto. Ho un lavoro che mi piace, una famiglia che mi piace ancor di più, sto facendo progressi anche con la seconda palla in top-spin, segno evidente che ogni uomo può trovare il proprio riscatto nel corso della vita. Credo che la mia ossessione sia colpa di papà, ma non pensate a storiacce edipiche. Lui era anche in buona fede, mi ha insegnato a giocare (male) brandendo la sua Maxima di legno con corde in budello, ancora oggi cerca di curarmi lasciandomi intendere con astuti giri di parole che forse anche Lewis Hoad, il suo idolo di gioventù, aveva qualche lontano parente in quel di Göteborg. Ma a papà il tennis piaceva e piace ancora oggi, è uno di quelli che se c’è Federer che gioca in Australia va a dormire e mette la sveglia all’ora che il figlio gli suggerisce dopo aver consultato l’order of play. Siamo fatti così, da qualcuno si deve pur prendere. La mia infanzia è piena di ricordi in bianco e nero. Passando a cose serie, tutti quelli della mia generazione sanno dov’erano e cosa facevano in almeno due momenti della nostra storia recente, la tragedia di Vermicino e il sequestro di Aldo Moro. E io non faccio certo eccezione. Soltanto che io ricordo bene anche dov’ero e cosa facevo quando Björn Borg batté Ilie Nastase per il suo primo Wimbledon (sala tivù di un residence a Tirrenia), poi batté Connors per il secondo e il terzo (hotel a Numana), poi batté Roscoe Tanner giocando male (Gabicce Mare), e infine quella partita che tutti conoscete contro John McEnroe, sì proprio quella, 18-16 il tie-break del quarto set, e lui che vince al quinto lasciandogli un 15 sul proprio servizio. Essere sovrannaturale (Stintino, il primo anno di vacanza in Sardegna). Ci siamo detti tutto, mi sembra, non mi risulta proprio che Borg abbia giocato altre finali a Wimbledon, come del resto è noto che si sia sempre rifiutato di giocare agli Us Open, vero?
Fino a qui tutto normale, anche se me lo dico da solo. Nei miei sogni di bambino la Donnay nera era una spada, e chi non ci credeva era un pirata. Mi autodenuncio, già che ci sono. L’unica volta che ho rubato qualcosa in vita mia è stato al Penney di Vigevano. I miei genitori mi avevano spedito nel camerino a provarmi un paio di jeans, io ne venni fuori con un poster piegato in quattro e infilato sotto al maglione. Qualcuno aveva appeso alla parete un poster della Diadora che immortalava l’esultanza estatica di Björn al suo terzo Wimbledon, con annessa faccia incazzatissima di Jimmy Connors che si avvia verso la rete per stringergli la mano quando è evidente che invece lo vorrebbe eviscerare con le succitate mani. Io l’ho anche incontrato, il mio eroe. Credo fosse il 1979, si giocava ancora il torneo indoor di Milano. L’ostensione avvenne di fronte a un gruppo di ragazzini che facevano il corso di tennis nel circolo vicino al vecchio Palasport, quello crollato nel 1985 (lo avessero chiesto a lui, che è nato a Södertälje, glielo avrebbe detto agli architetti che se fai un palazzetto con il tetto concavo, è facile che quello si imbarchi non appena fa una nevicata decente).
Ogni ragazzino aveva l’onore di fare due palleggi a mezzo campo. Quando arrivò il mio turno ero così emozionato, così divorato dall’attesa dell’agnizione, che gli sparai una cannonata di dritto che manco Sampras. La pallina si perse su Saturno, credo. A pensarci bene, potrebbe aver sbattuto contro il palasport di fronte, lesionando le fondamenta. Forse non è stata colpa della neve. Piansi, quando una Gazzetta dello Sport abbandonata sul frigorifero dei gelati di un bar mi informò che il mio eroe si era ritirato. I miei genitori mi avevano pietosamente nascosto la ferale notizia. Avevo pianto anche prima, quando si era sposato Mariana Simionescu, perché insomma, Spencer Tracy deve stare con Katherine Hepburn, non con Anna Mazzamauro, con tutto il rispetto anche per lei.
Comunque, la mia carriera di svedesologo è cominciata quel giorno in un bar di Milano, quando ho scoperto di essere rimasto tennisticamente vedovo di Borg. (Questo è uno degli articoli fisicamente più impegnativi della mia vita, perché quando nomino Björn Borg ho la tendenza ad alzarmi in piedi, e battere su un Mac in posizione eretta fa male alla schiena quasi quanto tirare un dritto come faceva Magnus Gustafsson). Cercavo qualcuno che lo potesse sostituire, un eletto che riempisse il mio vuoto esistenziale. Sono stato fortunato, ne ho trovato una dozzina abbondante. Conoscete tutti la storia (gli svedesologi hanno la pericolosa tendenza a credere che anche gli altri, quelli normali, sappiano a memoria il punteggio di ogni singola vittoria di Mats Wilander negli Slam, e non parlo di finali, ma anche di primi turni), quindi è inutile che mi ripeta. Arrivò subito Mats, e furono anni felici.
Ma ormai la mia ossessione era avviata verso un’insana deriva di nicchia. Mi appassionavo di più a soffrire per l’innata fragilità di Henke Sundström, che ballò una sola estate (1984, numero 6 al mondo) e fu uno dei tre giocatori che riuscirono a battere John McEnroe nel suo anno di grazia, peraltro in finale di Davis (13-11 6-4 6-3), prima di cedere alla vita agiata e all’ostilità del clan Wilander, che non lo amava per via del suo conto corrente familiare. Negli anni Ottanta il mio unico vero idolo era Joakim Nyström, il tennista più nordico della storia, essendo nato a Skellefteå, appena 23 chilometri dal circolo polare artico. Era bellissimo, lo dico subito. Con i capelli lunghi dietro, come Bono Vox dell’epoca e i paninari che infestavano Milano. Lo incrociai nei sotterranei del Palalido, torneo di Milano 1986, l’anno delle sue cinque vittorie compresa la stesa che rifilò a Noah a Monte Carlo (6-3 6-2, tutte le citazioni di questo articolo sono fatte a memoria altrimenti che razza di svedesologo sarei). Era febbraio, e lui girava a torso nudo in compagnia di una creatura incantevole che si chiamava Suzanne, come la canzone di Leonard Cohen ma era solo sua moglie. Per onor di cronaca arrivò in finale per essere martirizzato da Ivan Lendl (6-2 6-4 6-4).
Durante le vacanze estive, come di consueto, invece di andare in spiaggia passavo il mio tempo a frugare tra le notizie in breve dei quotidiani sportivi per leggere i risultati del mio beniamino nei tornei europei su terra rossa. Quarti di Kitzbuehel: De la Peña-Nyström 1-6 6-2 rit. Ebbi un presentimento. Oddio, gli era successo qualcosa. Fui tentato di prendere l’aereo (e poi la slitta) per Skellefteå, all’epoca non c’era ancora Internet, e non so se rendo l’idea. Mesi senza sapere nulla, e infine, dopo aver inutilmente tentato di coinvolgere anche Fbi, Cia, Sismi e Sisde alla ricerca di notizie sulla sorte di Joakim, vengo a sapere che si è fatto male al ginocchio. Il presagio che si avvera. Non si riprenderà più da quell’infortunio, giocherà ancora qualche anno, tramutandosi in un orrido pallettaro, ma non sarà più quello di prima. Grazie a Nyström ho conosciuto anche la sofferenza sportiva, il martirio che infine diventa estasi. Perché Jokke era anche uno straordinario perditore patentato, una che se c’era da vincere qualche partita che ti fa davvero svoltare, ecco che lui la buttava regolarmente nel cesso, caratteristica che possedeva in quantità industriali anche Anders Järryd, curioso esempio di svedese segaligno, forse il tennista più legnoso mai apparso nel circuito, che però almeno gli Slam di doppio li vinceva.
La menzione d’onore nel Pantheon delle sconfitte di Nyström va senza dubbio agli ottavi di finale di Wimbledon 1985, due volte a servire per il match contro tale giovinastro, un certo Boris Becker, e due volte rimasto come un fesso a due punti dai quarti di finale (poi Jarryd provvederà da par suo a omaggiare Boris della semifinale). Non male anche l’orrenda umiliazione subita per mano di Pat Cash in una finale di Davis sull’erba (6-4 6-1 6-1). I perfidi australiani gli avevano fatto vincere un torneino di preparazione, convincendo così Nyström di essere un prodigio di volleatore. Ricordo con un certo disagio il sorriso cattivo di Cash che gli faceva giocare 8-9 volèe, tutte orrende, prima di bucarlo con il suo rovescino piatto. Umiliazione. La nobile sconfitta è un concetto che in quegli anni Ottanta si insinua subdolo nella nazione svedese. Dipende dai punti di vista, capisco. Mikael Pernfors che conduce 6-1 6-1 4-1 contro un Connors ormai ben piantato negli anta, per gli amanti di Jimbo è un ricordo glorioso, un’altra straordinaria perla da aggiungere al rosario di rimonte compilato in carriera dal cattivone americano. A me girano i cosiddetti ancora oggi, così come fa ancora male ricordare Pernfors nel singolare decisivo della finale di Davis 1986, due set avanti contro Pat Cash prima di subire una lezione di serve and volley. Quella almeno fu un’eroica resistenza (2-6 4-6 6-3 6-4 6-3), chiamiamola così, e Pernfors, svedese atipico per via dei suoi studi americani, mi ha regalato una meravigliosa volata fino alla finale del Roland Garros, prima di essere preso a pallate da quel rompiscatole di Lendl.
Anni di abbondanza, comunque. A un certo punto c’erano più svedesi nei top ten che vallette alle feste di Arcore, benché avessero tutti la pericolosa tendenza a farsi male (gli svedesi, non le vallette). La conseguenza di questo ben di Dio era l’oblìo al quale il mondo consegnava le altre gemme presenti nel regno. Non io, beninteso. Li ho amati tutti, da Jan Gunnarson, decente doppista arrivato nei primi 30, fino a Ulf Stenlund, brutto anatroccolo (non era un adone, proprio no) dal gioco di una noia mortale, che nessuno ma proprio nessuno riesce a ricordare, ma prima di spaccarsi i legamenti di entrambe le ginocchia riuscì a salire al numero 23 del mondo, quindi in Italia oggi sarebbe un vecchio saggio che dispensa perle di saggezza su Supertennis. A ben pensarci, se non eri proprio forte, essere svedese in quegli anni era complicato. Magari eri numero 25 del mondo e solo l’ottavo-nono del tuo Paese.
Kent Carlsson, il diavolo rosso che ha ispirato la celebre canzone di Paolo Conte (come, non lo sapete?) è un rimpianto e un motivo d’orgoglio. Era una specie di Nadal ante litteram, una furia arrotina capace di dare 6-1 6-0 a Paolo Canè nei quarti del torneo di Bologna. Io c’ero, davanti alla televisione. La partita si ricorda per quello, e perché Paolino fece 8 punti in tutto, ma Carlsson, che aveva una certa propensione a dare stese terrificanti agli italiani (ricordo un 6-0 6-0 a Massimo Cierro), fece anche altro, avrebbe fatto molto di più. C’era un dettaglio, però. Aveva una gamba più corta dell’altra, e non di poco, circa 3 centimetri e, per quanto curiosa, questa caratteristica fisica non è propriamente indicata per chi vuole giocare a tennis. A lui e a Joakim devo il mio passaggio della linea d’ombra, forse il momento più alto della carriera di svedesologo. Quarti di finale in notturna a Roma, dopo un temporale che aveva fatto calare la temperatura a livelli siberiani. Per dire: Nystrom, quello del petto nudo a febbraio, giocò gran parte del match in felpa. Vince lui 5-7 7-5 6-1, la partita dura tre ore e mezza di pallettoni alti quattro metri sopra la rete.
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Il giorno dopo Rino Tommasi scriverà sulla Gazzetta dello Sport: «Infine l’ultimo quarto tra gli svedesi Kent Carlsson e Joakim Nyström, una partita alla quale solo uno psicopatico potrebbe aver assistito fino alla fine». Non conosco Tommasi di persona, e mi sono sempre chiesto come aveva fatto a sapere. Perché io c’ero, insieme a qualche inserviente infreddolito che a momenti mi chiudeva dentro il Foro Italico. Non mi sono mai più sentito così orgoglioso. Quello fu il punto di non ritorno. In un’edizione successiva del Foro Italico, 1987, batté a sorpresa Lendl (6-4 2-6 6-3) giocando orridi candeloni che rischiavano di abbattere gli aerei in fase di atterraggio su Fiumicino. Il Tg1 delle 20 titolò così l’ultima notizia, quella di sport: «Ivan Lendl, numero uno del mondo, eliminato da uno sconosciuto». Scrissi una vibrante lettera di protesta, «Ehi, quello è Joakim Nyström signori, come vi permettete?». Non ho mai ottenuto risposta.
Gli anni Novanta sono ancora un periodo di ottimo raccolto, e nulla fa presagire la carestia che si abbatterà sulle nazione svedese di lì a poco. La degustazione comincia con una menzione d’onore, due chicche. Christian Bergström era uno svedese di seconda fila, un atipico, leggero, bellino da vedere, che giocava bene solo a Wimbledon dove fece quarti e ottavi e a Flushing Meadows (quarti). Ha giocato per 12 anni vincendo un solo torneo a fine carriera. Mikael Tillström giocava quando la schiena e gli addominali glielo consentivano, cioè poco. In perenne attesa di guarigione, galleggiò ai bordi dei primi 30, guadagnandosi la fama di underdog, o mina vagante, fate voi, battendo Ivanisevic, Ferreira, un po’ di nobili compatrioti. Nel 2000 rappresentò il suo paese alle Olimpiadi di Sydney, e mi arrabbiai moltissimo perché perse al primo turno contro uno sconosciuto, un ragazzotto svizzero, tale Roger Federer. Poi si dedicò al doppio e alla pubblicità delle panciere Gibaud. Solo per intenditori.
Magnus Gustafsson invece vince una decina di tornei sulla terra battuta con il suo dritto a braccio completamente teso, e sebbene avesse la curiosa caratteristica di perdere regolarmente ogni partita importante che giocava con Karel Novacek, il depravato che inguaierà Mats Wilander per una oscura storia di cocaina (mi rifiuto di pensare che Mats possa essere colpevole, chiaramente si trattava di una bieca cospirazione, ultimo colpo di coda del Kgb che sfruttò il tennista ceco e la propensione di entrambi a fare tardi la sera).
Nel 1997 Jonas Björkman impazzisce alla tenera età di 25 anni e tira fuori una stagione da mostro che lo porta fino al numero 4. Come ormai da tradizione, si rifiuta di vincere la semifinale di Flushing Meadows contro Greg Rusedski venendo colto da crisi di panico in ognuna delle circa settemila palle break che ebbe al quarto e quinto set sul servizio del picchiatore canadese, poi giustamente punito in finale da Pat Rafter. Il 1998, invece, è l’anno della finale di Coppa Davis a Milano. Al Palaforum di Assago si stava come un tifoso interista nella curva Sud del Milan, anche se l’eroico sacrificio di Andrea Gaudenzi, che offrirà il tendine della spalla alla patria (nel senso di Italia) fece, per una volta sola, vacillare la mia fede. Il suo avversario era un giovane Magnus Norman, fresco di operazione al cuore e tornato in perfetta salute per circa un quarto d’ora prima di sfasciarsi l’anca, una caviglia e probabilmente soffriva anche di sinusite cronica. Nel tempo libero lasciato dai frequenti ricoveri Magnus, tennista di rara noia, e tenete presente che è di svedesi che stiamo parlando, riuscirà ad arrivare al numero 2 del mondo (bene), a fidanzarsi con Martina Hingis (non benissimo), e naturalmente a perdere una finale del Roland Garros contro un Guga Kuerten appena accettabile, che aveva battuto poche settimane prima a Roma, finale che verrà ricordato solo per il fatto che Norman passò il suo tempo a sputare come un lama, forse aveva esagerato con la choucroute. Da ricordare, di Norman: la vittoria al secondo turno di Wimbledon, 14-12 al quinto su un Goran Ivanisevic che aveva servito 52 ace, e il match point concesso a Sebastian Grosjean senza aspettare l’overrule del giudice di sedia. Sempre stati corretti, gli svedesi, lo dice sempre anche Tommasi.
Poi è arrivato Söderling, ma ce ne occupiamo tra qualche capoverso. Prima c’è da ricordare un campione mancato e da affrontare una questione spinosa. Con ordine: Magnus Larsson, se solo avesse avuto voglia e non fosse stato colpito da questa specie di Macumba svedese (ho già scritto che tra Stenlund e Gustafsson fanno cinque operazioni chirurgiche in due?) sarebbe stato un campione vero. Picchiava forte dritto e servizio, toccava la palla come pochi. E nella lunga storia del ranking Atp è stato l’unico top ten dai piedi piatti. Non era certo un regolarista, ma era ammirevole la regolarità con la quale perdeva le partite importanti, memorabile un ottavo di finale a Melbourne contro Sampras, (4-6 6-7 7-5 6-4 6-4) con match point a favore. Giocava sempre bene contro Pistol Pete, lo batté quattro volte, e tra il 1994 e il 1998 questa non era una peculiarità da poco. Era anche molto simpatico, con la sua aria fricchettona che qualche dubbio su attività cannabinoidi in corso te lo faceva venire. A suo modo è stato un precursore, inaugurando la filiera dei tennisti con la pancetta, venendo poi spudoratamente imitato da Marcos Baghdatis e David Nalbandian.
Con Thomas Enqvist sono ancora troppo arrabbiato per affrontare la sua biografia tennistica con un minimo sindacale di serenità. Uno che entra nei primi cinquanta a 17 anni e si ritira a 30 senza aver mai imparato a colpire il dritto due volte di seguito senza sbagliare, dovrebbero processarlo per crimini contro il tennis. Mi aveva illuso, e mi ha lasciato senza spiegazioni, il mascellone Thomas. Troppe volte gli ho creduto, per ritrovarmi poi a piangere in silenzio. Nel 1995, a vent’anni e poco più, è il nome più caldo del circuito, celebrato anche da David Foster Wallace, e non so se mi sono spiegato. Nell’estate americana gioca meglio di tutti, vince due tornei, va in semifinale due volte, è considerato il favorito tra tutti quelli che non si chiamano Sampras. E perde al primo turno, in modo ignominioso, contro Byron Black, che arrivava dallo Zimbabwe. Gli tengo il muso per quattro mediocri anni, e quello si ripresenta in Australia, dove batte netto Pat Rafter e poi Mark Philippoussis. Favorito, favorito, in semifinale trova Lapentti e in finale deve scherzare con Kafelnikov che stava pensando di ritirarsi e poi invece ha assunto Larry Stefanki come coach, e quello ha trovato il modo di riconnettergli ancora il cervello. Il russo, un signore, celebra la vigilia dicendo ai giornalisti che «Enqvist non ha la statura morale per vincere uno Slam». Ha ragione, ma queste cose non si dicono, accidenti. Primo set in scioltezza, solo un doppio fallo sul set point interrompe lo stato di grazia. Enqvist si ricorda che Kafelnikov ha soltanto detto la verità e perde nove game di fila, riesce a fermare l’emorragia – i telecronisti dicono così – facendo il break ma lo restituisce con due doppi falli consecutivi. Al quarto set arriva inutilmente al tie-break per giocarlo con addosso una paura che neppure le vittime di Freddy Krueger: 7-1 per Kafelnikov.
Ma vattene a casa, Thomas, che è meglio. Va aggiunto che i due resteranno in buoni rapporti. Quando si ritrovano su un campo da tennis, un torneo indoor in Europa, credo Marsiglia, finisce in rissa, con Enqvist che insegue Kafelnikov negli spogliatoi, anche in questo caso senza raggiungerlo, a ulteriore dimostrazione che di statura morale ce n’era davvero poca. Non lo perdonerò mai più, neppure se ripenso alle due vittorie 9-7 al quinto in finale di Davis contro Cedric Pioline e Arnaud Boetsch, prima che il povero Nicklas Kulti, gigantone troppo presto considerato la grande speranza del tennis moderno (non gli avevano guardato bene i piedi: porta il 50 di scarpe) perda l’ultimo singolare 10-8 al quinto dopo aver sperperato tre match point consecutivi. Per la cronaca, la carriera di Kulti finisce quel giorno, quindi sorvolo senza indugi.
Ecco, ci siamo. Qualcuno avrà notato una leggerissima assenza tra questa parata di svedesi. Non sono impazzito, non faccio come quello scrittore che un giorno, per raccontare il ritiro dal mondo e il conseguente isolamento di Lucio Battisti, riempì due pagine di giornale senza mai nominarlo, creando qualche comprensibile smarrimento nel lettore. Anche perché il più bello di tutti è ancora tra noi, ogni tanto lo si vede svolazzare nel circuito delle vecchie glorie, e ancora oggi c’è di peggio da guardare. Il problema è che Stefan Edberg non è mai stato svedese. Non in senso stretto, almeno. Che nessuno me la meni con la storia del figlio del poliziotto di Västervik, non si tratta di una questione geografica. Qui si parla di bellezza. Quelle che esprimeva Edberg era assoluta, e questo lo rendeva cittadino del mondo intero. Era di tutti, non solo svedese. Non ho mai trovato qualcuno capace di dirne male, qualcuno che capisca di tennis, s’intende. L’angolo con la sua Annette e il fedele Tony Pickard era una sorta di famiglia reale tennistica. Dava tranquillità. Era un signore. Giocava un tennis poetico.
Un vero svedesologo deve commuoversi con Stenlund, troppo facile farlo con Edberg. La generale ammirazione che lo avvolgeva (“Ah, quella volèe di rovescio”, “Ah, la seconda di servizio in kick come quella dei padri australiani”) ha sempre prodotto in me lo stesso effetto che mi facevano i Rem dopo il boom mondiale di Losing my religion. Prima erano solo miei, erano un oggetto di culto. Adesso che sono di tutti, continuo ad amarli, ma da lontano. Certo, Edberg ha più volte dimostrato di essere un vero svedese. Ha perso tanto anche lui, ma ha vinto quasi altrettanto. E comunque non mi risulta che abbia mai giocato una finale al Roland Garros contro un immigrato cinese buttando via dieci palle break in un quarto set dominato e poi perso. Quelle sono leggende metropolitane. Vabbè, ammetto: l’hanno giocata. Mi fa ancora troppo male parlarne. Ero nella cucina di casa dei miei genitori, in piedi, e di quella partita ricordo l’orrido servilismo di Giampiero Galeazzi, che sempre lo aveva chiamato Tacchino freddo, raramente la Rai ha avuto telecronisti in grado di distinguere tra una volèe e un soufflé. Nel quarto set, quando tutto sembrava andare come doveva andare (perché, perché non è stato così, perché?) lo celebrava come “guerriero vichingo” – il canone Rai prevede anche l’abbonamento alle frasi fatte – sulla via delle redenzione. Al quinto, quando Chang raccoglieva i resti di Stefan, riprese a infierire ben sapendo che stava uccidendo un uomo morto. Lo avrei ammazzato, confesso. E nella classifica dei dolori sta ben alta la semi di Wimbledon contro Michael Stich, tre tie-break consecutivi persi dopo aver vinto 6-4 il primo. Non me ne vogliano i tanti ammiratori dell’airone tedesco (anche questa è una citazione di Galeazzi), ma quella fu una tremenda ingiustizia sportiva.
E poi, all’improvviso, resto solo. Non ci sono più gli svedesi. Solo qualche improbabile fiammata, in un deserto nordico. Scomparsi. Evaporati. Tutti a parlare della Spagna, di quanti spagnoli ci sono in giro, che bella scuola, dobbiamo imparare da loro. E noi? Dove siamo finiti? Sul finire degli anni Novanta e nel nuovo secolo le gioie sono state poche, e per questo più intense. Ricordo ancora lo sguardo di rimprovero misto a compassione del mio caporedattore di allora, quando appesi sullo schermo del suo computer la foto di Thomas Johansson con la scritta a pennarello Swedish hero of the day. Aveva appena vinto il torneo di Toronto, battendo quell’infame di Kafelnikov in finale. Nel 2002 Johansson vinse l’Open di Australia, una delle edizioni più brutte della storia, arrivando in finale dopo aver sofferto contro Karol Kucera (avessi detto…) e venendo omaggiato del titolo da Marat Safin. Quell’inopinato trionfo da parte di uno svedese di seconda fila – diciamo la verità, non era proprio un fenomeno – è ormai diventato un paradigma di riferimento in qualunque discussione tennistica. Bolelli può vincere uno Slam? Beh, se l’ha vinto anche Thomas Johansson, è l’inevitabile risposta, c’è speranza per tutti. Non è proprio così, lo sapete bene, ma la casualità di quello Slam fu tale da non sollevare speranze neppure in me, che tendo a sperare in tutto quel che è tennis svedese, compresi i futures di cui sopra. Altra storia sarebbe stata quella dell’omonimo Joachim, per il quale anche il grande Gianni Clerici ebbe a dire che «se giocava così» poteva essere l’unica alternativa al nascente regno di Roger Federer. Serviva e volleava alla grande, aveva un dritto mostruoso. Cacciò Roddick dagli Us Open del 2004. Ma quell’inciso, «se giocava così», era persino abbondante. «Se giocava» sarebbe stato più corretto, perché credo che Joachim sia stato integro per un solo quarto d’ora in vita sua, forse in coincidenza di una curiosa congiunzione astrale. Per il resto, sempre infortunato, fino a un prematuro ritiro.
Quando la notte era più buia, e nessuna luce all’orizzonte, succede qualcosa. Persino io avevo perso ogni speranza in quello svedese così atipico. Nella sua vita Robin Söderling poteva scegliere tra tre diversi mestieri: serial killer, paziente di un manicomio, tennista. Ha scelto l’ultima professione, senza peraltro rinunciare alle altre due, semmai inglobandole. Tra il 2003 e il 2009 l’ho seguito abbandonando sul cammino ogni speranza. Per due nastri al tie-break del terzo perse una semifinale a Stoccolma contro Todd Martin, che avrebbe potuto lanciarlo anzitempo. Vinse l’ultimo torneo di Milano venendo quasi alle mani con Radek Stepanek, e ricordo ancora il simpatico «fuck you» con il quale sottolineava ogni errore dell’avversario, palesemente sorpreso dal ritrovarsi davanti un avversario più scorretto di quanto lo fosse lui. Poi naturalmente si fece male. Poi prese per i fondelli Rafa Nadal in mondovisione, e devo dire che in quel frangente rivelò una certa personalità imitando la smutandata con annessa grattata di sedere dello spagnolo. Certo, perse 7-5 al quinto ma fu un gran momento. Poi si fece ancora male, spezzandosi un polso mentre palleggiava a Montréal con Marat Safin. Poi rientrò, perdendo qualche finale in torneini, giocando malissimo negli Slam, finendo il 2008 al numero 16 del mondo. Andrea Scanzi, compilando le pagelle di quell’anno, scrisse che quello sarebbe stato il suo best ranking di sempre, non era pensabile andasse più in alto. E infatti non lo pensavo neppure io, per quanto Söderling, forse perché sempre sull’orlo del collasso nervoso, sia uno degli svedesi meno noiosi che abbia mai visto.
Quel giorno, infatti, decido che non voglio vedere. Non voglio assistere allo scempio. A Roma, un mese prima, ha preso 6-1 6-0 da quel mostro di Nadal, litigandoci nuovamente, facendo una figura miserrima quando cerca di rubacchiare un punto cerchiando il segno di una pallina caduta a un metro da quella chiamata buona dal giudice di sedia. Due giorni prima ho seguito in play by play la sudatissima vittoria su David Ferrer, così convinto di non poter perdere sul rosso da Robin da spaccare un paio di racchette per la rabbia. Ma Nadal in ottavi di finale al Roland Garros è un’altra cosa. Non voglio, non posso vedere. Vado a passeggio per Milano, fischietto, lavoricchio in ufficio. Quando ricevo un sms con questo testo, “Hai visto che roba?” alzo le spalle. Lo so, deve essere stato un massacro. Altro sms: “Complimenti!”. Sfottete pure, tanto ormai ci sono abituato. Suona il telefono. Papà. “Senti, ma quel tuo… come si chiama, Söderling?” “Sì, papà, quanto ha beccato?” “No, ha vinto, ha battuto Nadal, una partita incredibile”. “Papà, smettila di prendermi anche tu per il culo. Quanto ha perso?” “Ti dico che ha vinto, non l’hai guardata?” “Vabbè papà, se ti diverti continua pure, ci vediamo a cena”. Ma un tarlo si sta insinuando. No, non è possibile. Richiamo. “Papà, ma dici davvero?” Risposta affermativa.
Quella notte ho bighellonato cercando su YouTube le immagini, trovando solo quelle del tie-break dell’ultimo set. Poi mi sono precipitato all’edicola di piazza Oberdan, non per comprare film porno ma per aspettare la Gazzetta dello Sport. Lo ha fatto, accidenti, lo ha fatto. Ha giocato con la bava alla bocca, in uno stato di trance dettato dall’odio e dalla frustrazione. Ha battuto il mostro. La più grande sorpresa nella storia del tennis moderno. Ed è stato lui, Robin il pazzo, il mio Robin ripudiato e ormai abbandonato, grazie di questa epifania svedese, grazie per sempre. Molto tempo è passato da allora, e Soderling sapete tutti chi è, cosa fa. Forse non vincerà mai uno Slam, troppe poche variazioni al suo gioco, troppo grosse quelle gambone da sollevatore di pesi. Ma con la sua presenza fissa nei primi cinque del mondo sta coprendo il peggior periodo di sempre del tennis svedese e a noi svedesologi – non ne conosco altri, in verità – ha regalato altre soddisfazioni, vedi alla voce Roland Garros 2010, Roger Federer.
Ormai, nel mondo superglobalizzato, Robin è di tutti, una scommessa vinta, data per acquisita. Tifo per lui, non mi deprimo se perde come ha fatto con Dolgopolov in Australia. Lo vedo sempre, capisco quando ha tutti i neuroni allineati e quando invece finge di essere in forma ma è solo un’illusione. Gli voglio bene, ma come a un cugino. Ormai la mia deriva è altrove. La mia mente naviga negli iperspazi dei futures, dei challenger, alla ricerca di uno svedese da seguire, per poter un giorno guardare tutti ed esclamare: «Ma come, non lo conoscevate? Ve l’avevo detto che era forte, lo vidi nel lontano 2011 al challenger di Tampere…». A proposito, questa settimana non è andata così male. Certo, Robin ha perso contro Dolgo, ma Milos Sekulic ha fatto semifinale al future di Eilat, in Israele, arrendendosi solo all’ungherese Adam Kellner, 382 del mondo, quindi 400 posizioni più in alto del mio svedese. E Michael Ryderstedt ha fatto addirittura quarti al challenger di Heilbronn, Germania, erano anni che non ci arrivava, magari a 28 anni può cominciare la scalata, magari un giorno torneremo ad essere quel che siamo stati, magari Daniel Berta guarirà, magari il tennis sarà nuovamente svedese…
Ve l’avevo detto all’inizio del mio sproloquio, adesso ve lo ripeto. Non imitatemi. Non è una bella vita, quella dello svedesologo, ci sono cose migliori a cui dedicare il proprio tempo. Ho scritto questo articolo come forma di auto-terapia, ma non credo che sortirà effetti benefici. E se proprio vi siete impietositi, incerti se considerami un povero coglione nostalgico oppure una persona bisognosa di cure, nel caso abbiate scelto la seconda opzione mandate al direttore di questo giornale l’indirizzo del vostro psicanalista di fiducia. Ma deve essere bravo davvero, altrimenti non serve. Astenersi non referenziati e junghiani. Noi svedesologi siamo persone serie, non abbiamo tempo da perdere. Dai che la prossima settimana ne abbiamo tre in tabellone al future di Feucherolles. Coraggio.
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